lunedì 21 novembre 2011

Il berlusconismo non è ancora finito. - di Paolo Flores d’Arcais





Berlusconi si è dimesso, il governo Monti ha preso il suo posto, ma il dopo-Berlusconi non è ancora cominciato. E non sembra neppure vicino. Infatti, lo strapotere di cui ha goduto Berlusconi, incompatibile con i principi elementari di ogni democrazia liberale, e ovviamente in conflitto con la Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista, consisteva solo in parte nel suo controllo del governo. Il suo “nocciolo duro” risiedeva (e risiede) nel dominio monopolistico (e sempre più orwelliano) del sistema televisivo, nella rete di leggi “ad personam” che gli hanno garantito l’impunità giudiziaria (malgrado in tribunale sia stato riconosciuto colpevole dei fatti addebitati almeno una decina di volte), nell’intreccio di poteri eversivi, criminali, deviati (pezzi di servizi segreti, magistrati corrotti, manager di grandi gruppi parastatali con giganteschi interessi nel petrolio e negli armamenti, ambienti mafiosi, despoti di paesi stranieri...) con cui ha sempre più impastato il proprio potere patrimoniale e politico, realizzando un vero e proprio Stato parallelo privato.

Solo quando questa piovra di illegalità (di cui le decine di leggi “ad personam” costituiscono lo scudo “legale”) sarà stata radicalmente smantellata, potremo dire che il dopo-Berlusconi è cominciato davvero, cioè irreversibilmente. Fino ad allora Berlusconi resterà nella vita politica italiana molto più che come “convitato di pietra”: stagnerà come cancro di poteri antidemocratici, capace in qualsiasi momento di metastatizzare, piombando di nuovo l’Italia nel baratro.

Non è certo un caso se l’unico ministero su cui Berlusconi è riuscito a imporsi a Monti e Napolitano è quello della Giustizia: circolava con insistenza il nome di un magistrato, la dottoressa Livia Pomodoro, presidente del tribunale di Milano e docente presso l’Università cattolica (non certo una bolscevica, dunque). Avrebbe riportato quel ministero alla decenza, avrebbe forse convinto i cittadini che la scritta che campeggia in ogni aula giudiziaria, “la legge è eguale per tutti”, non è una beffa. Proprio per questo Berlusconi ha posto il veto. Il nuovo ministro (per la prima volta una donna), Paola Severino, è l’avvocato che ha difeso il gotha della finanza e imprenditoria (e fin qui nulla di male, si dirà), ma anche Giovanni Acampora, una delle protesi berlusconiane nella corruzione di magistrati con cui Berlusconi riuscì a scippare a De Benedetti la proprietà della maggiore azienda editoriale italiana, la Mondadori. Il regista di quello scippo fu l’avvocato Previti, braccio destro di Berlusconi (che lo nominò ministro della Difesa), e il quotidiano iper-berlusconiano “Il Foglio” scrive in prima pagina che proprio a casa Previti Berlusconi ha fatto la conoscenza di Paola Severino. Frequentazioni inquietanti, a dir poco.

La prova che il potere di Berlusconi va molto al di là del suo controllo di governo l’ha fornita una “gaffe” ripetuta praticamente da tutti nei giorni scorsi. Perfino il capo dell’opposizione Bersani, ha parlato dei “diciassette anni di berlusconismo”, eppure in questo lungo periodo il Partito democratico è stato al governo, con Prodi e con D’Alema, per ben sette anni! Ma il potere reale, il potere anomalo e anticostituzionale, in effetti, è sempre rimasto a Berlusconi, in forme crescenti, fino a trasformarsi in vero e proprio regime. Perciò si dovrà vedere se il governo Monti avrà il coraggio di smantellarlo davvero, questo potere, restituendo alle parole legalità e informazione il loro significato. Monti non potrà invocare alibi: Berlusconi infatti è oggi in parlamento nel suo momento di massima debolezza. Se impedisce a Monti di governare si va a nuove elezioni, con uno “spread” tra titoli di Stato italiani e tedeschi che sarebbe da vigilia di “default”, e con la certezza che gli elettori infliggerebbero all’amico di Putin (il nuovo zar di Russia è l’unico governante al mondo che ancora difende Berlusconi) una sconfitta devastante.

Il governo Monti andrà perciò valutato su tre fattori: l’equità (o il classismo) con cui affronterà la crisi economico-finanziaria, il ripristino della legalità e la de-totalitarizzazione del sistema televisivo.

La questione della legalità è del resto decisiva anche per l’emergenza finanziaria del debito pubblico. Poche settimane fa i governi (di destra!) tedesco ed inglese hanno realizzato con la Svizzera un accordo sui capitali fuggiti dai rispettivi paesi verso le banche dei quattro cantoni. Il meccanismo è congegnato in modo da impedire a questi ricchi “occulti” di nascondersi in nuovi e più inaccessibili paradisi (grosso modo: se lo fanno, le banche riveleranno i loro nomi, e la magistratura tedesca e inglese li perseguiranno penalmente). Le banche faranno pagare a questi clienti una tassa che si aggira sul 30% e che verrà girata ai governi di Merkel e Cameron. Che intascheranno rispettivamente 35 e 10 miliardi di euro. Gli stessi banchieri svizzeri hanno calcolato che con identico accordo l’Italia ricaverebbe 30 miliardi. Ma Monti non ha fatto cenno a questa ovvia misura di equità, e neppure ad analoga tassa da pretendere dai capitali ritornati in Italia grazie allo “scudo fiscale” che li tassò solo al 5%. Eppure si tratta di privilegi “di classe” particolarmente odiosi, indifendibili, oltre che di indecenti violazioni della legalità fiscale. Coinvolgono al massimo duecentomila persone, una esigua minoranza: se non vengono colpiti, le parole “legalità” ed “equità”, pronunciate da Monti, resteranno mera retorica.

Un aspetto nel quale la continuità tra Monti e Berlusconi è praticamente certa è purtroppo quello della laicità. Cioè del disprezzo per la laicità dello Stato, che si manifesta nel peso del Vaticano nella vita pubblica. I ministri nelle grazie della Conferenza episcopale sono moltissimi, a cominciare dal superministro per tutte le attività produttive (telecomunicazioni comprese) Corrado Passera, che il cardinal Bagnasco ha voluto poche settimane fa relatore ad un importantissimo convegno di tutte le associazioni cattoliche. Del resto, il rettore dell’università cattolica, controllata dal Vaticano, professor Ornaghi, doveva addirittura diventare ministro dell’istruzione (un tempo si chiamava “ministero dell’istruzione PUBBLICA”!). E’ stato dirottato al ministero dei beni culturali, perché almeno su questo il Pd ha saputo tener duro. Ma il peso clericale nel governo resta comunque fortissimo (un grande oncologo famoso in tutto il mondo, il prof. Veronesi, era il candidato più accreditato per la sanità, ma è ateo e favorevole all’eutanasia: il veto vaticano è stato immediatamente ascoltato). 

Perciò, se Monti si occuperà esclusivamente del debito pubblico, e non anche della moltitudine di cortigiani con cui Berlusconi ha occupato (spesso con veri e propri criminali) tutti i gangli vitali del paese, liberando per prima cosa la tv (e facendo pagare a Mediaset le nuove frequenze che Berlusconi premier stava regalando a Berlusconi imprenditore), non solo il dopo-Berlusconi non comincerà ma verrà preparato il terreno per un “ritorno del caimano” tragico per il Paese. Sembra difficile, tuttavia, che Monti, Passera (e Napolitano, cui si deve questo governo) rinunceranno a fare un po’ di pulizia: ne andrebbe del loro credito internazionale, oltretutto.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-berlusconismo-non-e-ancora-finito/

La figlia di Scaroni alla Consob l’ente che vigila sull’Eni. - di Francesco Ridolfi


L'amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni 


La giovane avvocatessa, figlia dell'amministratore delegato del colosso dei carburanti, assunta a tempo determinato (con contratto di cinque anni) senza concorso pubblico. Guadagnerà circa 60-65 mila euro l'anno, più i soldi delle eventuali trasferte. “La riscoperta e la pratica di valori etici, che sembravano essere stati dimenticati, si pongono come la Stella polare del nostro agire”. Parole di Giuseppe Vegas, presidente della Consob, a conclusione del suo intervento a chiusura dell’anno 2010-2011 della scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza, il 30 giugno scorso. Detto, fatto: pochi giorni dopo (il 13 luglio), dopo aver bloccato cinque concorsi pubblici per 12 posti, la Consob assume a tempo determinato (con delibera numero 17870) Clementina Scaroni, avvocatessa, figlia del numero uno dell’Eni Paolo Scaroni. Il tutto, ovviamente, senza indire un bando pubblico. Risulta infatti “vincitrice – così recita la delibera della Commissione della Consob – della selezione per il profilo di esperto in diritto commerciale e amministrativo”. Una selezione per titoli in cui ha ottenuto il punteggio 54,0. E si tratta di un buon contratto: categoria “C1”, equiparato alla qualifica di funzionario di secondo livello. A tempo determinato sì, ma della durata di cinque anni, cosa che potrebbe condurre a una stabilizzazione, by-passando, appunto, il concorso pubblico. Anche sulla retribuzione Clementina non avrà da lamentarsi: almeno 60-65 mila euro lordi l’anno.


L’AVVENTURA in Consob della figlia di Scaroni è iniziata il primo settembre. Lei, che prima lavorava nel noto studio legale milanese Bonelli Erede Pappalardo (di cui è cliente l’Eni), è stata destinata alla filiale di Milano dell’authority, nella prestigiosa sede di via Broletto. E si occuperà del contenzioso della Consob. L’avvocatessa era stata destinata, al momento dell’assunzione, alla Divisione Intermediari / Ufficio Vigilanza e Albo Intermediari e Agenti di Cambio. Poi con un successivo ordine di servizio è stata spostata “a decorrere dal 3 ottobre 2011 – si legge nel documento – presso la sede di Milano, alla Consulenza Legale / Ufficio Intermediari e Mercati”. Una sede distaccata dell’ufficio legale, che da sempre risiede a Roma. Sede sulla cui utilità ci sarebbe da discutere. L’ufficio legale della Consob, infatti, si occupa per lo più di controversie di fronte al Tar. E la sede del Tribunale amministrativo competente per l’authority è quella romana del Lazio. A Milano ha poche cause, gestite finora da un paio di legali esterni di quel foro (come avviene in altre città). L’avvocatessa, se in futuro avesse necessità di discutere una causa davanti al Tar, dovrà raggiungere la Capitale in “missione”, con un ulteriore costo a carico della collettività: in Consob, lo prevede il contratto, il dipendente in trasferta, oltre al rimborso del viaggio, si ritrova in busta paga da 100 a 150 euro (dipende dall’inquadramento) al giorno in più. Ad agosto il senatore dell’idv Elio Lannutti ha presentato un’interrogazione parlamentare all’ora ministro dell’Economia Giulio Tremonti con cui critica “l’assunzione di un esperto di diritto commerciale alla Commissione nazionale per le società e la borsa senza avere indetto alcun concorso pubblico – scrive Lannutti – e la scelta di Clementina Scaroni, che dell’amministratore delegato di Eni non è un’omonima”. E il senatore dell’Idv ha chiesto “misure urgenti per mettere la Consob in condizione di esercitare al meglio le funzioni di efficienza, trasparenza e legalità a presidio dei risparmiatori, avendo riguardo anche alla disciplina relativa alle assunzioni di personale nonché alla definizione di percorsi di carriera”.


IL 9 MAGGIO scorso Paolo Scaroni è intervenuto all’incontro annuale della Consob con il mercato a Piazza Affari. In quell’occasione ha spiegato che “il sistema di corporate governance italiano ha molti pregi e qualche difetto e ha pescato a piene mani dal modello inglese”, che è “concepito per governare public company” e che prevede una separazione fra proprietà e gestione dell’azienda. Chissà se proprio il “modello inglese” ha ispirato l’amministratore delegato del gruppo italiano con maggiore capitalizzazione in Borsa, la cui figlia lavora nell’authority che ha il compito di vigilare anche sull’Eni. Del resto anche lo stesso Vegas è transitato da un incarico di governo (viceministro dell’Economia) al vertice di un’autorità di controllo, che dovrebbe essere indipendente.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/20/la-figlia-di-scaroni-alla-consob-lente-che-vigila-sulleni/171943/

Incredibile!! Voyager smaschera Mario Monti !!! (curiosità)

La Contri e l'auto blu" privilegiata. - di Marco Preve






NEL 1992, come segretario generale della Presidenza del Consiglio era stata soprannominata la "bestia nera" dei benefit, visto che in due settimane aveva tagliato ben 56 macchine di servizio ad altrettanti alti burocrati di Stato. Ma oggi Fernanda Contri, 76 anni, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, è proprio una di quei privilegiati che all'auto blu non vogliono rinunciare. Intendiamoci, la macchina con autista è assolutamente legittima, ma in questi tempi di crisi l'opportunità si fa sostanza oltreché motivo di scandalo. Tanto che lo hanno capito pure al palazzo della Consulta. Proprio pochi giorni fa è stata decisa la clamorosa abolizione di un diritto: agli ex giudici costituzionali niente più auto a vita ma solo per un anno a partire dal momento dell'abbandono della carica.
Per chi invece ne disponeva già da diversi anni i dodici mesi scattano dall'11 settembre giorno dell'approvazione della modifica al regolamento.
Avvocato Contri, è la fine di un'era? «Visto che non ho mai approfittato di alcuna situazione e non ho mai rubato un centesimo, anzi ho sovente sacrificato il mio tempo e ci ho rimesso pure del mio, in qualche maniera, certo mi sono sentita privilegiata, però...» AVVOCATO Contri, non approfittare e non rubare dovrebbe essere la regola, specie per un giudice Costituzionale.
«Certo, lo dico perché purtroppo non è così. Perchè è ben diverso il comportamento disinvolto di alcuni parlamentari che hanno continuato a fare il ministro e l'avvocato. Io da ministro non ho messo piede in tribunale.
E per due volte mi sono cancellata dall'Albo per alcuni anni perdendo così tutti i clienti».
Torniamo all'auto blu che lei ha dal 2005, da quando ha lasciato la Consulta.
«Certamente questi sono momenti in cui dobbiamo cercare di contribuire ad uscire da una situazione di grave crisi economica e la decisione della Corte Costituzionale mi trova d'accordo.
Io però l'auto di Stato l'ho sempre utilizzata per ragioni legate al ruolo. Anche quando ero in servizio mi servivo della mia. A Madonna di Campiglio, dove ho in affitto un appartamentino sono sempre andata con la mia Musa ».
Però all'auto blu - benzina e manutenzione incluse - non ci rinuncia e di questi tempi un diritto può apparire come un privilegio.
«Si è vero, alla disponibilità non ho mai rinunciato. Oddio, devo dire che la macchina mi è molto utile, andando spesso a Roma ci metto meno che con l'aereo. Certo è stata una comodità e l'ho vissuta come un privilegio ma, ripeto, necessario per certe incombenze. Io ad esempio le tessere per il treno, per le partite di pallone o il cinema non le ho mai ritirate».
Sono rinunce pesanti. Lei però appartiene alla sinistra (segretario alla presidenza del consiglio con Giuliano Amato, ministro con il governo Ciampi) e i privilegi lì non dovrebbero essere di casa.
«Ripeto, l'ho sempre usata in relazione ad impegni istituzionali, ad esempio per andare alla festa della Repubblica o a quella dei Carabinieri».
Lei però non è una semplice pensionata: è tornata ad esercitare l'avvocatura, è presidente onorario del gruppo Italbrokers, consulente dell'Autorità Portuale, consigliere della Porto Antico. «E' un'attività assai ridotta.
Guardi, più che altro presiedo enti benefici, oggi ho partecipato a tre consigli di questo genere.
Comunque credo di poter dire che dell'auto blu ne ho approfittato nel senso buono, visto che mi spettava. E siccome qualche anno fa mi sono trasferita a vivere in riviera, e raggiungere Genova in treno è un problema, la macchina di servizio mi è servita».
E tra un anno, pendolare della Fs? «Non penso. Credo che mi fermerò un po', forse è il momento».



Gli sprechi di Palazzo Silvio. - di Emiliano Fittipaldi






Lo scorso anno la presidenza del Consiglio ha speso 4,7 miliardi. Con un aumento record tra staff, viaggi, show, indennità, mobili, jet e auto blu. Ecco la lista inedita.


Mario Monti ha promesso "sacrifici". Ma ha detto pure che chi governa deve avere il coraggio di metter finalmente mano ai "privilegi". Da premier incaricato non ha specificato a chi o cosa si riferisse, ma è assai probabile che ce l'avesse con le lobby, le corporazioni, gli evasori fiscali e, soprattutto, con i politici e le loro prebende. "Monti non è uno stupido, e sa che se vuole far trangugiare l'amara medicina agli italiani, dovrà innanzitutto tagliare le franchigie e gli sperperi della Casta", chiedono in coro commentatori ed economisti.

Qualcuno consiglia l'abolizione immediata delle Provincie, altri puntano sul dimezzamento dei parlamentari, ma di sicuro il professore potrebbe cominciare a fare le grandi pulizie cominciando dalla sua nuova casa. Palazzo Chigi è infatti un mostro succhiasoldi, l'istituzione più costosa d'Italia: "l'Espresso" ha letto le spese (inedite) della presidenza del Consiglio del 2010, scoprendo che la corte di Silvio Berlusconi è costata oltre 4,7 miliardi di euro in 12 mesi, con un aumento del 46 per cento rispetto alle uscite registrate nel bilancio 2006.

La crescita può in parte essere spiegata con la decisione di Romano Prodi di trasferire alcune competenze sotto la presidenza del Consiglio (che così ha inglobato le politiche per lo Sport, per la Famiglia e la Gioventù), né bisogna dimenticare che una grande fetta dello stratosferico budget viene mangiata dagli interventi "attivi" dei vari dipartimenti, Protezione civile su tutti: nel 2010 l'emergenza per il terremoto in Abruzzo ha pesato sui conti per oltre 800 milioni di euro. Ma l'anno scorso - come, va detto, succedeva anche ai tempi dei governi di centrosinistra - una valanga di denaro è servita anche a far sopravvivere il Palazzo: centinaia di milioni di euro sono partiti per il funzionamento dell'ufficio del presidente Berlusconi e del sottosegretario Gianni Letta, dell'ufficio stampa retto da Paolo Bonaiuti e dei vari "servizi" controllati dal segretariato generale, senza dimenticare le strutture di diretta collaborazione e i dipartimenti guidati da sottosegretari e ministri senza portafoglio. Alla fiera degli sprechi hanno partecipato tutti.



Andiamo con ordine. Per il solo "funzionamento" di Palazzo Chigi nel 2010 lo Stato ha impegnato quasi mezzo miliardo di euro, che se ne vanno in stipendi ai dipendenti, indennità, missioni, affitti e comitati di ogni forma e specie. Eppure, nel maggio di un anno fa, in piena crisi economica, il Cavaliere aveva promesso solennemente di ridurre la spesa pubblica. "La spesa è ingente, capillare e non più sostenibile, soggetta a pessime gestioni e malversazioni". La colpa? "I governi consociativi" della Prima Repubblica e "il governo della sinistra" che avrebbe fatto esplodere i costi. Che fare, dunque? La ricetta migliore, spiegava l'ex capo del governo, è semplice: "Limare gli sprechi degli enti, dell'amministrazione pubblica e della politica".

Se l'ex presidente del Consiglio predicava bene, la sua presidenza del Consiglio ha razzolato male. Per fare un confronto tra le spese di Berlusconi e quelle dell'ultimo governo di centrosinistra basta prendere il bilancio del 2007, l'ultimo gestito da Prodi e il suo staff. Per il segretariato generale (l'ufficio comandato da Manlio Strano che gestisce le funzioni istituzionali, le spese di rappresentanza, i voli blu, la biblioteca di Palazzo Chigi e il servizio per "il raccordo organizzativo tra le varie strutture della Presidenza") nel 2010 la spesa corrente è arrivata a 631 milioni di euro, di cui 363 milioni inghiottiti dai costi fissi per stipendi e uffici vari. Sono cifre degne di una reggia imperiale, che non conoscono freni: così l'anno scorso per il funzionamento del segretariato il Cavaliere ha speso 80 milioni in più rispetto al 2007.

L'ufficio stampa di Palazzo Chigi, che già con Prodi costava mezzo milione l'anno, con il Cavaliere è schizzato a quota 645mila: i comunicati di Paolo Bonaiuti e dei vari collaboratori per diffondere il credo di "Silvio" e le opere del primo ministro ci sono costati in pratica 1.700 euro al giorno. Altri 81 mila euro sono finiti nell'acquisto di giornali, 77 mila per le pubblicazioni on line della Biblioteca Chigiana.



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gli-sprechi-di-palazzo-silvio/2166761

domenica 20 novembre 2011

«Società e posti di lavoro ai figli: così pagavano i politici». - di Fiorenza Sarzanini

Un'immagine di archivio di Guido Pugliesi (sito Enav)
Un'immagine di archivio di Guido Pugliesi (sito Enav)


Le accuse: con la valigetta nell'ufficio dei centristi. Matteoli, Brancher e Tremonti referenti dell'ad.


ROMA - Posti di lavoro e consulenze affidate ai figli e ad altri familiari di politici. Quote di società private intestate a parlamentari oppure a loro parenti che ottengono appalti dalle aziende pubbliche. Eccolo il «sistema di illegalità» illustrato dal giudice Anna Maria Fattori che porta all'Enav e ad aziende del Gruppo Finmeccanica. Ecco come «il potere politico, distratto dalla cura della res pubblica, esige di trarre dall'esercizio del potere economico di cui individua i detentori, utilità per i singoli e per i partiti che li sostengono». Sono le rivelazioni del consulente Lorenzo Cola, dell'imprenditore Tommaso Di Lernia, del commercialista Marco Ianilli a delineare «con dichiarazioni ripetute e concordanti la serie di rapporti, relazioni, cointeressenze e conflitti di interessi personali e imprenditoriali». E così a descrivere il meccanismo delle «frodi fiscali da cui generano risorse extracontabili utilizzate per erogare somme non dovute a infedeli apparati e uomini dello Stato e delle imprese per ottenere appalti e nomine».
I politici di riferimento
Nell'ordinanza vengono citati come politici di riferimento di Guido Pugliesi, l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti, il senatore Giulio Andreotti, l'ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli. Ma la lettura delle carte processuali fa ben comprendere come gli «omissis» nei verbali dello stesso Cola, apposti dal pubblico ministero Paolo Ielo, nascondano un quadro ben più ampio nel quale sono inserite personalità tuttora al centro di verifiche e accertamenti. Una ricerca che, dice il giudice, è invece già terminata in maniera positiva per ricostruire quanto accadde il 2 febbraio 2010 nella sede dell'Udc in via Due Macelli a Roma.


È Di Lernia a raccontare di aver versato 200 mila euro al tesoriere Giuseppe Naro alla presenza di Pugliesi. Scrive il giudice: «Nell'interrogatorio del 25 maggio 2011 l'imprenditore afferma che Pugliesi aveva sempre rifiutato le offerte di denaro, tuttavia "nell'ultimo periodo" gli aveva sollecitato un'offerta di denaro presso l'ufficio dell'onorevole Casini; che a tale richiesta aveva aderito prelevando 200 mila euro da un conto acceso presso un istituto della Repubblica di San Marino dove si era recato accompagnato dalla segretaria Marta Fincato; che la consegna era avvenuta negli uffici dell'Udc dove era potuto accedere solo dopo che il Pugliesi, che ivi già si trovava, era sceso e lo aveva con sé sopra condotto; che a ricevere il denaro era stata una persona che gli veniva presentata come tesoriere dell'Udc, "forse un parlamentare"; che a questi Di Lernia era stato presentato dal Pugliese come "uno che lavora con Selex". Tali dichiarazioni sono state ribadite e circostanziate nel corso dell'interrogatorio del 13 luglio 2011 durante il quale Di Lernia riconosceva nell'effige fotografica di Naro Giuseppe la persona alla quale aveva consegnato il denaro e che non lo fece accedere nello studio personale in quanto vi era in corso una "bonifica"».


Date e incontri nell'agenda di Pugliesi
Questa versione viene confermata da Cola, che aggiunge un dettaglio: della tangente si parlò durante un incontro avvenuto a casa sua proprio con Pugliesi e Di Lernia. La segretaria di quest'ultimo conferma di averlo accompagnato in via Due Macelli «e in quell'occasione aveva con sé la valigetta solitamente utilizzata per il trasporto di documenti e denaro». Secondo le verifiche effettuate dai carabinieri del Ros «il 29 gennaio 2010 Di Lernia ha effettuato un prelievo per 206 mila euro dal conto corrente "Ciclamino" acceso in San Marino presso la banca commerciale Sammarinese».


Ma l'ultimo e più importante riscontro, secondo il giudice, è arrivato dall'agenda di Pugliesi perché «le annotazioni danno contezza sia di un pregresso appuntamento del 19 gennaio 2010 con Naro e altri due soggetti l'uno dei quali Di Lernia (come può agevolmente dedursi dal nominativo Naro collegato con due barre l'una al nome Di Lernia l'altro a nominativo che sembra indicare "Optimatica"), sia di un appuntamento il giorno 2 febbraio 2010 alle ore 9.30 con Naro, e alle 12.30 dello stesso giorno ancora con il Di Lernia e il Cola presso l'abitazione di quest'ultimo».


Nella «rete» Matteoli e Tremonti 
Per misurare «il grado di potere di Pugliesi» il giudice evidenzia «il numero di appuntamenti riportati sulla sua agenda, nonché lo spessore dei politici di riferimento dall'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti al senatore Andreotti nel cui studio effettua incontri, oltre che da annotate frequentazioni con i deputati Brancher e Naro». Poi si sofferma sul ruolo dell'ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli: «Giova osservare, sebbene potrà essere oggetto di approfondimento investigativo, che secondo quanto dichiarato da Di Lernia nel corso dell'interrogatorio del 26 luglio 2010 nella vicenda "Optimatica" vi era l'interesse del ministro Matteoli in quanto tale società avrebbe finanziato una fondazione che a quello faceva capo, così come di interesse investigativo potranno essere gli altri emersi riferimenti sui rapporti tra società collegate a Enav da elargizioni a partiti attraverso rapporti personali dei quali Pugliesi si rendeva promotore».


In questo quadro Di Lernia e Cola, in due diversi interrogatori, indicano «i vantaggiosi incarichi a parenti di uomini politici, nonché la titolarità di quote». E che altri nomi altisonanti possano essere contenuti negli atti ancora segreti si capisce quando il giudice afferma: «Se è vero che i rapporti, gli incontri, gli appuntamenti tra Pugliesi e Naro sono di per sé privi di valenza indiziaria, tuttavia proprio in considerazione delle modalità di influenza politica delle quali Pugliesi deriva la propria nomina, tali rapporti - calati come si deve in un contesto ambientale che denuncia continui interessi privati nelle scelte imprenditoriali dell'Enav e delle società da essa controllate, perdono siffatta neutralità significando piuttosto atti preparatori di concrete forme di "ringraziamento" di Pugliesi a coloro i quali, a ragione del ruolo politico parlamentare ricoperto, doveva il permanere del suo potere in Enav».


«Borgogni è un ladro di polli»
Altre tangenti, dunque, un fiume di denaro. Un meccanismo che, dice l'accusa, aveva tra i suoi snodi la Selex Sistemi Integrati amministrata dall'ingegner Marina Grossi. «Braccio operativo» per il sistema di false fatturazioni che avrebbero consentito di creare "fondi neri" sarebbe stato Manlio Fiore, direttore commerciale di Selex. È stato Cola, durante l'interrogatorio del primo settembre scorso, a indicare in Lorenzo Borgogni, responsabile delle relazioni istituzionali di Finmeccanica, «colui che conferì a Manlio Fiore il sistema delle sovrafatturazioni». E al termine delle verifiche effettuate dal pubblico ministero il giudice sottolinea come «Fiore costituisse lo snodo operativo in Selex per la costituzione del "sistema Enav" inteso come meccanismo di attribuzione di commesse che attraverso sottesi illeciti rapporti personali con sviamento dei poteri pubblici e privati garantiva illecite contribuzioni di denaro a singoli e a partiti». E quando motiva la scelta di detenzione in carcere sottolinea come fosse proprio lui «a indicare i soggetti a cui corrispondere utilità senza giusta causa».


Un sistema che anche Borgogni avrebbe gestito. In questo filone gli viene contestato di aver convinto gli imprenditori Di Lernia e De Cesare a pagare le rate della barca del parlamentare Pdl Marco Milanese, allora stretto collaboratore del ministro Tremonti. Si tratta di 224 mila euro per cui Milanese sarà processato con rito immediato a febbraio per illecito finanziamento. Il giudice non crede che Borgogni sia coinvolto nell'affare illecito e per questo ha negato il suo arresto. Tra gli elementi a discarico cita un verbale di Cola durante il quale il consulente indagato «riferisce, sia pure incidentalmente, della disistima di Milanese verso Borgogni, definito dal primo "un ladro di polli"». Del resto già le intercettazioni allegate al fascicolo processuale sull'operazione Digint avevano rivelato i contrasti tra i due con lo stesso Borgogni, che dopo aver accusato il ministro Tremonti di essere l'ispiratore delle inchieste contro Finmeccanica, citava Milanese tra «i suoi scagnozzi». 


Fiorenza Sarzanini


http://www.corriere.it/cronache/11_novembre_20/sarzanini-societa-posti-lavoro-ai-figli_e0e40114-134d-11e1-8f9c-85bd5d41d537.shtml

Mille anni alla 'ndrangheta del N0rd Condannati 110 affiliati alle cosche.



Il magistrato Ilda Boccassini (Newpress)

Dagli imputati applausi ironici e urla contro il giudice
«Danni di immagine a Regione e Comuni»

MILANO - Dagli arresti alla sentenza di primo grado in appena 14 mesi: quasi mille anni di carcere, inflitti dopo 32 ore di camera di consiglio dal giudice dell'udienza preliminare Roberto Arnaldi a 110 imputati su 119, hanno chiuso la prima metà processuale dell'operazione di 'ndrangheta «Infinito», istruita dalla Procura con zero pentiti ma 1 milione e 494mila contatti intercettati in due anni su 572 utenze, 25mila ore di telefonate, 20mila ore di colloqui registrati in auto-casa-campagne-ristoranti-lavanderie, e 63mila ore di video.
IL FILMATO - Compreso il filmato, «storico» non solo sul versante giudiziario, dei 22 partecipanti ripresi dai carabinieri il 31 ottobre 2009 mentre proprio dentro un centro sociale per anziani intitolato a Falcone e Borsellino nel Comune di Paderno Dugnano - e sotto l'egida del boss incaricato di "commissariare" i clan lombardi dopo i tentativi "autonomisti" stroncati con l'assassinio di Carmelo Novella - eleggevano il temporaneo referente della 'ndrangheta in Lombardia e il capo della "locale" di 'ndrangheta a Milano.
LE COSCHE IN LOMBARDIA - La sentenza riguardava due terzi dei 170 arrestati nel luglio 2010 dall'Antimafia milanese del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm Alessandra Dolci e Paolo Storari nel blitz coordinato con il fermo di altre 130 persone da parte della Procura di Reggio Calabria di Giuseppe Pignatone: una operazione che, a detta allora dei gip Ghinetti e Gennari, «a dispetto dell'apparente "non visibilità" del fenomeno 'ndranghetista in terra lombarda» comprovava «che la Lombardia è già da tempo sede stanziale di gruppi organizzati anche con modalità militare, che rivendicano e purtroppo realizzano un controllo del territorio antagonista a quello dello Stato», intuibile nei 130 attentati incendiari a danno di imprenditori e nei 70 episodi intimidatori negli ultimi tre anni in Lombardia pur senza denunce. 
I DANNI D'IMMAGINE - Significativo appare il riconoscimento dei danni d'immagine (seppure non quantificati dal giudice, che non ha concesso provvisionali immediatamente esecutive ma ha rinviato alla determinazione in sede di cause civili) a favore non solo del ministero dell'Interno e della presidenza del Consiglio, ma anche della Regione Lombardia, dei Comuni di Pavia, Bollate, Paderno, Desio, Seregno e Giussano, e della Federazione antiracket, costituitisi parti civili per le ripercussioni patite dal territorio a causa dei traffici delle 'ndrine.
LA REAZIONE - Applausi ironici, un battere sulle sbarre e sfottò di «buffone-buffone» e «lega lombarda» si sono sollevate alla lettura del verdetto, che non ha assolto alcuno degli imputati ai quali il pm che si è sobbarcata il peso del dibattimento, Dolci, muoveva l'accusa di associazione di stampo mafioso. Il giudice ha invece limato l'entità delle richieste di pena perché ha concesso le attenuanti generiche ai soli "partecipi" (non ai capi e promotori) e agli incensurati.
LE CONDANNE - Le pene più alte ad Alessandro Manno che ha avuto 16 anni, Pasquale Varca 15, Pasquale Zappia (che alla lettura si è sentito male) e Cosimo Barranca e Vincenzo Mandalari 14, e poi via via condanne da 12 a 4 anni: tutte incorporano lo sconto di un terzo legato alla scelta del rito abbreviato (cioè allo stato degli atti) anziché del dibattimento ordinario, in corso invece per altri 39 degli arrestati del luglio 2010. Tolti 6 proscioglimenti per «ne bis in idem» e uno per morte, gli unici assolti sono Francesco Barbaro, Rinaldo La Face, e su richiesta del pm l'ex assessore provinciale (indagato per corruzione) Antonio Oliverio nella giunta Penati 2007-2009 e poi nell'Udeur, mentre è stato condannato a 1 anno e 4 mesi per turbativa d'asta l' ex sindaco pdl di Borgarello (Pavia), Giovanni Valdes. Confiscati ai condannati molti dei beni sotto sequestro, che fino a 3,6 milioni di euro andranno a pagare le spese processuali, tra cui quelle per le intercettazioni.