venerdì 4 gennaio 2013

Antiriciclaggio, stop al bancomat e il Vaticano cambia gli assegni in Germania. - Marco Lillo



Bankitalia nega il permesso di operare con Deutsche Bank e non conferma Giovanni Castaldi alla guida dell'Unità di informazione finanziaria, l'organismo contro il lavaggio di denaro sporco che a Strasburgo non aveva preso posizione sull'iscrizione dello Stato pontificio nella lista dei Paesi canaglia.

La banca del Vaticano è ormai all’angolo. Dopo aver perso la possibilità di negoziare gli assegni in Italia, dopo la chiusura dell’unico conto operativo alla Jp Morgan di Milano, dal primo gennaio non può nemmeno incassare i pagamenti elettronici tramite Pos all’interno delle mura leonine. Alla farmacia e ai musei accettano solo il bancomat dello Ior, quello che si annuncia con la scritta in latino “Inserito scidulam”, mostrata in un servizio di Report. Altro che “problema tecnico” come ieri minimizzava la Sala Stampa della Santa Sede. Lo stop alle carte di credito e ai bancomat per pagare i farmaci e i biglietti è stato imposto dalla Banca d’Italia in conseguenza di un provvedimento che risale al 6 dicembre scorso: la negazione dell’autorizzazione a Deutsche Bank Italia del permesso ad operare con il Pos in Vaticano.
La motivazione è chiara: il Vaticano continua ad applicare una legislazione bancaria a maglie larghe che non prevede un sistema di vigilanza degno dei parametri internazionali degli organismi antiriciclaggio. Il bando della moneta elettronica italiana è solo l’ultimo di una serie di provvedimenti che stanno restringendo sempre più l’operatività del Vaticano e dell’Istituto per le Opere di Religione. Ormai da tempo le banche italiane, a causa del pressing di Bankitalia, rifiutano di negoziare gli assegni bancari dello Ior. Il Vaticano è costretto così a spedirli fisicamente in Germania dove le autorità tedesche consentono alla casa madre della Deutsche Bank quello che non sarebbe permesso alla sua filiale di Roma. Ora tocca al Pos. La vigilanza della Banca d’Italia già nel 2010 aveva contestato a Deutsche Bank Italia di permettere a uno Stato extracomunitario, quale il Vaticano, di usare i terminali installati nelle mura leonine senza l’autorizzazione prevista dal Testo Unico Bancario. A quel punto Deutsche Bank aveva presentato un’istanza di autorizzazione che somigliava a un condono. Ma a dicembre invece è arrivato il no della vigilanza di Bankitalia.
La banca cara al Papa tedesco e al suo amico, oggi consigliere forte dello Ior e in passato amministratore di Deutsche Bank, Ronaldo Herman Schmitz, ha dovuto cessare le attività in Vaticano dal 31 dicembre. Ormai sono davvero poche le strade del Signore per far girare la vil pecunia. Una via per fare circolare i contanti fuori dalla Città del Vaticano è quella dei conti delle congregazioni, degli istituti e degli enti che dispongono di rapporti bancari in Italia e all’estero. I soldi partono mediante bonifico dal conto italiano a quello tedesco di uno di questi enti e poi – sempre con bonifico – tornano al conto Ior di Deutsche Bank Italia. Talvolta i movimenti sono effettuati con gli assegni circolari intestati a terzi su disposizione dello Ior da una delle poche banche che ancora permettono questa operazione, come la Banca del Fucino.
Insomma sono lontani i tempi in cui lo Ior faceva girare decine di milioni sui conti italiani senza comunicare a nessuno il reale intestatario dei fondi. Il braccio di ferro con l’Autorità di vigilanza bancaria e la magistratura italiana è in corso da quasi tre anni. A settembre del 2010 la Procura di Roma ha sequestrato 23 milioni di euro sul conto Ior del Credito Artigiano contestando la violazione degli obblighi di comunicazione in materia di antiriciclaggio. I due schieramenti che si combattono da allora sono divisi dal fronte della trasparenza ma non rispecchiano i confini tra i due Stati. I pm romani Nello Rossi e Stefano Fava dal 2010 indagano l’allora presidente Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale Paolo Cipriani. Dopo l’interrogatorio dai pm, i due manager Ior però scelgono strade diverse: Gotti si spende, con l’appoggio del cardinale Attilio Nicora, per convincere il Papa a intraprendere la strada della trasparenza.
Il 30 dicembre del 2010 con la legge 127, Benedetto XVI emana tramite motu proprio le disposizioni per avvicinare il Vaticano alle normative internazionali e istituisce l’Autorità antiriciclaggio interna, l’AIF, guidata da Attilio Nicora. L’AIF dovrebbe dialogare con l’omologo ufficio italiano, l’UIF, diretto dall’ex dirigente di Banca d’Italia, Giovanni Castaldi. Per qualche mese le cose sembrano funzionare. La procura revoca il sequestro sui 23 milioni ma presto arrivano le prime impuntature. Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, consigliato dall’avvocato Michele Briamonte, partner dello studio Grande Stevens, impone all’AIF e allo Ior di non comunicare nulla sui movimenti precedenti all’aprile 2011, data di entrata in vigore della legge. A febbraio del 2012 arriva la retromarcia: una nuova legge revoca i poteri all’AIF e rimette il pallino nelle mani della Segreteria di Stato. Il Cardinale Nicora è sconfitto e poco dopo, il 24 maggio scorso, salta anche il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi.
A luglio l’organismo antiriciclaggio Moneyval dovrebbe decidere se mettere il Vaticano nella lista nera degli Stati canaglia. I pronostici sono negativi. Teoricamente gli ispettori di Moneyval prima di decidere dovrebbero ascoltare la posizione della delegazione dell’UIF della Banca d’Italia. Invece l’UIf non prende la parola per controbattere alla versione della delegazione spedita a Strasburgodal Segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il Ministro dell’economia Vittorio Grilli, notoriamente molto vicino al Vaticano, chiede ai rappresentanti UIF di non prendere la parola. Il direttore dell’organismo antiriciclaggio, Giovanni Castaldi, ritira la delegazione dell’UIF e il Vaticano ottiene una mezza bocciatura che però, date le condizioni iniziali, suona come una promozione. E così si arriva all’epilogo del 2013: nel giorno in cui i bancomat del Vaticano si fermano per mancato rispetto delle regole di Bankitalia, il direttore dell’UIF, Giovanni Castaldi, lascia il suo incarico. Per mano di Bankitalia. Il Governatore Ignazio Visco e il direttorio dell’istituto non lo hanno confermato al termine del suo mandato quinquennale. Amen. 

giovedì 3 gennaio 2013

Quelli che avevano capito tutto...su Grillo (Marco Travaglio a Servizio Pubblico)



Per non dimenticare...

I reali motivi della crisi: finalmente qualche tv ne parla.




Caricato in data 20/dic/2011
Un plauso a TeleToscana Nord per aver mandato in onda questo coraggioso servizio che, in maniera semplice e chiara, analizza i motivi (reali) della cosiddetta "crisi". Un video da vedere e condividere ovunque. Finalmente anche i media locali cominciano a prendere in considerazioni determinate tematiche troppo.

Le Impresentarie. - Marco Travaglio



Le primarie sono un’ottima cosa, l’unico antidoto a una delle porcate del Porcellum: le liste bloccate che consentono ai partiti di nominarsi i parlamentari. Grillo, temendo la piena degli opportunisti last minute, ha inventato le parlamentarie web, ma ha ristretto troppo la platea dei votanti: appena 20mila. Alle primarie di Capodanno del Pd han votato un milione di elettori. Bene anche i volti nuovi o seminuovi, premiati per le loro facce pulite e si spera anche per le loro capacità. Ma in alcune regioni d’Italia, dove il voto è militarmente controllato non solo dalle mafie, ma anche da cricche clientelari che comprano preferenze con favori e lavori, le primarie sono finte se non vengono accompagnate da ferrei sbarramenti per garantire il ricambio.
Se si lascia candidare Mirello Crisafulli nella sua Enna, di cui da una vita è signore e padrone a suon di posti e prebende, oltre a essere amicone del boss Raffaele Bevilacqua (con cui fu filmato e intercettato), è ovvio che faccia il pieno di voti. Non bastavano i suoi 15 anni in Assemblea Regionale, le due legislature in Parlamento e il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della provincia la strada comunale che porta alla sua villa, per mandarlo in pensione?
Idem a Messina, dove spopola un altro ras: Francantonio Genovese, che divenne sindaco sebbene azionista della Caronte, la società dei traghetti nello Stretto controllata da Pietro Franza (perciò ribattezzato ‘Franzantonio’) in pieno conflitto d’interessi. Il resto l’ha raccontato la puntata di Report sugli enti di formazione finanziati dalla Regione. Tipo la Lumen, presieduta da Franco Rinaldi, deputato regionale, cognato di Genovese e soprattutto marito di Elena Schirò che lavora dove? Ma alla Lumen, naturalmente. Rinaldi e Genovese sono pure soci nella Training Service, che sta per ricevere 390mila euro di contributi. Invece la Nt Soft fa capo ai nipoti di Genovese e Rinaldi. L’Esofop ha come presidente la cognata di Rinaldi e come consigliere Chiara Schirò, moglie di Genovese. E una società in cui compare Genovese affitta la sede all’Enaip e all’Aram. A che servono a questo punto le primarie? Chi mai riuscirà a prendere più voti di un Genovese? Il conflitto d’interessi, anziché un handicap, diventa un elisir di lunga vita, anzi di immortalità.
Alle primarie di Trapani trionfa Antonino Papania: nel 2002 ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio in un processo per compravendita di posti di lavoro in cambio di soldi. Il suo factotum Filippo Di Maria è stato arrestato tre anni fa per mafia, con l’accusa di essere l’autista, il cassiere e il braccio destro del boss di Alcamo, Nicolò Melodia detto ‘il macellaio’. Per la Mobile, “Di Maria si muoveva incessantemente per procurare posti di lavoro ad amici e conoscenti grazie anche al diretto interessamento di collaboratori e personale di segreteria del senatore”, attivissimo “in occasione di alcune competizioni elettorali”: come “le primarie 2005 per il candidato premier” del centrosinistra. “Lo staff del sen. Papania – scrive il gip – e altri politici contattavano ripetutamente il Di Maria per indurlo a sostenere iniziative politiche… con tutte le persone di sua conoscenza”.
In Calabria invece stravince le primarie l’ottimo Nicodemo Oliverio, imputato da tre anni al Tribunale di Roma con altre 14 persone per bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale aggravata, in uno dei processi sullo scandalo del megapatrimonio immobiliare della Dc, ovviamente scomparso. A Crotone, Oliverio ha raccolto 8.257 preferenze su 8.547 (il 97%). Chissà se arriverà prima la sentenza, prevista per febbraio, o la rielezione in Parlamento, prevista per febbraio. E chissà se Piero Grasso lo sa.

"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta": il mistero del dossier che scuote Palermo. - Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo


"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta":  il mistero del dossier che scuote Palermo


Una lettera anonima fatta arrivare a uno dei sostituti procuratori che si occupano dell'inchiesta sulla trattativa. Nella missiva, ricostruzioni considerate affidabili e accuse: "Un carabiniere rubò l'agenda rossa di Borsellino". Il "protocollo  fantasma" afferma anche che fu nascosto l'archivio del covo di Riina. Ora la Procura vuole indagare.

PALERMO - È una lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia. Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto. E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata "da un carabiniere". 

L'inchiesta giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce "catacombe di Stato". Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come "attendibile", studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno "dal di dentro" sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo. Lui, definisce la sua lettera "un esposto". L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa. 

Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio. L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo. È in codice: "Protocollo fantasma". 

Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai "suggerimenti" dell'anonimo. Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura. Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a "un accordo" fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina.

Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano. Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: "Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre". E annota subito dopo, in latino: "Impunitas semper ad deteriora invitat". L'impunità invita sempre a cose peggiori. 

Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982  -  fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata. In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio. Poi si addentra nel particolare. Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa. 

Li mette in guardia da "uomini delle Istituzioni" che li stanno sorvegliando. "Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto", scrive. E dice che li riversano "a Roma", in una non meglio identificata "centrale". Fra gli spioni  -  sostiene l'anonimo  -  anche alcuni magistrati. Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane. Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica. Se ne sono accorti i carabinieri della scorta. Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città. Un intruso sapeva anche questo.

Torniamo all'anonimo. Spiega dove cercare nuove prove sul patto. Usa queste parole: "Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare". E specifica i luoghi. Segue una lista di nomi. Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa. Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un "addetto ai lavori". Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo. Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993. Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra. "Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via", scrive ancora l'anonimo. 

E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone. "L'ha presa un carabiniere", giura l'autore della lettera. 

Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda. L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani. Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda. Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta. In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi. Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita.

Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo? Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto. Uno che viene dal passato di Palermo.




http://www.repubblica.it/cronaca/2013/01/03/news/stato_mafia_anonima_lettera-49835506/?ref=HREC1-4

IL MIGLIOR DISCORSO DEL MONDO - Presid Josè Mujica - ITA - ENG - ESP




Pubblicato in data 04/dic/2012
Il discorso che vorremmo ascoltare da ogni politico. Il Presidente dell'Uruguay Josè "Pepe" Mujica tocca i cuori con la sua semplice, inoppugnabile, coraggiosa verità. E' l'uomo che governa il mercato o il mercato che governa l'uomo? Un discorso che passerà alla storia.
_Pepe Mujica, noto come "il presidente più povero del mondo", ha attualmente 77 anni, vive nella sua casa modesta, devolve il 90% del suo stipendio in beneficenza. E' stato in carcere 14 anni come oppositore del regime.

Un miliardo in fumo in sei mesi. Ecco la socializzazione delle perdite finanziarie. - Costanza Iotti




Secondo le stime dell'Adusbef, negli ultimi dieci anni i risparmiatori hanno lasciato per strada qualcosa come 52 miliardi di euro di perdite, più di 46mila euro a testa per più di un milione di persone, un miliardo solo nei primi sei mesi del 2012. Ma il conto è al ribasso, perché tiene in considerazione solo i crac finiti in un'aula di un tribunale. Senza contare, quindi, le fregature del tutto legali.

Oltre un miliardo di euro. E’ il totale dei risparmi degli italiani andati in fumo soltanto nei primi sei mesi del 2012. E non per tasse, rincari o riduzione della busta paga causa cassa integrazione, ma per la malafinanza. Del resto la cosiddetta socializzazione delle perdite, contraltare della privatizzazione degli utili ora di gran moda nell’Europa della crisi che taglia il welfare a piene mani per tappare i buchi, è sempre stata di casa dove scorrono i soldi dei risparmiatori. Per dare un’idea delle cifre in gioco, secondo le stime dell’Adusbef i crac finanziari dal 2001 ai giorni nostri sono costati complessivamente 52 miliardi di euro che sono stati scuciti dalle tasche di 1,121 milioni di comuni cittadini, per una spesa media unitaria di 46.387 euro. E il calcolo è parziale, perché tiene conto solo dei casi finiti in Tribunale, ma infinite sono le vie, anche quelle legali, per privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Tanto più in Borsa, dove i risparmiatori meno avvezzi ai giochi di prestigio sono soprannominati il parco buoi, ma dove chi decide di giocare si assume il rischio d’impresa. Senza contare i costi dell’intervento pubblico, delle perdite di posti di lavoro e delle conseguenza per il territorio. Anche per l’anno che ci buttiamo alle spalle, quindi, ce n’è per tutti i generi e tipi.
I GRANDI CLASSICI DEL CRAC. Con un costo stimato, sempre dall’Adusbef, in 860 milioni di euro il primo e 160 milioni il secondo, sono stati i casi Deiulemar e Banca Network a fare la parte del leone nella prima metà dell’anno coinvolgendo oltre 42mila risparmiatori. Per il crac della compagnia di navigazione di Torre del Greco delle famiglie Della Gatta, Iuliano e Lembo è stato disposto il giudizio immediato con la prima udienza in calendario per il prossimo 11 marzo. Ma sarà lunga sdipanare la matassa di una vicenda che ha dell’incredibile, dove i milioni raccolti presso i risparmiatori, ma anche vip locali e capiclan, non venivano messi a bilancio e depositati direttamente sui conti correnti personali del capostipite degli armatori, senza alcun controllo alla faccia delle normative sull’antiriciclaggio.
“Chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha commentato qualcuno. Che dire invece della vicenda di Banca Network Investimenti, Bni, il cui slogan era “Una banca efficiente. Sempre al tuo fianco”, salvo poi lasciare a piedi 69 dipendenti e 28mila correntisti che quest’estate si sono visti congelare i conti da un giorno con l’altro in attesa dell’intervento del Fondo di tutela dei depositi? Per non parlare della sorte degli obbligazionisti che avevano finanziato con oltre 32 milioni di euro la Sopaf dei fratelli Magnoni che aveva in mano la maggioranza della banca e che a sua volta è crollata in autunno sotto il peso di oltre 100 milioni di debiti. Ma che grazie alla riforma del diritto fallimentare in tema di concordati preventivi introdotta dal governo Monti con il decreto Sviluppo, viaggia ancora tra le tutele del concordato e il fallimento.
A secco, quindi, creditori e, ancor di più, i piccoli azionisti che soltanto nell’ultimo anno di scambi, in Borsa hanno assistito al tracollo del titolo che ha bruciato l’84% del suo valore. Proprio mentre il socio di maggioranza, Giorgio Magnoni fratello del più noto Ruggero, ex presidente di Lehman Brothers per l’Italia, “faceva affari d’oro nell’immobiliare sull’asse tra il Lussemburgo e la Germania”, come riportato dal quotidiano Mf lo scorso 12 dicembre. Immancabili, quindi, gli accertamenti in corso da parte della magistratura sulla vicenda Sopaf, come su quella di Banca Network che include gli investimenti in titoli rischiosi da parte dell’istituto A partire da quelli targati Lehman Brothers.
PRODOTTI BANCARI FINITI IN CLASS ACTION. Ma i soldi dei risparmiatori non finiscono solo nelle azioni delle società quotate in Borsa. Ci sono sia i prodotti finanziari più o meno strutturati, sia i banali conti correnti. Un’area piuttosto vasta e delicata, quindi, che quest’anno ha registrato il via della prima class action nei confronti di un gruppo bancario, Intesa SanPaolo. Oggetto del contendere, che potrebbe riguardare fino a 400mila clienti dell’istituto, alcune spese di conto che sono state introdotte dalla banca in sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009 e giudicate illegittime da Altroconsumo, che ha promosso l’azione collettiva partita a settembre. Il termine per l’adesione è il prossimo 21 gennaio, mentre l’appuntamento in Tribunale a Torino per il conteggio finale delle adesioni è fissato per marzo.
In attesa degli esiti della più ampia inchiesta della magistratura sulla gestione della Banca Popolare di Milano di Massimo Ponzellini, si sta invece chiudendo con una conciliazione da almeno 40 milioni di euro la triste vicenda del convertendo allegro della Bpm, il bond ad alto rischio da 170 milioni di euro che era stato venduto nel 2009 senza la necessaria informazione a 15mila clienti della banca milanese oggi nelle mani di Andrea Bonomi. L’intesa, però, non porterà a grandi risultati per i consumatori secondo l’Aduc, unica associazione che non l’ha firmata commentando che “questi tavoli di conciliazione si risolvono in una buffonata a danno dei risparmiatori ed a vantaggio in primo luogo della Banca (che paga una piccola frazione di quello che dovrebbe sborsare), secondariamente delle associazioni che vi partecipano”.
MANCATI INCASSI. Notevole, poi, la lista delle fregature assolutamente legali. Come le uscite dal listino a prezzi convenientissimi per l’azionista di maggioranza, ma piuttosto deludenti per il piccolo investitore costretto giocoforza ad aderire alle Offerte pubbliche di acquisto (Opa) perché in minoranza. E’ il caso, per esempio, di Benetton, con la famiglia di Ponzano Veneto che a febbraio ha approfittato dei prezzi da saldo per ritirare dal mercato la società dei maglioncini a un controvalore di circa 270 milioni di euro pari a 4,6 euro per azione. Somma che secondo il Sole 24 Ore equivale pro quota a meno del solo valore degli immobili della società.
“Sempre meglio che niente”, commenta chi invece è rimasto a bocca asciutta. In caso di cambio di controllo di una società quotata, per offrire a tutti i soggetti coinvolti la stessa possibilità di guadagno, la normativa prevede infatti l’obbligo del lancio di un’Opa allo stesso prezzo per tutti gli azionisti. Legge che però si può aggirare. In prima istanza fermandosi alla soglia 29,99% del capitale, basta che non ci sia un accordo segreto con altri azionisti per avere comunque la maggioranza nelle assemblee dove si prendono le decisioni importanti senza pagare il dazio ai soci di minoranza. E’ proprio su questa ipotesi che sta indagando la Procura di Milano a proposito della vittoria del gruppo Salini sul rivale Gavio all’assemblea di Impregilo dello scorso luglio, che peraltro è stata dichiarata regolare dal Tribunale, anche se sulla sentenza pende un ricorso in appello. La questione non è da poco, anche perché tra la ragnatela di interessi che gravitano intorno alla società di costruzioni c’è l’appalto per il Ponte sullo Stretto di Messina con annesse penali da mezzo miliardo a carico dello Stato.
Ancor più delicato, coi tempi che corrono, il tema delle esenzioni dall’Opa nei casi accertati di salvataggio delle società in crisi. Come quello del gruppo Premafin-Fondiaria Sai che fu dei Ligresti che ha tenuto banco per tutto l’anno. E anche qui la Procura indaga, tra il resto, sull’ipotesi dell’esistenza di accordi irregolari nell’ambito dell’esenzione dal lancio dell’Opa concessa dalla Consob a Unipol, a patto che dal piano orchestrato da Mediobanca venissero cancellati i vantaggi previsti per la famiglia Ligresti, dato che avrebbero premiato l’azionista uscente e per di più responsabile del dissesto, lasciando a bocca asciutta gli altri investitori. Le clausole sono state cancellate, ma a fine luglio gli stessi Ligresti hanno fatto saltar fuori un ipotetico accordo segreto da 45 milioni con l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, che nella faccenda, in quanto creditore miliardario sia verso i Ligresti che verso Unipol, aveva tutti gli interessi a che l’operazione andasse a buon fine.
GRUPPI E CREDITI DA SALVARE. Ma quella del papello Nagel-Ligresti è sola una delle tappe della vicenda Ligresti al vaglio degli inquirenti tra Milano e Torino. Come è ancora tutta da giocare la partita entrata nel vivo nel 2012 sul salvataggio dei grandi gruppi quotati con una buona dose di debiti che non fanno dormire sonni tranquilli né ai banchieri, né ai grandi azionisti. E talvolta neppure allo Stato. Si va dall’immane debito dell’editrice del Corriere della SeraRcs, che coinvolge tutto quel che resta del gotha della finanza italiana che sul tema continua a prendere tempo, al buco del Monte dei Paschi di Siena, passando per Parmalat e Telecom Italia, a proposito della quale perfino un manager pubblico come Franco Bassanini si è appena unito al coro della richiesta di un incentivo statale, per aiutare la società soffocata da 30 miliardi di debiti frutto di una privatizzazione “sbagliata” ad aprire la rete agli altri operatori.
Quel che è certo, intanto, è che nel caso Unipol-FonSai i risparmiatori, inclusi quelli che avevano investito sulla compagnia delle Coop, oltre che con l’Opa mancata possono già fare i conti con l’evaporazione di investimenti per una somma complessiva compresa tra 300 e 400 milioni di euro. In quello del Monte dei Paschi, i soldi, 3,9 miliardi più altri 550 milioni potenziali per gli interessi, arrivano direttamente dal contribuente via ministero del Tesoro. Mentre su Parmalat pagano innanzitutto i dipendenti, che con la prevista chiusura di tre stabilimenti rischiano il posto di lavoro. Intanto l’azionista francese Lactalis si è premurato di vendere a Collecchio una sua società americana, portandosi a casa metà del tesoretto da 1,5 miliardi raccolto da Enrico Bondi con le azioni legali contro le banche per il crac di Calisto Tanzi, che era custodito nelle casse del gruppo. E che così ha finito col servire anche ad alleggerire i debiti dei francesi verso Mediobanca, che a Lactalis nel 2011 aveva prestato 410 milioni proprio per l’acquisto di Parmalat. Anche qui la magistrature è al lavoro, l’ipotesi a carico dei vertici della società è di appropriazione indebita. Ma è difficile che si arrivi a un punto prima di una decisione definitiva sulle sorti del centinaio di dipendenti italiani a rischio.