martedì 19 aprile 2011

Berlusconi punta al duello finale "Scontro ormai inevitabile col Colle".



Il premier risponde al Quirinale: "I pm hanno passato il segno, non io. Se prevalessero i pm, sarei costretto a lasciare l'Italia". E attacca: "Napolitano non ha detto nulla sulle intercettazioni date alla stampa". Letta non media.
di FRANCESCO BEI
ROMA - La scudisciata lo colpisce mentre è in riunione, ad Arcore, con gli avvocati Ghedini e Longo. Gli portano le agenzie con l'intervento di Napolitano e Berlusconi, inforcati gli occhiali da lettura, scuote la testa indignato: "Non ho nulla di cui rimproverami, l'intervento che ho fatto a Milano lo pronuncerei di nuovo. E questo Lassini nemmeno lo conosco". Il premier dà ordine ai suoi di non replicare al Quirinale, silenzio assoluto, ma chi si fa interprete del pensiero del Cavaliere riferisce del duro sfogo contro il "doppiopesismo" che il capo dello Stato avrebbe usato nei suoi confronti. "Se c'è qualcuno che ha superato il limite sono i magistrati e da tempo. Eppure Napolitano non ha mai detto nulla, nemmeno quando hanno passato alla stampa quelle intercettazioni del presidente del Consiglio che avrebbero dovuto essere distrutte".

Insomma Berlusconi, anche se la diplomazia istituzionale gli impone di non commentare la lettera del presidente della Repubblica, in privato non fa nulla per nascondere la sua irritazione. Oltretutto, sebbene giuri di non sapere nemmeno "che faccia abbia" l'autore dei manifesti sui pm "brigatisti", il premier si sente chiamato in causa in prima persona da Napolitano quasi fosse il mandante dell'iniziativa. Per questo stavolta non farà marcia indietro, non abbasserà i toni come pure gli chiedono molte delle colombe del partito, a partire da Gianni Letta. Ormai, anche con il capo dello Stato, la linea scelta è quello dello scontro.

Non che Berlusconi lo cerchi, ma non si tirerà indietro: "Saranno i nostri elettori a rispondere a Napolitano". Il premier è convinto infatti di aver ingaggiato "l'ultima battaglia", quella che deciderà del suo destino senza possibilità di rivincita. "Se i pm dovessero prevalere mi spolperebbero, mi toglierebbero le aziende, dovrei lasciare l'Italia. Ma questo non accadrà mai". Il terreno dello scontro finale Berlusconi lo ha già individuato: sarà la legge sulla prescrizione breve, l'unica arma che lo metterà al riparo dalla sentenza Mills. Il capo dello governo, spiegano i suoi, non si fa illusioni, è convinto che Napolitano non promulgherà il provvedimento rispedendolo dritto in Parlamento. "Lo scontro con il Colle sarà inevitabile - pronosticano gli uomini del Pdl - e allora tanto vale creare il clima giusto. Perché l'intenzione di Berlusconi è quella di riapprovare la legge in quattro e quattr'otto, senza modificarla di una virgola".

La partita sulla giustizia s'intreccia strettamente con quella elettorale. Berlusconi è preoccupato dei sondaggi su Letizia Moratti, che sembra condannata a giocarsi il tutto per tutto al ballottaggio. Così ha deciso di polarizzare la campagna elettorale, giocando la carta del referendum tra sé e i pubblici ministeri. Un modo per mobilitare un elettorato del centrodestra deluso, tiepido verso il sindaco uscente, che potrebbe essere spinto al voto soltanto se sentisse il proprio leader in pericolo. È quello su cui punta Berlusconi, che non fa nulla per attenuare i toni contro i magistrati. "Nell'ultima settimana - riferisce un esponente del Pdl milanese - grazie ai comizi del presidente del Consiglio, la lista Pdl è cresciuta di quattro punti nei nostri sondaggi".

L'assaggio di questa escalation studiata a tavolino l'hanno avuto i corrispondenti delle più prestigiose testate internazionali (prima che apparissero i manifesti di Lassini sui muri di Milano), sui quali il Cavaliere ha "testato" la prima volta l'equazione pm=Br. In un lungo sfogo di quattro ore, che sarebbe dovuto restare off the record, Berlusconi aveva infatti usato parole del tutto identiche a quelle del suo "sconosciuto" attacchino milanese. Racconta uno dei giornalisti testimoni del monologo: "Sembrava indemoniato. Ci disse che le Brigate rosse usavano il mitra come i pm usano oggi il potere giudiziario. Anzi, aggiunse che l'attacco dei pm è persino più pericoloso per la democrazia rispetto a quello delle Br, perché viene portato da funzionari pubblici. Parlò di eversione". Giudizi che lasciarono basiti i giornalisti. Ora i più avveduti nel Pdl, vedendo avvicinarsi un conflitto istituzionale senza precedenti, cercano di gettare acqua sul fuoco. Maurizio Lupi sostiene ad esempio che "il richiamo di Napolitano è rivolto a tutti, non solo a noi. Non dimentichiamoci che il segretario dell'Anm disse che la maggioranza non era legittimata "moralmente" a fare la riforma della giustizia". Su Lassini poi la sentenza sembra già emessa. "Da Alfano a Moratti - dice Lupi - siamo tutti d'accordo nella condanna di quei manifesti". Lassini "se ne deve andare", commenta laconico Paolo Bonaiuti. Ma anche se Lassini - come sembra inevitabile - sarà costretto a lasciare la lista del Pdl, Berlusconi tirerà dritto nel suo attacco: "A Milano ci giochiamo tutto. Se vinco vado avanti fino al 2013".

http://www.repubblica.it/politica/2011/04/19/news/berlusconi_punta_al_duello_finale_scontro_ormai_inevitabile_col_colle-15118086/?ref=HREA-1


La batcaverna. - di Gianni Barbacetto.



Eccola, la Bat-caverna. Altro che laboratorio. Altro che showroom. Il superloft di Gabriele Morattiin via Airaghi 30 a Milano non è più un immobile industriale (come imporrebbe la destinazione d’uso), né è mai stato uno spazio commerciale (come ha tentato di far credere il figlio del sindaco). È l’abitazione ultra-tecnologica del Morattino, con zone soggiorno, cucina, area party, camere padronali, camere per gli ospiti, servizi, giardino, piscina, palestra, poligono di tiro, parcheggio auto e ponte levatoio. Lo dimostra il video-documento che presentiamo: un “rendering”, come dicono gli architetti, cioè una presentazione di Casa Moratti a fine lavori.

Un abuso edilizio è sempre un abuso. Ma se a commetterlo è il figlio del sindaco, allora diventa anche un problema politico. Soprattutto se il primo cittadino prima nega, poi minimizza, infine scarica tutto sul figlio, come se non ne sapesse niente. “Sono stata a casa di mio figlio solo un paio di volte”: così è sfuggito a Letizia Moratti, che si è subito corretta: “Nell’immobile di mio figlio”. In realtà c’è andata più volte. Non solo: l’ha frequentata anche durante i lavori di ristrutturazione. A fine 2009, andava nella casa del figlio a fare il bagno in piscina, perché l’acqua della Bat-caverna è salina e dunque faceva molto bene a un suo polso dolorante. Allora la palazzina era ancora un cantiere ma, quando arrivava l’auto blu del sindaco, i 15 operai uscivano e, per un paio d’ore, lasciavano tranquilla Lady Letizia. A mollo nella Bat-piscina.

L’abuso edilizio, naturalmente, avrebbe dovuto rimanere segreto. Invece è emerso perché l’azienda che ha realizzato una parte dei lavori, la Hilite, ha avviato una causa civile nei confronti di Gabriele Moratti il quale, insoddisfatto dei lavori, si era rifiutato di pagare il conto. È poi seguita un’indagine penale sugli eventuali reati urbanistici, avviata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che in questa vicenda si è assunto il ruolo del Joker e ha chiesto l’azzeramento delle opere ritenute abusive, fino a ripristinare la situazione iniziale del capannone di via Airaghi.

Il titolare della Hilite, Matteo Pavanello, aveva ricevuto da Gabriele Moratti due incarichi: per 380 mila euro attraverso la società Brera 30 e per 250 mila euro attraverso Hilite. Ha ricevuto solo una parte dei pagamenti, attraverso due assegni firmati da Gianmarco Moratti, padre di Gabriele e marito di Letizia. Il valore totale dei lavori della Bat-caverna, dalle opere in muratura agli interventi tecnologici fino agli arredi, si aggira attorno ai 4 milioni di euro.



Manifesti giudici-Br pagati dal PdL?


La procura indaga: sotto accusa Giacomo Di Capua, braccio destro del coordinatore locale Mantovani. E un sospetto sul reale committente

Roberto Lassini e Giacomo di Capua: al momento sono il presidente della misteriosa Associazione dalla parte della democrazia, autodenunciatosi, e il capo della segreteria di Mauro Mantovani, coordinatore del PdL lombardo, gli indagati per la vicenda deimanifesti “Fuori le Br dalla Procura” che hanno tappezzato Milano fino a provocare la reazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera ci spiega però che l’ipotesi dei magistrati è più complicata:

Di Capua è stato infatti indagato, per l’ipotesi di reato di «vilipendio all’ordine giudiziario», dopo che a indicarne il ruolo nelle recenti campagne pubblicitarie firmate dalla misteriosa «Associazione dalla parte della democrazia» è stato uno dei due titolari dell’azienda di comunicazione politica che la Digos e il pm Armando Spataro avevano interrogato sabato, la «Bergomi&Falcone». Il gioco del cerino ha fatto ricostruire a ritroso il percorso dei manifesti: gli attacchini hanno indicato una ditta, questa ha spiegato che aveva operato, come spesso avviene in questo mercato, dietro mandato di u n ’ a l t r a a z i e n d a , l a «Bergomi&Falcone» (dal nome dei due titolari), che in passato aveva fatto diverse campagne per il Pdl. Falcone ha spiegato che il materiale per le affissioni della fantomatica «Associazione dalla parte della democrazia » (e cioè i precedenti manifesti Silvio resisti e Toghe rosse, ingiustizia per tutti, escluso però a suo dire proprio il manifesto sui pm «brigatisti» riecheggiante alcune esternazioni del premier) era arrivato da una certa tipografia.

Analoga la spiegazione iniziale di Bergomi, che però, di fronte all’esito dei primi accertamenti, ha modificato quanto aveva detto fino a quel momento agli inquirenti. E soprattutto, si pensa che anche quei manifesti, come altri, siano stati stampati con l’accordo che alla fine a pagare sarebbe stato il PdL:

E ha rivelato che l’incarico per la campagna pubblicitaria di affissioni siglate dall’«Associazione dalla parte della democrazia» gli era stato dato venti giorni fa in un incontro nella sede del partito in viale Monza da Di Capua, capo della segreteria del coordinatore regionale pdl, con l’intesa che a pagare sarebbe stato come le altre volte il Pdl. Bergomi rimarca che non c’erano i manifesti Fuori le Br dalle Procure. Ma le perquisizioni nella società ne trovano uno, che Bergomi sostiene sia stato raccolto per caso da qualcuno e buttato nel cestino; e nella tipografia indicata trovano sia le matrici sia l’ordinativo di 5.000 manifesti, emesso da una società di pubblicità nella medesima orbita. E Lassini? Anche l’autodenunciatosi candidato alle comunali di Milano nella lista Moratti, «presidente onorario» di un’Associazione «registrata 2 mesi fa», è indagato, dopo Di Capua e il tipografo: ma, al momento, solo a causa della sua intervista.

http://www.giornalettismo.com/archives/121961/manifesti-giudici-br-pagati-dal-pdl/



Napoli, se questo è un sindaco. - di Emiliano Fittipaldi e Gianfrancesco Turano


Una fortuna economica con origini misteriose. Una sfilza di fallimenti alle spalle. Una finanziaria in cui compare un fiduciario della 'ndrangheta. Eppure Giovanni Lettieri, candidato del centrodestra, ha sponsor eccellenti nel Pdl. Perché?



Nel 2006 il senatore Emiddio Novi, napoletano e berlusconiano della prima ora, non poteva certo immaginare che cinque anni più tardi Gianni Lettieri sarebbe diventato il candidato sindaco del Pdl. Così in commissione Antimafia non cercava giri di parole. "Ebbene", chiedeva Novi, "mi aspetto che qui ci si spieghi chi è questo Lettieri. Come mai da modesto imprenditore che alloggiava in un modesto appartamento di 120 metri quadri a Salita Arenella numero 9, in pochissimi anni si trasforma in un imprenditore di questo livello... Chi stava dietro questo signor Lettieri? Quali erano i rapporti di questo signore con la politica? Qual era il sistema di potere?".

Nessuno ha mai risposto alle sue domande. Al tempo Giovanni detto Gianni era presidente dell'Unione industriale di Napoli. Ma nemmeno ora che è in corsa - da favorito - per il governo della terza città d'Italia di lui si sa molto. Il suo passato, le sue amicizie e le origini della sua fortuna sono ancora misteriose. Si sa che ha sposato Maria Toscano e che ha tre figli (i familiari sono spesso coinvolti nelle sue attività imprenditoriali), che da un pezzo ha lasciato l'Arenella per l'elegante via Petrarca, che ama fare jogging e leggere Ken Follett. Ma in pochi sanno chi sono i veri sponsor della sua discesa in campo, e pochissimi conoscono la sua vera storia imprenditoriale. Nessuno, di sicuro, sa che dentro la sua finanziaria Meridie, quotata in Borsa, compare un fiduciario della 'ndrangheta.

Ma andiamo con ordine. E partiamo dal 1956. Gianni Lettieri nasce dietro la Ferrovia, in una zona popolare chiamata Ponte di Casanova. La famiglia è di umili origini. Gianni si rivela presto un ragazzo scaltro e sveglio, e decide di diplomarsi come geometra. Ci riesce nel 1974, in soli tre anni, frequentando un istituto tecnico. L'anno successivo si iscrive a Economia ma dopo un po' lascia gli studi. Forse lavorava troppo: nel 1975 diventa infatti direttore commerciale di un'azienda di La Spezia specializzata in abbigliamento militare. Il tessile diventa il suo ramo d'azione, e il suo curriculum racconta che fu lui ad aprire, in provincia di Avellino, il primo stabilimento di tessuto "Denim Ring".

Fare jeans gli piace, ma il sogno di farsi chiamare dottore, però, resta un'ossessione. Riuscirà a coronarlo solo nel gennaio 2011, grazie a una laurea honoris causa conferita dall'università privata Parthenope. Il preside di facoltà che propone l'onorificenza per pura coincidenza nominato qualche tempo prima da Lettieri membro del collegio sindacale di una sua società, la Mcm Holding. Le voci dei maligni a Gianni gli fanno un baffo. Anche perché in prima fila quel giorno, ad ascoltare la sua lectio magistralis, c'è nientemeno che Gianni Letta, suo grande amico e patrono. Non è una sorpresa: è da tempo che il sottosegretario e il suo sodale Luigi Bisignani hanno puntato su di lui. Forse abbagliati dai miracolosi successi industriali. Ma sarà tutto oro quel che luccica?

A contestare i suoi meriti professionali ci sono alcuni suoi colleghi di fama, dal suo predecessore Antonio D'Amato all'armatore Manuel Grimaldi, tanto che pochi giorni fa Lettieri ha dovuto spedire ai giornali una lettera in puro stile berlusconiano dove spiccano i 200 milioni di salari distribuiti in 18 anni a 600 dipendenti e il richiamo all'ottimismo. Una virtù indispensabile, perché Lettieri è l'equivalente imprenditoriale di Giobbe. Capitano tutte a lui. Sulle banche dati il suo nome è collegato a una sfilza di imprese liquidate oppure fallite. Oggi il suo salotto buono è la Meridie, quotata a Piazza Affari, finanziaria d'investimenti attiva soprattutto nel Mezzogiorno. Di Meridie Lettieri è presidente e amministratore delegato, anche se le azioni (14 per cento) sono in mano alla figlia più grande, Annalaura.

Per rimanere alle disgrazie recenti, Meridie ha investito 2,8 milioni in Banca Mb: soldi bloccati dopo che l'istituto è stato messo in amministrazione straordinaria da Bankitalia. Ha dato 2,5 milioni al produttore Massimo "Viperetta" Ferrero per acquistare il 25 per cento di una compagnia aerea di charter (la Livingston) che, a novembre, è finita in insolvenza. Ferrero, che il 20 gennaio avrebbe dovuto ricomprarsi la quota, non si è presentato dal notaio. Non è tutto. Una controllata, la Medsolar attiva nel campo dei pannelli fotovoltaici, ha subito una perdita di 2 milioni per la consegna in ritardo dei macchinari.



Mannino lancia il suo movimento "Rifaremo la DC con Berlusconi e Casini".


L'ex ministro dei Trasporti lancia a Palermo il suo nuovo movimento, Iniziativa Popolare. "La proposta è di ricomporre i democratici cristiani che la diaspora ha portato in varie formazioni". Commosso il ricordo di Cuffaro, tra gli applausi del pubblico: "Totò è stato l'unico a portare da solo la bandiera della Dc"

di Giuseppe Pipitone

La sentenza definitiva della Cassazione è del gennaio 2010. Dopo 17 anni di iter processuale, due anni di galera, una condanna in appello e un annullamento era arrivata l'assoluzione. Secondo gli ermellino Calogero Mannino avrebbe si beneficiato dei voti della mafia, ma senza che si riuscisse a provare che in cambio del sostegno elettorale avesse elargito favori a uomini di Cosa Nostra. Di tutto questo non si è ovviamente parlato all'Astoria hotel di Palermo, dove oggi l'ex ministro dei Trasporti ha tenuto a battesimo il suo nuovo movimento. Il nome provvisorio eraIniziativa Popolare, ma davanti a molti fedeli supporters di lungo corso Mannino ha dichiarato che il nuovo movimento potrebbe chiamarsi Idee e Battaglie, come il giornale fondato nel 1942 da Alcide De Gasperi.

E' una lezione di storia contemporanea quella che il politico nato ad Asmara ha regalato alla platea. Tra un Fanfani e un Andreotti si è poi passato all'attualità. Molti gli applausi per le affermazioni dell'ex ministro che ha confidato di aver predetto la spaccatura del Pdl: "si intuiva che uno come Fini, che fa riferimento al potere autoritario della magistratura non poteva stare nel Pdl." Poi è stato il momento di connotare bene il nuovo movimento nello scacchiere politico nazionale. "Una cosa é lavorare affinchéBerlusconi apra il cantiere per un nuovo partito di centro - ha detto Mannino - un'altra è diventare il suo fanalino di coda. Io sono rimasto alla crisi che si è aperta nel Pdl con l'uscita di Fini e penso che bisogna mettere insieme le forze disseminate in un arco che va dal Popolo della libertà al Pd, includendo, ovviamente, l'Udc diCasini, in ragione di una comune ispirazione ai valori della dottrina sociale della Chiesa". L'idea quindi è quella di rifare la Democrazia Cristiana, un partito popolare con Berlusconi e Casini. "Quando il 14 dicembre, senza negoziazione alcuna - aggiunge Mannino - ho votato la fiducia a Berlusconi, ho posto il tema di ritrovare il rapporto con l'Udc e con Casini. Non era un'indicazione di opportunismo, ma la proposta di una ricomposizione dei democratici cristiani che la diaspora ha portato in varie formazioni".

L'apice dell'euforia si è toccata quando l'ex ministro ha ricordato Cuffaro: "Totò è stato l'unico a portare da solo la bandiera della Dc nel 1996, quando io mi trovavo nelle sue condizioni attuali. Gli consigliai tramite mio figlio di fare il Cdu con Buttiglione e di resistere alle avances di Berlusconi per entrare in Forza Italia. La storia mi dimostra che avevo ragione". Il pubblico si è quasi spellato le mani. "Per la lealtà che dovevamo all'amico Totò Cuffaro - ha aggiunto Mannino - siamo usciti dall'Udc nel momento in cui partito di Casini, attraverso la proposta del Terzo polo, si accingeva all'alleanza con il Pd per operare il ribaltone".

Nel nuovo movimento porte aperte per il neo ministro Romano, attualmente indagato per mafia dalla Dda di Palermo. "Sarebbe auspicabile - ha ricordato Mannino - che anche nostri stretti compagni, che al momento hanno fatto scelte diverse, rientrassero con noi".

lunedì 18 aprile 2011

Berlusconi vs magistratura: 17 anni di scontri.





“Indagini ad orologeria”, questo il comune denominatore di tutte le accuse mosse da Silvio Berlusconi nei confronti della magistratura. 17 anni di carriera politica, 17 anni di scontri con l'intera categoria dei magistrati. Tante frasi che hanno scatenato accese polemiche. L'ultima è stata pronunciata in occasione della convention a sostegno di Letizia Moratti per le amministrative di Milano, dove il presidente del Consiglio, ha dichiarato: "Fra il presidente della Camera e la magistratura c'è stato un patto sceleris". A seguire, un elenco con tutti i numeri che lo legano alla magistratura: 103 indagini, 587 visite della polizia giudiziaria e della guardia di finanza, più di mille magistrati che si sono occupati di lui, per un totale di 2585 udienze.

Un rapporto sempre conflittuale e pieno di scontri, quello tra Berlusconi e la magistratura, dal 1994 ad oggi. Da "I giudici sono eversivi" a "La magistratura vuole fare con me quello che ha fatto a Craxi", una breve cronistoria del difficile rapporto tra Berlusconi e la magistratura.



Pdl chiede pena più leggera per concorso esterno in mafia.

IMG


È tempo di colmare un vuoto legislativo e introdurre nel codice penale il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, con una pena da 1 a 5 anni. A chiederlo è il senatore del Pdl Luigi Compagna, che ha presentato a Palazzo Madama un disegno di legge dal titolo appunto «Nuove norme in materia di 'concorso esterno'». Lo scopo, «è alleggerire la barbarie».

Con la tipizzazione del reato in uno specifico articolo del codice, non sarà più applicato a chi si macchia di 'concorso' l'articolo 416-bis sull'associazione mafiosa che prevede pene più alte. Si va dalla reclusione da 3 a 6 per anni per la semplice associazione, ai 4-9 anni per chi promuove o dirige l'associazione, fino ai 4-10 anni in caso di associazione armata. Le pene poi sono aumentate da un terzo alla metà se le attività economiche controllate dagli associati sono finanziate con il profitto dei delitti. Compagna chiede poi l'abrogazione dell'articolo 418 sull'assistenza agli associati, oggi punita con la reclusione fino a due anni, «rimasto sostanzialmente inapplicato».

Al suo posto prevede un nuovo articolo, con una pena da 3 mesi a 3 anni, che in più cancella la non punibilità dei congiunti. In attesa di leggere il testo, dura la prima reazione del Partito democratico e dell'Idv che fanno muro contro ogni ipotesi di alleggerimento della pena.

La giurisprudenza, ha spiegato Compagna nell'introduzione del ddl, pur in mancanza di indicazioni normativa «ha ritenuto di applicare anche al reato associativo di cui all'articolo 416-bis del codice penale l'istituto del concorso previsto dall'articolo 110». E nonostante «gli apprezzabili sforzi» della corte di Cassazione che «ha introdotto e legittimato l'ipotesi di concorso esterno», per il senatore restano «una serie di problemi irrisolti connessi alla mancata tipizzazione del reato». Compagna, ha tenuto a ricordarlo lui stesso rispondendo all'Agi, fu l'unico nel giugno del 1993 a votare in giunta per le Autorizzazioni a procedere del Senato contro l'autorizzazione chiesta nei confronti di Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia. Da allora, ha spiegato, ha sempre pensato che fosse necessario intervenire per tipizzare un reato non previsto nel codice Penale «per allegerire la barbarie» dal momento che «più che un garantista io sono un vero innocentista».

Per Compagna «l'idea che le condotte associative possano essere punite senza che vi sia stato nemmeno un inizio di esecuzione del programma criminoso e addirittura fuori di una effettiva partecipazione al sodalizio non può non determinare serie preoccupazioni». Evidentemente «in Italia negli ultimi quattro lustri la tradizionale passione per i delitti associativi si è rivelata travolgente». Da qui il testo, composto di due articoli, per il quale il senatore ha spiegato di essersi mosso «nello stesso spirito» di Giuliano Pisapia che aveva presentato due proposte di legge in materia.

Nel ddl, al primo punto, si chiede di introdurre dopo l'articolo 379 del codice penale il 379-bis e il 379-ter. Il 379-bis, sul favoreggiamento di associazioni di tipo mafioso, prevede che «chiunque fuori dai casi di partecipazione alle associazioni di cui all'articolo 416-bis agevola deliberatamente la sopravvivenza, il consolidamento o l'espanzione di un'associazione di tipo mafioso, anche straniera, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni». Il 379-ter, relativo all'assistenza agli associati, stabilisce che «chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano a un'associazione di tipo mafioso, anche straniera, al fine di trarne profitto è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni. La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuativamente. L'articolo 2 invece prevede l'abrogazione dell'articolo 418 del codice penale.

Critica l'opposizione. «In generale siamo contrari a qualsiasi ipotesi di riduzione di pena, sarebbe un segnale bruttissimo», ha commentato Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd. Sulla stessa linea Massimo Donadi, capogruppo dell'Italia dei valori alla Camera. «Se per un verso la codificazione è una cosa buona, non altrettanto è la riduzione della pena che porta con sè anche termini più brevi di prescrizione e un declassamento del reato», ha detto, «ma vogliamo
comprendere la ratio della proposta».