martedì 14 giugno 2011

C’è un problema: il Berlusconi sconfitto. - di Emanuele Macaluso


Nell’editoriale di domenica scorsa scrivevo: «L’esito del referendum peserà certamente sulla bilancia della politica: è stato lo stesso Berlusconi a dare un segnale forte quando ha detto che non andrà a votare. È come dire ai suoi avversari: andate alle urne per chiudere la partita». E così sono andate le cose: la partita è chiusa, anche se il Cavaliere tenterà di restare in sella. Ieri, sul Foglio, Giuliano Ferrara chiedeva: «È possibile un giudizio equanime sul berlusconismo?».

Come si fa ad elaborare un giudizio “equanime” nel momento in cui il presidente del Consiglio, anziché chiudere una fase della politica italiana, si ostina a “resistere” danneggiando il paese? Inevitabilmente la lotta politica sarà sempre più aspra. È stato lui, prima con il voto a Milano e Napoli e poi con il referendum, a chiedere un giudizio su di sé e il suo governo. E ha avuto risposte inequivoche. La stella di Berlusconi, e anche quella di Bossi, sono in caduta. Il dramma di questo paese è dovuto al fatto che sia il Pdl che la Lega non hanno quell’interna dialettica democratica che consente un normale avvicendamento alla guida dei partiti.
E non ci sono giornali amici che abbiano quel minimo di indipendenza e di dignità da dire: «Grazie presidente, ora tocca ad altri!».
Su questo fronte è impressionante l’articolo di ieri del direttore del Tempo, Mario Sechi. Il quale fa un analisi spietata e acuta sulla guida disastrosa della recente versione della politica berlusconiana.
Ma, dopo avere detto che «non serve a niente nascondere la sabbia sotto il tappeto», come conclude?
Ecco: «In assenza di una correzione di rotta da parte di Berlusconi», il centrodestra nostrano farà la fine dei conservatori inglesi dopo la Thatcher «una traversata nel deserto durata quindici anni».
Ancora una volta, quindi, è Berlusconi, solo lui, nessun altro, che possa fare ripartire la macchina del centro destra.
Anche Sechi non capisce (o meglio capisce e non riesce a dirlo) che oggi il problema è proprio il Cavaliere, il quale non è più un motore ma un freno, un inceppo. E con lui Bossi, il quale a Pontida sarà applaudito e osannato dalle camicie verdi, ma ha perso credibilità nell’elettorato largo e moderato che la Lega aveva conquistato. Stando così le cose, si apre una partita politica aspra. Il Cavaliere infatti vuole rilanciarsi con manovre demagogiche, come quella su fisco; Bossi lo fa chiedendo il ritiro delle nostre missioni all’estero, mentre La Russa le esalta; Maroni respingendo gli immigrati (come?) ecc.. Insomma, non è difficile prevedere che la crisi politica si acuirà. E il centrosinistra dovrebbe fare quel che saggiamente suggerisce oggi nella sua rubrica Marco Follini: lanciare una chiara e concreta proposta alternativa di governo. Subito. Se non lo farà ci sarà solo una guerriglia senza sbocco e guai per il paese.





DICIAMO LA VERITA’: NON AVEVAMO CAPITO NIENTE. - di Roberto Giacchetti



Qualcuno di voi mi ha chiesto cosa penso dei risultati referendari e più in generale del momento politico. Senza avere la pretesa di fare un’analisi appropriata (difficile per tutti, a mio avviso, in questo momento) vi dico alcune cose che penso.

Il postulato di partenza rappresenta, secondo me, una grande verità: NESSUNO AVEVA CAPITO NULLA DI QUELLO CHE STAVA ACCADENDO IN ITALIA. Non l’avevano capito i partiti ed i propri leaders, non l’avevano capito i giornalisti, gli analisti, i sondaggisti. Il circo della politica, tutto, si è trovato nel giro di un mese tra le mani una realtà nuova ed inaspettata; uno scossone imprevisto del quale ho la sensazione che un po’ tutti facciano fatica a prendere le misure.

I risultati elettorali degli ultimi due mesi sanciscono la fine del berlusconismo (la fine di Berlusconi è altra cosa), di una cultura e di un modo di interpretare la politica che è stato dominante per oltre 15 anni. La fine di questa cultura arriva inesorabile nel momento di rottura tra le aspettative e le suggestioni create da Berlusconi all’avvio del suo ingresso in politica e la mancata realizzazione, direi il fallimento, del suo progetto politico. Penso che la maggioranza del Paese gli abbia dato fiducia fino all’ultimo momento possibile, poi ad un certo punto ha detto basta.

Se questi risultati elettorali segnano la fine del berlusconismo sarebbe sbagliato pensare che aprano la strada ad un progetto alternativo, chiaro, credibile in grado di suscitare lo stesso interesse, la stessa partecipazione e la stessa adesione che hanno caratterizzato il consenso all’idea berlusconiana.

Guardando i risultati delle Amministrative in valori assoluti e non percentuali si capisce chiaramente che il centrodestra perde le elezioni e che grazie a questo il centrosinistra vince le elezioni. Ma quei voti persi, che significano disincanto, disaffezione, disillusione, rimangono in un limbo elettorale che prende le distanze dal passato ma non sceglie per il futuro: si pone in una situazione di attesa, resta a guardare. Il risultato referendario conferma, a mio avviso, questa situazione. Il quorum si è raggiunto perché in un ideale abbraccio trasversale gli elettori, a prescindere dalla loro appartenenza politica o partitica, hanno voluto riappropriarsi del diritto di decidere su questioni concrete che riguardano la loro vita, il futuro loro e dei propri figli.

Non credo che la vittoria dei referendum rappresenti la vittoria del centrosinistra, quanto piuttosto di alcuni valori e paradigmi democratici che certamente il centrosinistra, ed il Pd in particolar modo, dovrebbe rivendicare come elementi costitutivi. Dico dovrebbe perché fino ad oggi non tutto è stato così scontato. Faccio solo un esempio: qualcuno ha davvero il coraggio di dire che, esclusi i radicali, nel centrosinistra il referendum è stato considerato un fondamentale strumento di verifica del consenso popolare anche sulle proprie scelte di governo? Qualcuno potrebbe affermare che nella storia dei referendum, tolti ancora i radicali, solo il centrodestra abbia tradito la volontà popolare in non poche occasioni emanando leggi (vedi il finanziamento pubblico dei partiti o la responsabilità civile dei magistrati) che andavano palesemente contro la volontà popolare? Sappiamo tutti che non è così.

Allora forse la nostra riflessione deve essere più ampia ed anche più aperta per individuare un progetto di cambiamento che tenga davvero conto di quello che sta accadendo sotto i nostri occhi e che non rischi di portare ad una delegittimazione totale della politica e dei partiti. Rischio che mi appare crescente e che ritengo pericolosissimo per la vita democratica del nostro paese.

Quello che sta succedendo mi preoccupa moltissimo. Qualunque cosa accada viene utilizzata quasi da tutti come occasione per gettare fango sulla politica e sui partiti. I primi a creare le condizioni perché questo accada sono proprio i partiti e le loro classi dirigenti. E’ una spirale pericolosissima che tende ad indebolire (direi quasi a demolire) un tipo di “potere” , parafrasando Montesquieu, a favore di altri (compreso quello dei media che si è aggiunto nel corso del tempo) e che, rompendo quel diaframma di separazione, porta i secondi ad assumere una forza decisionale che non compete loro e che distrugge quel fondamentale equilibrio nell’indirizzo e nel controllo alla base di ogni democrazia.

Come dicevo la responsabilità nostra di classe dirigente di partito è enorme e drammatica e se non cogliamo l’occasione che ci è stata data con questi risultati elettorali - almeno come centrosinistra -per cambiare radicalmente rotta, rischiamo di passare alla storia come principali attori del peggior danno procurato a questo paese dal dopoguerra in poi.

Sono consapevole (e gli elettori di centrodestra che hanno partecipato alle recenti competizioni elettorali ne sono la testimonianza più evidente) che il problema è dei partiti tutti e delle classi dirigenti tutte, ma mi scuserete se io mi dedico ad un invito che riguarda la mia parte, quella del centrosinistra.

Occorre rapidamente assumere decisioni e mettere in campo scelte che siano in grado non solo di rispondere alla domanda di cambiamento che giunge chiara anche dal nostro elettorato ma di rimodellare un assetto che riesca a ricreare nella gente la voglia di partecipare, cioè sentirsi parte, di uno strumento indispensabile per il buon governo di un Paese: la politica. Questo venticello, ormai direi un tornado, che spinge sempre più forte e che mira alla mortificazione dei partiti va immediatamente ricondotto e considerato per ciò che è: un fenomeno naturale e legato ad una minoranza fisiologicamente presente in ogni democrazia.

Ma per farlo bisogna smettere di lamentarsi e continuare a procedere fregandosene di quel che non va. Occorre cambiare in positivo, interpretare, raccogliere e trasformare in azioni positive e concrete l’insoddisfazione popolare, per usare un eufemismo.

Dopo quasi venti anni in cui i partiti (grazie anche a questa legge elettorale) hanno pensato che una enclave ristretta di fortunati e “migliori” potesse andare avanti – per puro spirito di autoconservazione - agendo a prescindere dalle spinte e dai sentimenti del proprio elettorato, è giunto il momento di voltare pagina. La fotografia nitida che emerge dai risultati elettorali ci dice che le cose sono cambiate, sostanzialmente cambiate. Il fenomeno internet ad esempio rivela chiaramente che se la politica non sembra più in grado di rappresentare la volontà e gli interessi dei cittadini, questi non si rassegnano più ma agiscono in proprio riuscendo, a differenza del passato, a condizionare non solo i risultati ma anche la vita interna dei partiti.

Il fatto che nel popolo italiano, almeno in una parte molto rilevante, sia maturata la consapevolezza di poter tornare a contare, di poter tornare a decidere direttamente se i partiti rappresentano un impedimento invece che un’opportunità, deve essere per noi l’occasione per una rinascita e, soprattutto, per una seria alternativa non solo al centrodestra ma anche a tutto quello che di sbagliato noi stessi abbiamo fatto in questi anni.

Se è vero, come è vero, che la volontà decisionale delle persone può arrivare ad esprimersi anche attraverso forme alternative - se ciò non avviene attraverso i partiti – mi piacerebbe che il Partito Democratico se ne facesse carico avviando iniziative conseguenti che abbiano la forza di creare un raccordo serio e convinto col sentimento popolare su proposte che vadano nel senso giusto.

Provo ad immaginare quattro proposte non certo nuove, ma che in questo momento - se veicolate con convinzione - possono diventare un fattore esplosivo:

1) abolizione del quorum referendario con conseguente aumento del numero delle firme da raccogliere;

2) ancoraggio al maggioritario per la legge elettorale: collegi uninominali in modo che le persone possano scegliere chiaramente non solo le diverse opzioni politiche ma anche direttamente tra le persone;

3) la possibilità di contribuire alla scelta delle candidature nel partito: le primarie? Un'altra soluzione? Discutiamone. Ma se non vogliamo essere ipocriti è chiaro che anche su questo la gente ci interroga;

4) una riforma dei partiti che garantisca una vera democrazia interna, un fisiologico ricambio, una partecipazione che non sia solo di facciata.

So bene che ad un fatto così enorme come quello che scaturisce dai recenti risultati elettorali non si risponde solo con proposte organizzative, ma penso che le prime due non siano affatto solo questo, anzi: io credo che possano rappresentare di per se stesse un fatto politico essenziale e che, in ogni caso, tutte possano contribuire a legare le nostre decisioni in maggiore sintonia con la domanda degli elettori rispetto a quanto accaduto fino ad oggi. Soprattutto ciò non esclude e non può escludere la formulazione di una proposta programmatica alternativa al centrodestra divenuta ormai non rinviabile, ma questo ci aiuterebbe a metterla in campo partendo da basi più concrete e pertanto più convincenti.

C’è poi bisogno che la mobilitazione delle persone non solo non si interrompa, ma anzi approfitti di questo momento per mettere a segno altri successi. Mi piacerebbe molto immaginare una nuova battaglia, magari veicolata e supportata in Rete, che abbia come obiettivo i punti o solo alcuni tra quelli che ho proposto. Mi piacerebbe infine constatare che la trasformazione e la crescita del mio partito sia avvenuta proprio perché, quasi miracolosamente, è riuscito a farsi permeare dal suo popolo.


http://www.facebook.com/notes/roberto-giachetti/diciamo-la-verita-non-avevamo-capito-niente/10150208803259227



Ruby, Boccassini ai legali del premier "In questura quasi un attacco militare".


Il pm replica alle eccezioni presentate dalla difesa del premier. E rilancia: "La competenza sul processo è solo milanese".

E ancora: "Palesi casi di prostituzione nella villa di Arcore".



La notte tra il 27 e il 28 maggio 2010, quando Ruby venne rilasciata in seguito alle telefonate di Silvio Berlusconi, in questura a Milano si è verificato "come un attacco militare", perché in successione negli uffici di via Fatebenefratelli si sono presentate prima la consigliera regionale Nicole Minetti e poi la brasiliana Michelle Conceicao. Lo ha detto il pm Ilda Boccassini, davanti ai giudici della quarta sezione penale, replicando alle eccezioni presentate dalla difesa del premie e sostenendo che "era palese che c'erano persone che si prostituivano" nel corso "delle serate nella residenza del premier" ad Arcore.

"Accerchiamento militare". Secondo il procuratore aggiunto, dunque, la notte in cui Ruby venne rilasciata e poi affidata alla consigliera regionale "abbiamo avuto un accerchiamento militare e si è diretto tutto in questura". Il processo è stato poi aggiornato al 18 luglio: nello stesso giorno è in calendario anche un'udienza del processo Mills. E il nuovo avvocato di Ruby, Egidio Verdini, ha annunciato che "faremo una conferenza stampa nel mio studio entro la fine del mese, per ora non posso dire altro".

La competenza. "Il processo deve restare al tribunale ordinario di Milano, non deve essere trasferito né al tribunale dei ministri per competenza funzionale nè a quello di Monza per competenza territoriale", aveva detto ancora il pm Boccassini spiegando che non c'è alcun reato ministeriale, commesso cioè da Berlusconi nell'esercizio delle sue funzioni. Il pm ha ribadito che il premier abusò della qualità del suo incarico, non delle sue funzioni. No anche al trasferimento a Monza. "E' vero che il funzionario di polizia Ostuni ricevette la telefonata del premier al fine di far affidare la minorenne Ruby nella sua casa a Sesto San Giovanni. Ma ciò non significa, come sostiene la difesa, che il reato si consumò A Sesto, distretto giudiziario di Monza. La minore venne affidata a Nicole Minetti, che si recò in questura a Milano,e quindi il reato si consumò a Milano".

Le procedure. Le indagini sono state fatte nel rispetto delle regole e della Costituzione, ha sostenuto ancora il pm Boccassini. La Procura è certa di aver rispettato le regole, anche nella scelta del rito immediato chiesto "nei tempi dei 90 giorni dall'iscrizione dell'indagato e con l'evidenza della prova" , eguendo per di più l'indirizzo costituzionale sulla base del quale "i processi devono durare poco. Il rito immediato - ha rimarcato il magistrato - ha proprio questa funzione, fare presto, nel rispetto del diritto della difesa".

Le intercettazioni. "Non è stata utilizzata alcuna intercettazione con Berlusconi. Nel tabulato cartaceo si fa riferimento a 64 contatti di Ruby con utenze riferibili al presidente del Consiglio, ma nessuno di questi 64 contatti è stato usato come elemento di prova", ha assicurato la Boccassini. "Negli elementi di prova che sono stati evidenziati in parte nell'invito a comparire, e comunque nella richiesta di decreto di giudizio immediato, troverete solo i dati delle telefonate con il presidente del Consiglio confermate dai testi che hanno ammesso di aver parlato con lui". Per cui, secondo la Boccassini, affermare che si è intercettato il premier senza l'autorizzazione prevista dalla legge "è una circostanza che è fuori dalle carte processuali: tutti sono legittimati a pensarlo, altra cosa è quel che emerge dalle carte".

La difesa del premier. "La tardiva iscrizione nel registro degli indagati determina l'inammissibilità del rito: se la procura avesse iscritto Berlusconi a luglio, non avrebbe potuto chiedere il giudizio immediato". Così l'avvocato Giorgio Perroni, sostituto processuale dei legali del premier, ribadisce a margine del processo sul caso Ruby perché ad avviso del collegio difensivo i giudici della quarta sezione penale devono accogliere le eccezioni preliminari sollevate la scorsa udienza. A giudizio di Perroni la Procura "ha voluto giustificare l'iscrizione tardiva di Berlusconi (il 21 dicembre 2010) nella propria propria ottica, ma quando Karima El Mahroug (ovvero Ruby) ha rilasciato le prime dichiarazioni agli inquirenti, non ha parlato solo di Lele Mora, Nicole Minetti ed Emilio Fede, ma anche di Berlusconi. Per cui mi sembra naturale che la sua iscrizione avrebbe dovuto avvenire insieme con gli altri indagati perché o ritieni che non ci sono riscontri, oppure iscrivi subito tutti".


http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/06/14/news/boccassini-17675064/?ref=HREC1-3



Referendum, ecco ora che cosa cambia. - di Chiara Paolin



Tra rimedi e scappatoie: legge sull'acqua e prescrizione breve

E adesso che i referendum sono passati, cosa cambia davvero? Le reazioni a catena dei quattro sì anticipano qualcosa di nuovo sul futuro dell’Italia. E del governo: a partire dal suo primo ministro.

Non c’è più il legittimo impedimento

“Qui a Milano vogliono fare quattro processi contemporaneamente. Ma dovranno adeguarsi un po’ anche loro alle esigenze del premier. E soprattutto della difesa”. Come ogni lunedì, giorno fissato per le udienze dei processi milanesi a carico di Berlusconi, ieri Niccolò Ghedini era in aula. Stakanovista, persino erculeo nel gestire tutti i filoni di difesa, deve anche pensare a fare il deputato. E adesso, senza legittimo impedimento, cosa cambierà? “Niente – cantilena Ghedini –, con la corte continueremo a comportarci secondo il principio della leale collaborazione suggerito dalla Consulta”. Insomma, chiedere di giustificare le assenze per impegni di governo ormai non si può più, e il rischio è che qualche processo possa andare a sentenza prima del previsto. A meno che, circumnavigando il referendum, si agisca su altri fronti. Per esempio, già oggi la conferenza dei capigruppo al Senato potrebbe decidere di calendarizzare in aula il disegno di legge sulla prescrizione breve: dopo tre letture è praticamente pronto per andare al voto al Senato (dove la maggioranza non ha problemi di quorum). Se dopo il 22 giugno la Camera si assestasse, magari puntellata da nuove nomine governative, le carte in tavola cambierebbero a favore di Berlusconi. Ancora una volta.

Niente nucleare: più rinnovabili e carbone

Al contrario, mani legatissime per esecutivo e Parlamento sulla questione nucleare. Almeno nei prossimi cinque anni non sarà possibile proporre né legiferare sul tema, rispettando la volontà popolare che si è appena espressa. Quindi, più investimenti sulle fonti energetiche tradizionali come carbone e gas (sempre caro a Berlusconi, specie quando arriva dall’amico Putin) e anche sulle rinnovabili. Sarà tutto un fiorire di – inquinantissime – centrali a carbone o sboccerà una vera passione ecologista? La Borsa di Milano ieri ha puntato sulla seconda ipotesi: in una giornata negativa per il mercato, Enel Green Power ha guadagnato bene, e tutto il comparto ha funzionato sull’onda del voto.

In difficoltà le utilities

Negativo invece in Piazza Affari l’andamento delle compagnie che gestiscono l’acqua: già nelle ultime settimane il mercato aveva subodorato la tendenza facendo perdere a titoli come Acea, Hera e Iren valori tra il 5 e il 10 per cento. “Ed è solo l’inizio – spiega Ugo Mattei, del Comitato acqua –. Nel momento in cui la Gazzetta Ufficiale pubblicherà l’esito del risultato, dandogli valore di legge, noi chiederemo ai Comuni un calo immediato del 7 per cento sulle bollette emesse dalle società secondo la previsione del decreto Ronchi. Dubito però sullo spirito collaborativo, i contratti firmati non prevedono l’ipotesi del cambio di legge in corsa, quindi le varie amministrazioni dovranno cercare una soluzione”. Per i comitati, dunque, è già ora di pensare al dopo: abolito il concetto di rendimento garantito sugli investimenti, cancellato il pericolo di obbligo di gara per i servizi pubblici (inclusi trasporti e rifiuti) o di rafforzamento dei privati nell’azionariato, si ragiona sulle prospettive. “Abbiamo restituito un pezzo di Italia agli italiani – chiude Mattei –. E vigileremo perché nessuno faccia marcia indietro. C’è il disegno della Commissione Rodotà in Senato, abbiamo una nostra proposta da offrire, l’importante è ci sia una volontà seria di affrontare queste tematiche. Nell’interesse comune, non di chi vuol far fruttare i capitali”.



L'Aqp chiude acqua agli sfrattati Japigia Emiliano: dimissioni vertici Acquedotto.


BARI – «E' giunta l’ora in cui l’amministratore delegato e il direttore generale dell’Acquedotto Pugliese se ne vadano a casa. La misura è colma». Lo scrive sulla sua pagina Facebook il sindaco di Bari, Michele Emiliano, a proposito della decisione di Acquedotto Pugliese «di staccare l'acqua alla case degli sfrattati di Japigia proprio il giorno del referendum sull'acqua pubblica senza avvertire – aggiunge Emiliano – nè sindaco nè questore, determinando così una vera e propria sommossa popolare».

Emiliano tira in ballo anche il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola: «Vendola – scrive – deve impedire in futuro che accadano cosa del genere in una società pubblica». Acquedotto Pugliese è una società per azioni della quale la Regione Puglia è socio di maggioranza (87% circa) e la Regione Basilicata di minoranza (13% circa).

«La burocrazia dell’Acquedotto Pugliese – sottolinea ancora il sindaco su Facebook – ha disposto il distacco dell’acqua alle cd. case degli sfrattati di Japigia proprio il giorno del referendum sull'acqua pubblica. Coincidenze? Non lo so, quel che è certo è che hanno determinato una sommossa popolare senza neanche avvertire preventivamente sindaco e questore».

L'uscita del sindaco provoca su Facebook vari commenti, molti di adesione (“e se proprio vogliamo dirla tutta, alla povera gente, sotto un determinato reddito, l’acqua dovrebbe essere data gratis e comunque NON tagliata cosi in massa...“). Alcuni si chiedono se gli sfrattati paghino l’acqua e, nel caso in cui non lo facciano, se non lo fanno perchè davvero non hanno denaro. Uno se la prende col sindaco perchè ritiene che Emiliano parli «alla faccia di chi paga affitti esosi, mutui esosi, paga tutto quello che c'è da pagare, cosa non si farebbe per un pugno di voti – sindaco si dimetta Lei, altro che chiacchiere». E qualcuno gli replica: «ma non avete detto che l'acqua è di tutti?».

Il taglio dell’acqua è avvenuto in un insediamento di case prefabbricate realizzato 30 anni fa per ospitare sfrattati. L'acqua viene erogata – secondo quanto raccontano gli abitanti dell’insediamento – emettendo un’unica fattura che è intestata al Comune e il cui importo viene poi ripartito tra le 84 famiglie che abitano nelle casette. Capita così che anche famiglie composte da tre persone debbano pagare la stessa quantità di denaro di famiglie molto più numerose: di qui, il mancato pagamento di alcune quote (che hanno fatto levitare ora il debito contratto con Aqp) e la richiesta da parte dei cittadini di installare contatori singoli per ciascuna struttura abitativa, richiesta che sinora Acquedotto pugliese non ha soddisfatto.

E' stata riaperta l’erogazione dell’acqua all’insediamento di case prefabbricate realizzato 30 anni fa per ospitare 84 famiglie di sfrattati. La decisione è stata presa dall’Acquedotto Pugliese – che però non considera il caso chiuso – dopo la sommossa popolare seguita alla chiusura dell’erogazione e culminata con l’irruzione di un gruppo di donne nella sede del comando dei vigili urbani del rione Japigia di Bari. A quanto si apprende, l’interruzione del servizio era stata disposta perchè il Comune, che paga le fatture all’Aqp, ha un debito di circa 100.000 euro per l’acqua che viene fornita all’insediamento di sfrattati.



Il nucleare francese non è sicuro. - di Leonardo Martinelli


Dalla poca protezione degli impianti di fronte a possibili attentati, agli orari di lavoro del personale impiegato nelle centrali, fino al meccanismo dei subappalti nella manutenzione. La poca attenzione alla sicurezza delle autorità di Parigi sta incrinando anche il fronte pro-atomo d'Oltralpe.


L'impianto di riprocessamento delle scorie di La Hague

Mentre l’Italia per la seconda volta in meno di 25 anni dice No all’energia prodotta dall’atomo, sul fronte della sicurezza nucleare francese arrivano notizie inquietanti. Soprattutto alla luce del disastro di Fukushima.

La prima. A La Hague, ridente paesino sulla costa della Normandia, esiste il più grosso impianto francese di smaltimento dei residui atomici, gestito da Areva, uno dei colossi (pubblici) del nucleare made in France. Lì arrivano, anche le scorie italiane. Ebbene, quel sito è a rischio.

A rompere il tabù che avvolge la brumosa (di nome e di fatto) La Hague c’è voluto un intraprendente pensionato, Guislain Quetel, 35 anni trascorsi lì dentro come tecnico responsabile della prevenzione contro le irradiazioni. Quetel, nei giorni scorsi, una volta lasciata l’azienda, ha convocato giornalisti, sindacalisti, politici locali per compiere una sorta di “outing”. Criticando “l’insufficiente sicurezza” del sito. Secondo lui, Areva dovrebbe costruire intorno all’impianto “una cattedrale di cemento” a difesa di eventuali atti terroristici e non limitarsi alla protezione metallica attuale. “Se solo venisse lanciato un proiettile esplosivo contro certe sezioni interne del centro, che contengono gli scarti di almeno un centinaio di reattori – ha sottolineato l’ex tecnico -, si provocherebbe una tragedia peggiore di quella di Fukushima”. Da sottolineare: Quetel resta un pro nucleare, niente di più.

Le polemiche non finiscono qui. Passiamo a Edf, l’altro colosso pubblico energetico, che gestisce i58 reattori nucleari attivi del Paese (e che avrebbe voluto costruirne altri quattro con l’Enel in Italia). Sta pianificando di allungare i turni dei propri operai e tecnici per ridurre le fasi di blocco operativo delle sue centrali, a scapito della sicurezza. La novità sta scatenando un putiferio. E non solo da parte dei soliti “esagerati” militanti ecologisti, ma perfino di esperti del settore e dipendenti di Edf, assolutamente pro nucleare.

E’ stato il quotidiano Le Parisien a scovare una lettera in cui Philippe Druelle, vicedirettore della produzione atomica di Edf, chiede agli ispettori dell’Autorità di sicurezza nucleare delle “deroghe sulla durata massima del lavoro dei nostri dipendenti”. In sostanza l’obiettivo è di portare i turni fino a 12 ore al giorno e il numero di quelle complessivamente lavorate in una settimana a 78 (in Francia ci si ferma, secondo la legge, a 35). Edf vuole ricorrere a questa possibilità nelle fasi in cui i reattori restano fermi per poter svuotarli dal combustibile utilizzato e per compiere i necessari lavori di manutenzione. Insomma, si vogliono restringere i periodi di inattività, nei quali l’azienda non guadagna soldi.

Questo tipo di interventi viene ormai realizzato da imprese subfornitrici. E su questo punto già esistono timori e polemiche. “E’ dalla fine degli anni 80 che si è iniziato progressivamente a coinvolgere le società esterne a Edf, per ridurre i costi – sottolinea Anne Salmon, sociologa, autrice di “Le travail sous haute tension” e specialista del settore energetico – Tutto questo comporta grossi rischi perché ormai siamo alla subfornitura ‘a catena’. Edf stipula un contratto con un’impresa, che sua volta si accorda con un’altra per una parte dei lavori e così via. E per attività estremamente delicate. Ebbene, alla fine Edf non sa neanche chi entra nelle sue centrali”.

Ora, però, a questo problema se ne aggiunge un altro. I dipendenti del gruppo pubblico devono comunque controllare il lavoro dei subfornitori. Ma, spesso, con i turni normali i tempi si allungano (i blocchi durano fra uno e tre mesi). Con la nuova deroga richiesta, invece, estendendo i turni, Edf potrebbe restringere la durata dell’inattività. Va detto che sabato, i vertici di Edf hanno smentito le rivelazioni del Parisien, sottolineando che “in merito è in corso una trattativa con i sindacati”. Che, però, si sono fatti subito sentire (polemicamente) sull’argomento. “Edf si sta organizzando per legalizzare delle derive orarie inaccettabili e pericolose per i dipendenti. E dunque per la sicurezza nucleare”, si legge in un documento della Cgt, la forza più rappresentata all’interno di Edf, equivalente in Francia della Cgil.

Fabrice Guyon, tecnico nucleare del gruppo da 17 anni, spiega che “dal 2004 l’azienda ha cercato di cambiare i ritmi del lavoro. E la nozione del profitto a ogni costo ha iniziato a inserirsi nello spirito dell’impresa. Bisogna ormai garantire la redditività a ogni prezzo”. “Farci lavorare dodici ore di fila – continua – è aberrante. Perché oltre un certo limite di tempo non si ha più il livello d’attenzione necessario”. Guyon crede ancora nel nucleare civile, “ma la migliore garanzia della sicurezza è un personale motivato e che lavori nelle migliori condizioni. Il discorso vale pure per i subfornitori”.

Ultimo aggiornamento dal fronte nucleare francese. A pochi chilometri di La Hague, Edf possiede la più grossa centrale di Francia. E lì sta costruendo, assieme all’italiana Enel, un Epr, reattore potentissimo di terza generazione, del tipo di quelli previsti, e poi bocciati dagli italiani, da Berlusconi in Italia. Sabato scorso, in quel cantiere, è morto un lavoratore di 32 anni, precipitato giù da alcune decine di metri di altezza. Era, ovviamente, il dipendente di un’impresa sufornitrice, la Endel. Un altro, di 37 anni, era deceduto il 24 gennaio scorso, in condizioni simili. Un operaio della Normétal. Altro sufornitore di Edf.



Addio all’Asinara, si arrende l’Isola dei cassintegrati. - di Luca Telese




Gli operai della Vinyls hanno lasciato le celle occupate quindici mesi fa. Dopo più di un anno di protesta, dimenticati da tutti tranne che da Napolitano, ora aspettano un incontro col governo, ma senza troppe illusioni

Alla fine se n’è andato anche Pietro Marongiu detto “il tiranno”. Barba ruvida come l’accendizolfo cartavetrato di una scatola di fiammiferi, toni calorosi e carattere granitico. Alla fine se n’è andato pure lui, l’ultimo cocciuto protagonista dell’ “Isola dei cassintegrati”. Alla fine – dunque – gli operai della Vinyls hanno lasciato le celle dell’Asinara occupate quindici mesi fa. Che bello sapere che il governo ha preso degli impegni chiari e li ha mantenuti. Che il Pd ha sostenuto la protesta. E che la sinistra radicale ha portato ovunque la bandiera di questa bella lotta. Sarebbe bello, davvero, ma non è andata così.

Il governo ha fatto l’ennesima figura barbina, il Pd ha fatto una visita pro-forma dopo il successo dei cassintegrati ad Annozero (e poi è scomparso), la sinistra radicale (in tutte le sue forme) si è scordata di questi operai, il presidente della Regione ha detto tutto e il contrario di tutto (e non ha combinato un tubo).

L’unica istituzione a farsi carico di questo dramma è il comune di Porto Torres. Anzi, il sindacoBeniamino Scarpa, che nella sala del Consiglio comunale scuote la testa e dice: “Ho paura per la crisi che si sta per abbattere sul nostro territorio. Questa città è una bomba innescata”. Ha ragione. Dopo il cosiddetto accordo sulla “Chimica verde” (ottime prospettive nel futuro, molti dubbi sul presente) l’Eni ha ottenuto di chiudere (a giugno) il Petrolchimico della città. È come un grande serbatoio di rabbia che potrebbe esplodere da un momento all’altro. A Porto Marghera c’è la stessa rabbia e nessuna speranza: lì la Vinyls chiuderà – come ha scritto il web-portavoce dei cassintegrati Michele Azzu – “Senza nemmeno lo straccio di una promessa chiara”.

Resterà leggendario l’ottimismo del neo-ministro Romani. Il suo predecessore, Claudio Scajola, era riuscito nel formidabile record di dare le dimissioni (per la casa “a sua insaputa”) il giorno stesso in cui doveva chiudersi la trattativa per cedere la Vinyls alla Ramco. Così la ditta araba è scomparsa, e si è aperta una nuova trattativa con un nuovo gruppo, il fondo Gita. Il ministro sbarca in Sardegna, sfodera un sorriso smagliante e assicura: “Il gruppo è credibile, i soldi ci sono, lo abbiamo verificato. Altrimenti sarei un pirla a darvi questa rassicurazione, no?”. Infatti, subito dopo l’annuncio ufficiale dell’acquisto e della trattativa giunta a buon fine, sono scomparsi sia il ministro che i compratori.

A Porto Marghera (dove ci sono gli stabilimenti gemelli della società) c’è un operaio in sciopero della fame. Mentre se in Sardegna non è ancora esplosa la rabbia degli operai Vinyls è perché il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 7 giugno, ha incontrato i lavoratori della ditta chimica e li ha incoraggiati, assicurando loro che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere. Ma cosa può fare anche un presidente della Repubblica quando tutta la classe dirigente di un paese latita?

L’accordo “Chimica verde”, dunque (visto che la chiusura del petrolchimico sottrae le materie prime necessarie alla Vinyls per chiudere il ciclo del Pvc e la condanna virtualmente a morte) resta l’unica speranza. Il piano annunciato dall’ Eni, sottoscritto da sindacati nazionali, governo, regione e comune, dovrebbe portare (secondo il protocollo di intesa) 740 milioni di investimenti e favorire la nascita del primo eco-impianto d’Europa. Perché proprio in Sardegna? Perché Porto Torres (lo avevano capito i romani) ha una posizione invidiabile che lo collega via mare a tutto il mediterraneo. Perché nell’area del Petrochimico dismesso ci sono infrastrutture titaniche abbandonate che nessun’altra area industriale possiede, perché la Nurra, la splendida campagna di vegetazione selvaggia che circonda Porto Torres ha le condizioni ideali per coltivare i vegetali (ad esempio i cardi) che dovrebbe servire come materia prima di un ciclo integrato per produrre la bioplastica del futuro, quella di cui le nuove buste derivate dalla soia sono un assaggio. Ma dietro le promesse si affollano gli interrogativi.

Già per tre volte in passato l’Eni ha firmato protocollo solenni che poi ha disatteso. E non è ancora chiaro quanti anni ci vorranno (cinque?) perché lo stabilimento si attivi. E infine, come spiega il sindaco Scarpa, c’è il nodo delle bonifiche (530 milioni di euro già promessi da Eni), che dovrebbero rigenerare un territorio avvelenato da quarant’anni di cracking: “L’Eni – spiega il sindaco Scarpa – dice di aver già stanziato i soldi per realizzarle, ma i depuratori non sono ancora a regime. C’è un progetto delicatissimo sulla cosiddetta collina dei veleni di Minciaredda [una discarica chimica abusiva, ndr.] e noi abbiamo chiesto che per tutte queste opere siano impiegati gli operai rimasti senza lavoro”.

Il timore del sindaco è un altro. Non solo quello per gli operai del petrolchimico (coperti dalla cassa integrazione) ma quello per i 500 lavoratori dell’indotto che restano (per ora) senza tutele: “Bisognerebbe affidare subito anche a loro, e a quelli della Vinyls le bonifiche e realizzazione dei nuovi impianti”. Porto Torres è l’unico porto di 400 ettari con 15 metri di fondale: “Se l’Eni liberasse queste aree come ha promesso nell’accordo – spiega il sindaco – si può costruire un futuro”. Il 22 giugno un nuovo incontro con governo ed Eni a Cagliari. Un nuovo segno sul calendario a cui appendere una speranza, in un terra che è stata abituata alle false promesse. Ma non si è mai rassegnata alle menzogne.