La gran parte dei municipi italiani ha applicato la quota variabile alle pertinenze dell’utenza domestica chiedendo ai contribuenti più di quanto dovevano versare. L’interrogazione del parlamentare 5 Stelle, Giuseppe L’Abbate, e la replica del Mef.
Anche stavolta il diavolo sta nel dettaglio. Ad accorgersi del dettaglio un giovane parlamentare del Movimento 5Stelle, Giuseppe L’Abbate.
Con l’aiuto del suo commercialista ha notato che nel versamento della tassa sui rifiuti qualcosa non quadrava e per questo ha fatto un’interrogazione parlamentare. Il suo comune, Polignano a Mare nel barese, nel suo regolamento per la Tari aveva applicato la quota variabile a tutte le pertinenze dell’utenza domestica, compresi box e cantine. In realtà, come ha chiarito recentemente il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, si tratta di un’errata comprensione della legge di primo livello, secondo la quale la Tari, per la parte variabile, va applicata soltanto all’abitazione e non anche alle pertinenze.
Peccato che finora siano stati in pochi, nei regolamenti Tari, ad applicare la normativa come andava fatto ed è pertanto complicatissimo comprendere quanto i contribuenti abbiano già versato impropriamente. Per capire però se si è stati frodati nostro malgrado, è necessario constatare sull’avviso di pagamento — che contiene il riepilogo dell’importo da pagare — le istruzioni per il versamento (scadenza rate e codice tributo) nonché il dettaglio delle somme. È in questa parte che l’ente indica le unità immobiliari (con i dati catastali: foglio, particella, sub), la superficie tassata, il numero degli occupanti e la quota fissa e variabile distinta per ogni unità immobiliare. La quota variabile, ricordiamo, deve essere presente solo per l’abitazione, non anche per le eventuali pertinenze.
Per chiedere invece eventuali rimborsi è necessario attendere una circolare ministeriale del ministero dell’Economia, di cui lo stesso Baretta dovrà farsi carico, magari concertandosi con le associazioni dei consumatori.
Rinvenuti i fossili dei più antichi progenitori dei mammiferi: risalgono entrambi a 145 milioni di anni fa e appartengono alla stessa linea evolutiva che ha portato alla comparsa dell'uomo. I loro resti sono stati trovati in Gran Bretagna, lungo la Jurassic Coast del Dorset, sulla costa della Manica, e sono descritti sulla rivista Acta Palaeontologica Polonica.
Sono denti di due specie sconosciute, chiamate Durlstotherium newmani e Durlstodon ensomi, dal nome della baia di Durlston, e a studiarli è stato il gruppo di paleontologi dell'Università britannica di Portsmouth, coordinato da David Martill e Steve Sweetman.
A scoprirli, nel 2015, era stato uno studente universitario, Grant Smith: mentre preparava la tesi di laurea studiando alcune rocce del periodo Cretaceo, che va da 145 a 65 milioni di anni fa, si era accorto della presenza dei denti fossili. Li aveva quindi mostrati a Sweetman, che ne aveva intuito subito l'importanza: "sono rimasto a bocca aperta, erano denti mai osservati prima d'ora in questo tipo di rocce", ha detto.
L'analisi dei denti fossili ha indicato che appartenevano a piccoli roditori notturni che vivevano nascosti in tane all'ombra dei dinosauri, a quel tempo padroni della Terra. Dall'analisi dei denti è emerso che i primi mammiferi si nutrivano soprattutto di insetti e una delle due specie anche di piante. Il loro avanzato stato di deterioramento ha spinto gli studiosi a ritenere che questi progenitori dei mammiferi siano vissuti piuttosto a lungo. "Non è cosa da poco - ha concluso Per Sweetman - quando si condivide lo stesso habitat con i dinosauri".
Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domicliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Prima, invece, aveva fatto parlare di sé perché si era denudato a Palazzo dei Normanni. O perché era riuscito a controllare il sindaco, la maggioranza ma anche l'opposizione nel suo piccolo comune.
Quando lo esclusero dalla commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana ci rimase davvero male. Talmente tanto che mise in scena la più ridicola delle proteste: si presentò in mutande nella sala stampa del Parlamento regionale. Per poi coprirsi soltanto con la Trinacria. Un chiodo fisso quello di Cateno De Luca per la bandiera della Sicilia, ricamata persino sulla cravatta d’ordinanza fornita agli esponenti di Sicilia Vera, il movimento da lui fondato dopo un incessante pellegrinare da partito in partito. “Il colore che ho scelto è rosso-aranciato, quello della bandiera della Sicilia. Il rosso mi piace molti sostengono che io sia uno di sinistra che fa politiche di destra, forse un po’ è vero”, si autoincensava il deputato regionale, che con quel movimento si è pure candidato a governatore nel 2012. Sissignore: in Sicilia succede anche questo. Che un consigliere regionale noto per essersi denudato in pubblico, dopo aver conosciuto persino la galera, decida non di ritirarsi a vita privata ma di rilanciare: “Il presidente lo faccio io”. Prese l’1,2%, ma non si diede per vinto. E cinque anni dopo ci ha riprovato. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domicliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare.
Caf e sacchi edilizi – Per i giudici De Luca è “il dominus di una serie di società ed enti“, utilizzati per sottrarre al fisco 1,7 milioni di euro. Sono i vari Caf di un ente che si chiama Fenapi, acronimo di Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, di cui risulta essere il “direttore generale nazionale”. Il presidente, invece, è tale Carmelo Satta, arrestato con lui stamattina. E con lui coinvolto nell’inchiesta sul “sacco di Fiumedinisi“, il minuscolo paesino in provincia di Messina di cui De Luca era sindaco. E in cui, per i pm, avrebbe voluto realizzare una gigantesca speculazione edilizia con l’immancabile mega albergo dotato di centro benessere. Purtroppo lo arrestarono prima con l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio, insieme al fratello Tindaro: in famiglia evidentemente non piacciono i soliti Giuseppe e Francesco. La Cassazione definì “ingiusta” la sua detenzione, ma il processo è andato avanti: e sul capo del politico messinese pende ancora una richiesta di condanna a 5 anni di carcere.
Il caffè del galeotto del Masaniello di provincia – Nel frattempo si è ricandidato: a questo giro ha scelto l’Udc e Nello Musumeci. Ha preso 5mila voti ed è stato rieletto nonostante i problemi giudiziari, che in campagna elettorale lo avevano fatto finire di diritto tra i candidati impresentabili. “Ho avuto 15 procedimenti, 14 si sono conclusi con l’archiviazione”, sosteneva lui, promettendo querele e chiedendo un immotivato confronto pubblico col direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Lo stesso stile con cui ha commentato l’ultimo arresto. Ristretto ai domiciliari, ha accesso il computer senza neanche togliersi il pigiama: “Vi offro il caffè del galeotto“, ha scritto su facebook. Poi, non contento, ha pubblicato un video per spiegare di avere saputo in anteprima dell’arresto. “Me l’ha detto un parente di magistrati e di massoni“, è la sua versione. “Dedico questa ulteriore battaglia ai perseguitati dell’ingiustizia”, è invece il modo in cui dipinge la sua situazione giudiziaria. Sì perché questo piccolo ras delle preferenze di provincia crede davvero di essere un Masaniello del duemila. O almeno è quello che vuole fare credere ai suoi elettori.
Dai conigli all’Ars – Sul suo personalissimo sito racconta gli albori della sua carriera. “Da adolescente ho allevato conigli e raccoglievo origano,noci e castagne che poi vendevo alle putie (letterale, cioè negozi ndr) di Fiumedinisi sotto la severa vigilanza della mia mamma; quando frequentavo la scuola media durante le estati facevo il muratore con mio padre; mentre frequentavo il liceo passavo le mie estati a lavorare nei bar ed in inverno frequentavo uno studio legale messinese che si occupava di diritto previdenziale e sindacale”, scrive nella sua biografia. Chissà dove trovava il tempo per studiare, verrebbe da chiedersi. Di sicuro è col diritto previdenziale amministrato nei Caf della Fenapo che De Luca comincia a coltivare quel reticolo di rapporti sociali, poi trasformati in voti ad ogni tornata elettorale. Esordisce adolescente come attacchino della Dc, poi comincia la scalata: consigliere comunale, presidente del consiglio, sindaco della sua piccola città. Incarico che lascia dopo l’arresto nel 2011. E che non può più ottenere l’anno dopo, perché nel frattempo si è fatto eleggere sindaco nel vicino comune di Santa Teresa Riva.
Sindaco e opposizione sono roba sua – È a quel punto che il Masaniello peloritano si trasforma in Archimede Pitagorico della politica locale: candida due aspiranti primi cittadini, entrambi sostenuti dalle sue liste. Poi manda una lettera agli elettori, chiedendo di votare uno dei due candidati sindaco, ma optando per i consiglieri comunali del suo avversario: in pratica istituzionalizza il voto disgiunto. “È un chiaro e forte gesto di ribellione“, dice, ma non si capisce verso che cosa si dovrebbero ribellare i cittadini visto che nei precedenti due mandati il sindaco era sempre lui. Gli elettori, però, non ci fanno caso e votano in massa come dice De Luca: che quindi è riuscito nell’impresa di controllare il sindaco, la maggioranza, ma anche l’opposizione. “Con questi metodi da Repubblica delle banane si vuole fare del comune, invece che una casa di vetro, il cortile della propria abitazione”, si lamentava all’epoca il deputato Pd Filippo Panarello. Opinione minoritaria, evidentemenete, visto che nella zona De Luca lo hanno sempre votato in massa: il vassallo delle preferenze, inscalfibile neanche dopo indagini e arresti.
“Demoliamo la Regione” – All’Ars entra per la prima volta con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Poi passa con Grande Sud, la formazione autonomista di Gianfranco Micciché. Quindi opta per la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, fino al 2011, anno in cui cambia per sei volte gruppo parlamentare: in quello del Pdl arriva a “sostare” per tre ore e mezza, giusto il tempo di far saltare gli equilibri in una delicata conferenza dei capigruppo. Qualche anno prima, invece, riesce a riunire 12 deputati di destra, sinistra e centro e crea un bellicoso gruppo bipartisan che chiede di indire un referendum: la carica di parlamentare con quella di sindaco- sostengono – devono essere incompatibili. E peccato che in quel momento De Luca fosse nello stesso momento sindaco di Fiumedinisi e deputato regionale. ”Sono un battitore libero”, ripete spesso di se stesso. Durante una delle lussuosse kermesse del suo movimento, invece, si è presentato sotto il simbolo di un enorme piccone e lo slogan: ”Demoliamo la Regione siciliana“. Non si capiva se fosse una promessa o una minaccia. In ogni caso, per il momento, dovrà posticiparla.
Alcuni votano gli indagati....perché sono affascinati (e vorrebbero essere come loro) da: - quelli che si industriano per prevaricare sugli altri; - quelli che vogliono far soldi subito senza dover faticare troppo; - quelli che amano i compromessi; - quelli che sfruttano gli altri rubando loro idee e meriti; - quelli che fanno promesse per ottenere qualcosa, tanto sanno in partenza che non manterranno mai le promesse fatte; - quelli che non hanno alcun rispetto per gli altri e per la legalità e che venderebbero la loro madre chiudendo entrambi gli occhi e non provare vergogna di se stessi. Non sono tra questi per mia convinzione personale, non diventerò ricca o famosa, ma riuscirò a confrontarmi con me stessa senza conflittualità.
Il padre, Francantonio, condannato in primo grado a 11 anni ha fregato tanti ragazzi che, ignari, hanno partecipato ai corsi professionali sperando di ottenere un attestato che gli aprisse le porte nel mondo del lavoro e, alla fine, si sono visti i corsi bloccati, non hanno potuto conseguire alcun attestato e, beffa delle beffe, non hanno ricevuto i rimborsi come stabilito per legge. Premiati padre e figlio.... Il padre, Francantonio:
Nel marzo 2014 il GIP del tribunale di Messina chiede la custodia cautelare in carcere di Genovese per reati tributari nonché per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, al peculato ed alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche.[10] Il 16 aprile 2014, la Giunta per le autorizzazioni rinvia al 18 maggio dello stesso anno la decisione sulla legittimità della richiesta di arresto per Genovese nonostante scadesse il 18 aprile il termine di legge di 30 giorni entro il quale la giunta era chiamata a decidere.[11]
Il 7 maggio 2014, la Giunta per le Autorizzazioni boccia, a larga maggioranza, la relazione del vicepresidente della Giunta, Antonio Leone, deliberando in tal modo parere favorevole alla proposta, alla Camera, di concessione della richiesta di arresto. A favore dell'arresto si schierano 12 deputati (9 PD, 2 M5S, 1 SEL) mentre contro 5 deputati (1 Forza Italia, 1 NCD, 1 SC, 1 PI e 1 Misto-PSI), sui 21 membri totali.[12][13]
Il 15 maggio, la Camera, dopo uno scontro tra il Pd e il M5S sul rinvio del voto, autorizza la richiesta di arresto nei confronti dell'On. Genovese con 371 si, 39 no e 13 astenuti con voto palese (prima volta nella storia della Camera). A favore schierati Pd, M5S, Sel, Scelta Civica, Lega Nord, Fratelli d'Italia-AN, Misto-Minoranze linguistiche, Misto-ex M5S. Contro soltanto Forza Italia, NCD, MpA, Misto-Maie-Api, Misto Psi-Pli oltre 6 deputati del Pd. Si astengono Per l'Italia-UdC, Misto-Centro Democratico e Stella Alpina. In serata si costituisce nel carcere di Gazzi a Messina. Dopo una settimana di carcere il GIP concede gli arresti domiciliari.[14]
Il 30 luglio 2014, la Giunta per le Autorizzazioni della Camera approva la relazione del capogruppo di Per l'Italia Gea Schirò sull'utilizzo delle intercettazioni telefoniche da parte della Procura di Messina nell'ambito dell'inchiesta sui finanziamenti professionali che hanno portato la Camera a concedere l'arresto di Genovese per truffa e peculato. Tuttavia la relazione limita l'utilizzo al 12 dicembre 2011 giorno nel quale Genovese fu iscritto ufficialmente nel registro degli indagati Il 7 agosto, la Camera approva a larghissima maggioranza la relazione Schirò con 391 si e 16 no.
Dopo una settimana in carcere, va ai domiciliari il 21 maggio 2014. Il parlamentare PD torna in carcere il 15 gennaio 2015, dopo la decisione definitiva della Cassazione.[15]. Il 31 luglio 2015 viene scarcerato perché gli vengono concessi di nuovo i domiciliari [16]. Torna libero il 26 novembre 2015 [17], per la scadenza del termine massimo di custodia cautelare in carcere [18].
Il 23 gennaio 2017 viene condannato in primo grado dal Tribunale di Messina a 11 anni di carcere [19].
Concussione e riciclaggio
Nel dicembre 2015 la Procura di Messina indaga Genovese per tentata concussione e riciclaggio. L'inchiesta verte su presunte irregolarità legate ai finanziamenti regionali per i corsi di formazione.