venerdì 28 giugno 2019

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. - Luca Rinaldi




Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori.

Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.

A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”».

Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comuntiarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni.

Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimeneto 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta.

Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.

Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale.

A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse.

L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm.

«Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente».

Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore.

Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.

Fonte: Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza.

Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. 

Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996.

Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono».

Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.»

Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto.

Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.

Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

https://www.linkiesta.it/it/article/2015/08/03/quasi-200-giudici-hanno-interessi-nelle-strutture-a-cui-affidano-i-min/26917/?fbclid=IwAR3QDxQv8QK7_Jt5JzQW-Y8WbZRlW9jE5iNE5bN2_oMi_rO9cqyRcHVc3Jw

giovedì 27 giugno 2019

Così gli scafisti comprano e vendono i migranti Milioni di dollari verso le casse dell'Is. - (aprile 2015)

Così gli scafisti comprano e vendono i migranti Milioni di dollari verso le casse dell'Is

Per il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, è necessario seguire quella montagna di denaro per mettere in ginocchio un sistema criminale perfetto. I sospetti sui contatti tra gli schiavisti e le"istituzioni" locali libiche.


Dietro alle tragedie dei migranti c’è un sistema criminale perfetto, un sistema transnazionale che non lascia nulla al caso ed è in grado di fornire servizi e assistenza mirati in base a quanto ciascun disperato è disposto a pagare. Alla base di tutto c’è un giro di denaro incalcolabile: per arrivare dal centro Africa alla Libia si pagano dai 4000 ai 5000 dollari; per attraversare il Canale di Sicilia se ne devono spendere tra 1000 e 1500. Ma il servizio non finisce qui: l’assistenza viene fornita anche in Italia, organizzando la fuga dai centri di accoglienza (da Siculiana, in provincia di Agrigento, e dal Cara di Mineo), con dei veri e propri servizi taxi e garantendo ospitalità per una o due notti (costo compreso tra i 200 e i 400 dollari). Infine, l’intero asset si conclude con i servizi di trasporto verso i paesi del centro e Nord Europa, la meta finale più scelta: anche questo transfert si paga carissimo, sino a 1000 dollari, nonostante vengano utilizzate le normali linee degli autobus o le ferrovie.

Esiste anche un “decalogo” per il migrante, che viene istruito dagli organizzatori del traffico su come comportarsi e come sottrarsi, se possibile, alle procedure di fotosegnalazione e agli accertamenti di rito. La ragione della clandestinità degli spostamenti, nel territorio nazionale, è legata alle procedure di Schengen: una segnalazione in Italia comporterebbe un procedimento amministrativo nel paese dove è iniziato, mentre i migranti preferiscono trasferirsi nei paesi del Nord Europa, per ricongiungersi a parenti e congiunti, lì residenti. Sono tutti dati che emergono dall'inchiesta della Dda di Palermo sui migranti, una rete di connessioni tra Italia (con basi in Sicilia, nel Lazio e in Lombardia), Libia e Sudan.

Sulle sponde della Libia ci sarebbero almeno 500 mila profughi siriani in attesa di compiere l’ultimo tratto del viaggio della speranza. In ballo ci sono centinaia di milioni di dollari: “A chi finiscono queste somme di denaro?”. E' l’interrogativo  lanciato dal procuratore di Palermo Franco Lo Voi, nel commentare l’inchiesta sulle rete del traffico di migranti che ha portato all’emissione di 24 ordinanze di custodia cautelare. L’indagine, condotta dallo Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, ha svelato i volti dei trafficanti, le modalità operative in Africa e sul territorio italiano e ha decapitato la rete dei collaboratori che operava sul territorio italiano.

Quella smantellata, spiegano magistrati e investigatori, è una delle reti che operano nel settore del traffico di migranti verso le coste della Sicilia. Un primo passo, non definitivo. Ma già i tasselli di quel puzzle di morte che è il traffico di migranti si inizia a comporre.

Dal porto di Zuwara in Libia alla Sicilia arrivano in migliaia, e in migliaia, come le cronache raccontano, ci lasciano la pelle. Per i magistrati siciliani, ormai linea di frontiera dello Stato nel contrapporsi ai mercanti di morte, si tratta di un “traffico inarrestabile”, la cui trama è stata svelata, solo in parte, grazie all’attività degli uomini del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato guidata da Renato Cortese. Solo in parte perché, proprio come suggeriscono i dubbi del Procuratore Lo Voi, il prossimo passo sarà verificare dove finisca quella montagna di denaro. Ed è forte il sospetto che quei fondi siano parte del tesoro accumulato dalle frange islamiste che si contendono i resti della Libia. Perché la rete che controlla i traffici di esseri umani dalla sponda sud del Mediterraneo hanno contatti con le “istituzioni” locali o con quel che ne resta. Lo dimostrano alcune intercettazioni catturate dalla voce di Medhanie Yehdego Mered, il “Generale” che controlla il fronte libico, insieme al suo alter ego Ermias Ghermay . E’ proprio Medhane al telefono, a spiegare ad uno dei suoi clienti che ha dovuto corrompere dei poliziotti libici per far uscire dal carcere "quelle persone". Erano migranti in attesa di partire ed erano stati arrestati. Medhane sostiene di aver pagato 40.000 dollari per ottenere la loro liberazione e parla di “accordi” con la polizia locale.

Per loro i migranti sono pacchetti da spostare da un posto all’altro. L’inchiesta della Procura di Palermo svela anche che interi gruppi di viaggiatori vengono “acquistati” e inviati verso le coste della Libia dove è previsto, in alcuni casi, un servizio di vigilanza con guardie armate.

Anche sul piano finanziario, l’inchiesta di Palermo racconta fatti inediti: i pagamenti per l’acquisto dei viaggi della speranza avviene con i sistemi di trasferimento monetario ma anche con l’hawala, il sistema di transazioni sulla parola che si basa in gran parte sulla legge islamica.

Le indagini continuano. E non saranno semplici: “E’ tutto molto complicato – spiega il pm di Palermo, Gery Ferrara – perché ci siamo dovuti confrontare con un contesto difficile da decrittare, con personaggi di spessore criminale che comunicano tra loro con tanti dialetti diversi uno dall’altro. Per questo, tra le tante cose, è necessario che venga attivato al più presto un albo degli interpreti”.

Reggio Emilia, lavaggi del cervello e scosse elettriche sui minori da dare in affido. - Alessandro Fulloni

Reggio Emilia, lavaggi del cervello e scosse elettriche sui minori da dare in affido


Certificazioni false per strappare i bimbi a famiglie in difficoltà e affidarli ad altre con requisiti più idonei. Ma non solo. Man mano che i dettagli aumentano e vengono resi noti, questa indagine dei carabinieri condotta dai carabinieri di Reggio Emilia — e che prende il nome, eloquente, di «angeli e demoni» appare sempre più sconvolgente. Si parla, in sintesi, di piccoli tolti illecitamente ai genitori per darli (dopo un giro di soldi) ad altri. Ma per costruire le condizioni necessarie a questo passaggio, ogni mezzo era lecito: comprese false relazioni, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe in rappresentazione dei genitori, falsi ricordi di abusi sessuali generati attraverso impulsi elettrici per alterare lo stato della memoria dei piccoli in prossimità dei colloqui giudiziari. Un vero e proprio «lavaggio del cervello», insomma. Diciotto persone, tra cui il sindaco Pd di Bibbiano (Reggio Emilia) Andrea Carletti rieletto poche settimane fa al secondo mandato, politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti e psicologi e psicoterapeuti di una Onlus di Torino sono stati raggiunti da misure cautelari varie, che vanno dai domiciliari (come nel caso dello stesso primo cittadino) al divieto temporaneo di esercitare la professione. 

Il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti
Il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti

Una disposizione, questa, indirizzata a dirigenti amministrativi e operatori sociosanitari. L’inchiesta vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D’Enza, accusati di aver redatto le false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito ad amici e conoscenti. Uno sconvolgente «business» attorno all’infanzia che andava avanti da svariati anni e che coinvolgerebbe decine e e decine di minori.

«Impulsi elettrici sui bambini».
Nella medesima inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Salvi ci sono anche decine di indagati. Quello ricostruito dagli investigatori è un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Tra i reati contestati ci sono frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d’uso. 
Tra i metodi contestati, ore e ore di intensi «lavaggi del cervello» durante le sedute di psicoterapia, bambini suggestionati anche con l’uso di impulsi elettrici, spacciati ai piccoli come «macchinetta dei ricordi», un sistema che in realtà avrebbe «alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari».

«Difficili situazioni sociali».
La finalità del gruppo di persone sotto inchiesta, secondo la procura, era sottrarre figli a famiglie in difficili situazioni sociali, e affidarli, dietro pagamento, ad altri genitori. Per ottenere questo scopo sarebbero stati usati metodi per manipolare la memoria e i racconti delle vittime e falsificare i documenti. Appunto: ecco il perché dei falsi dossier composti da disegni dei bambini falsificati con l’aggiunta di dettagli a carattere sessuale, abitazioni descritte falsamente come fatiscenti, stati emotivi dei piccoli relazionati in modo ingannevole, travestimenti dei terapeuti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, denigrazione della figura paterna e materna.

«Ricordi pilotati».
Tutto ciò serviva a «pilotare» i ricordi e i racconti dei bambini in vista dei colloqui con i giudici incaricati di decidere sul loro affido. Un particolare sconvolgente: dopo l’allontanamento dalle famiglie d’origine i minori sarebbero stati addirittura vittime di stupro all’interno delle famiglie affidatarie e delle comunità. Non bastasse, c’è anche questo: i Servizi Sociali per lunghi anni hanno omesso di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati.

Le misure interdittive.
Oltre al sindaco, altre cinque persone sono state sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Tra queste la responsabile del servizio sociale integrato dell’Unione di Comuni della Val d’Enza, una coordinatrice del medesimo servizio, un’assistente sociale e due psicoterapeuti di una Onlus. Ulteriori otto misure cautelari di natura interdittiva, costituite dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali sono state eseguite a carico di dirigenti comunali, operatori socio-sanitari, educatori. Infine altre due misure coercitive del divieto di avvicinamento a un minore riguardano una coppia affidataria accusata di maltrattamenti. Oltre 100 i carabinieri impegnati nell’esecuzione dell’ordinanza cautelare e in decine di perquisizioni domiciliari.

I soldi attorno al business.
Secondo i carabinieri, quello sugli illeciti affidamenti di minori in provincia di Reggio Emilia è «un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell’indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali». Grazie a questi fondi venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio di una Onlus, «in elusione del codice degli appalti e delle disposizioni dell’Autorità Nazionale Anticorruzione»

Castelmezzano, Basilicata, italia

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Scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma..

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Quella che si sta combattendo a Roma da ormai 3 anni attorno al mega business dei rifiuti è una guerra studiata a tavolino e condotta senza esclusione di colpi: bersaglio grosso fiaccare la resistenza di una Sindaca determinata a spezzare una volta per tutte il modello old style, fatto di discariche e inceneritori, grazie al quale, da decenni, a Roma banchettavano indisturbati comitati d'affari composti da monopolisti, ecomafie e politici con le mani in pasta. 
Roba che pesa miliardi. 

Quando alla bestia gli sottrai l'osso o solo tenti di sottrarglielo, si incazza, è la dura legge della natura. 
Virginia Raggi, sola pur in mezzo a tanta gente, sta pagando per questo. 
Una guerra sotterranea fatta di studiati ritardi, incidenti di percorso creati ad arte e veri e propri atti criminali, stanno mettendo in ginocchio Roma, oggi oggettivamente sopraffatta dai rifiuti, e la sua Sindaca. 

Il tutto a spese dei contribuenti romani sia in termini di pecunia (paghiamo una Ta.Ri. fra le più alte d'italia anche perché sempre più spesso chiamati a sopportare lo scotto del conferimento fuori regione), che di salute. 
Sono gli stessi romani che oggi, col cassonetto pieno sotto casa, lungi dal comprenderne le cause, si fanno sobillare dalle menzogne di una stampa locale che ha ingaggiato una campagna feroce contro la Sindaca, che se poi quella stampa ha un patron che si chiama Caltagirone, il palazzinaro romano con quote in Acea amante degli inceneritori, è un caso. Come è un caso che proprio la Raggi al Caltagirone lo ha escluso dalla costruzione del nuovo Stadio. 
E non poteva mancare, nel plotone d'esecuzione della Raggi Salvini, la prima donna del momento che, con le sue esternazioni quotidiane al vetriolo, ne vorrebbe la testa per piazzare i suoi fedeli, i figli di Alberto da Giussano, al Campidoglio. Roba che solo a pensarci mi vengono i brividi. 

Purtroppo la gente ha la memoria corta o, semplicemente, non è consapevole che questo stato di cose parte da lontano. 
Gravi responsabilità sono da addossare alle Giunte capitoline degli ultimi 30 anni, almeno. 
Se solo mettiamo insieme tutti gli ingredienti del recente passato, ne esce fuori una miscela esplosiva:

A partire dalla chiusura, nel 2003, della discarica di Malagrotta, la "buca" più grande d'Europa, chiusura imposta dalla UE in forza di un direttiva che fa divieto di smaltimento dei rifiuti non preliminarmente trattati, a Roma è stato tutto un ricercare soluzioni tampone e non strutturali, tutta roba neanche lontanamente parente di un sistema ecosostenibile e rispettoso dell'ambiente che amministrazioni responsabili avrebbero sentito l'obbligo di ricercare . 

Per circa 40 anni Roma se l'era cavata a buon mercato sversando i suoi rifiuti "tali e quali" dentro una buca, trasformandola in una vera e propria bomba ecologica, che però metteva tutti d'accordo, a partire dagli stessi romani (in ossequio al detto "occhio non vede cuore non duole"), passando per la politica (quella con la p minuscola, da destra a sinistra), fino al monopolista Manlio Cerroni, "l'ottavo re di Roma", avvezzo a concludere i suoi affari con la controllata comunale AMA con una semplice stretta di mano, lo scopri' nel 2016 la Raggi appena insediata, quando incredula non si trovò nei cassetti neanche uno straccio di contratto. 

Ed è così che quando la Raggi è subentrata in Campidoglio si è trovata a gestire, tramite la controllata comunale AMA, il cui gruppo dirigente era più attento a mantenere i suoi privilegi che alla qualità del servizio reso, 4.600 tonnellate di rifiuti al giorno di cui appena 2.000 di differenziata e ben 2.600 tonnellate di indifferenziata il cui trattamento era stato affidato alla cura di soli 4 impianti (TMB), costretti a lavorare h24 al limite della capienza e di cui 2 di proprietà AMA e 2 di proprietà del solito, immarcescibile, Manlio Cerroni, nel frattempo costretto ad operare sotto tutela di un commissario prefettizio perchè la sua Co.La.Ri. era stata raggiunta da interdittiva Antimafia, procedimento sfociato in un processo che per 4 anni lo avrebbe visto sul banco degli imputati e poi prosciolto in primo grado. 

In questa situazione di estrema fragilità strutturale, tenendo fede al programma per il quale i romani l'avevano votata, appena insediata Virginia Raggi ha licenziato un piano rifiuti che punta tutto sulla raccolta differenziata, che i rifiuti li valorizza prevedendo la costruzione di impianti di compostaggio e recupero, e che porta con sé il progetto di riconversione degli impianti esistenti al recupero di materia, un progetto di medio periodo che avrebbe relegato nel passato parole come discarica e inceneritore. 
Ed è da lì che sono cominciati i guai per Virginia. Come in un piano ben studiato tutti gli attori hanno giocato la loro parte in commedia. 

A cominciare dalla Regione Lazio a trazione Pd dove un Zingaretti, latitante dal 2012 dal licenziare un nuovo piano rifiuti per l'individuazione di nuovi impianti regionali, pur di mettere in difficoltà la Raggi ha continuato a fare melina fino a beccarsi ben 2 sentenze del TAR, la prima del 2016 e la seconda nel 2018 che di fatto lo commissariava. 
Fino a che nel gennaio di quest'anno lo ha prodotto il piano mister Zingaretti, ma cercando di imporre alla Sindaca la realizzazione di un'altra discarica, quella di Pian dell'Olmo, rispolverando un vecchio progetto di Cerroni già bocciato anni addietro e ben sapendo che la Raggi non ne avrebbe mai accettato la realizzazione e che sta provocando in queste ore la reazione sdegnata degli abitanti della zona e dei quartieri limitrofi. 

E che dire degli stessi dipartimenti comunali che, insieme alla sovrintendenza archeologica, a maggio scorso hanno silurato la realizzazione dei 2 impianti di compostaggio previsti nel piano Raggi a Cesano e Casal Selce? Due stabilimenti che avrebbero consentito di trasformare, sull'area metropolitana di Roma, l'umido in compost, un fertilizzante naturale per l'agricoltura. 
Vien quasi da ridere, se non ci fosse da piangere, a pensare che un manipolo di dirigenti comunali, che per decenni hanno tollerato che i rifiuti romani si sversassero tali e quali in una cloaca massima, indifferenti al fatto che si appestavano intere generazioni di romani, oggi sacrifica l'inizio di una riconversione ecologica della filiera dei rifiuti di Roma sull'altare del piano regolatore e supposte criticità paesaggistiche e archeologiche. 

L' era Raggi, fra l'altro, verrà ricordata anche per gli incendi seriali dei cassonetti (700 circa, un danno di mezzo milione di lire che i romani pagheranno di loro tasca). 
Tutte casualità? 
Così come: sarà una casualità che per ben tre volte nel 2018 un bando AMA di 225 milioni per l'esportazione dei rifiuti prodotti dai TMB è andato deserto? 
Ma il colpo più basso alla Raggi, quello che la sta mettendo KO, scaturisce da una sequela di eventi incredibili che si sono succeduti negli ultimi mesi e che sembrano essere stati pensati da chi conosce bene la fragile macchina impiantistica su cui poggia la filiera dei rifiuti indifferenziati romani. 

A dicembre 2018 il TMB Salario di proprietà AMA, quello che da solo trattava 750 tonnellate di rifiuti al giorno, viene completamente distrutto dalle fiamme e non riaprirà mai più. 
A marzo di questo anno tocca all'altro impianto Ama di andare a fuoco, quello di Rocca Cencia. Dopo essere stato a lungo sotto sequestro, ha riaperto a singhiozzo per poi guastarsi a fine maggio per il sovraccarico di lavoro. 
E in questa situazione drammatica, dulcis in fundo, è arrivata, a sorpresa, la mossa di Cerroni, che con una tempistica perfetta da aprile ha chiuso parzialmente per manutenzione i 2 TMB del suo Consorzio Colari e riaprirà solo dopo l'estate. 

Come in una partita a scacchi, il sistema mafiopolitico romano ha dato scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma.

‘Ndrangheta in Emilia, il caporalato del clan: operai inviati a Bruxelles. “Paghe da fame e un terzo dei soldi finiva ai boss” - Paolo Bonacini

‘Ndrangheta in Emilia, il caporalato del clan: operai inviati a Bruxelles. “Paghe da fame e un terzo dei soldi finiva ai boss”

L'ultima inchiesta contro i Grande Aracri ricostruisce le vicende legate all’intermediazione di manodopera. Sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i cantieri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento.

L’inchiesta Grimilde è come una dependance di Aemilia, il maxi processo alla ndrangheta in Nord Italia. Una succursale che aveva sede a Brescello, chiusa dagli arresti ottenuti dalla pm di Bologna, Beatrice Ronchi. Settantasei gli indagati (13 nella sola Brescello), 16 custodie cautelari, 13 persone accusate di 416 bis, appartenenza ad associazione criminale di stampo mafioso. Una famiglia sotto accusa, quella di Francesco Grande Aracri, della moglie Santina Pucci, dei figli Paolo, Rosita e Salvatore, detto Calamaro e vero reggente delle attività esterne dopo che la nomea del padre era stata compromessa dalla condanna in Edilpiovra. L’uomo che già secondo Aemilia era il vero proprietario dei due locali più “in” di Reggio Emilia, qualche tempo fa, sul fronte discoteche giovanili: il Los Angeles a Quattro Castella e l’Italghisa in città. Anche Carmelina, moglie di Salvatore e con lui residente a Brescello, è indagata, e assieme a lei altri quattro membri della famiglia Passafaro che abita a Viadana.
Erano loro, con illustri compagni di avventura, a mandare avanti le attività di ‘ndrangheta dalla dependance di Brescello dopo il gennaio 2015, con il consueto corredo di intestazioni fittizie, minacce e intimidazioni, falsi e truffe, estorsioni e recupero crediti, furti e sfruttamento dei lavoratori. Carpentieri e muratori in particolare, reclutati dal capofamiglia Francesco Grande Aracri che insegnava al figlio Salvatore come si utilizza al meglio il caporalato e andava personalmente a Bruxelles per gestire le attività che varcavano i confini nazionali.
Le vicende legate all’intermediazione di manodopera sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i canteri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento. I collegamenti con il Belgio erano garantiti da Mario Timpano, indagato residente a Dilbeek nel paese del nord, mentre ad attendere la manovalanza a Bruxelles e a smistarla nei cantieri era Davide Gaspari, nato in Germania e residente a Viadana di Mantova, finito ora agli arresti domiciliari.
Un terzo del compenso per il lavoro prestato finiva nelle tasche della ‘ndrangheta, mentre i carpentieri e i muratori ottenevano pagamenti da fame. Un caso per tutti: l’operaio Francesco Sciano che ha lavorato per 100 ore ricevendo 675 euro in contanti (6,75 euro l’ora) senza busta paga, senza indennità, senza contributi, pagandosi da solo il vitto nelle settimane dal 25 marzo al 13 aprile 2017. Peggio degli emigranti italiani nelle miniere del Belgio settant’anni fa. 
L’insieme dei reati di Grimilde è stato commesso tra il 2004 e il 2018, con particolare intensità d’azione negli ultimi quattro anni, quando gli uomini liberi della cosca coprivano anche i vuoti lasciato da quelli in galera. Quando in molti a Reggio Emilia si illudevano che tutto fosse finito. Il caso più eclatante è quello riguardante Giuseppe Caruso, dipendente dell’Ufficio delle Dogane di Piacenza, accusato del 416 bis assieme al fratello Albino e capace (a proprio dire) di muovere mari e monti per gli interessi della cosca. Giuseppe Caruso è anche presidente del Consiglio comunale di Piacenza, in quota a Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni ne ha annunciato ieri l’espulsione dal partito del presidente arrestato.
Anche l’ex presidente del Consiglio Comunale di Parma Giovanni Paolo Bernini (Forza Italia) fu accusato in Aemilia di concorso esterno all’associazione mafiosa, ma il reato venne riqualificato ed estinto per avvenuta prescrizione. Anche il capogruppo di Forza Italia in Consiglio Comunale a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, è ancora sotto processo in Aemilia, dopo l’assoluzione di primo grado, la condanna in appello e la decisione della Cassazione di rinviarlo ad un nuovo appello. E infine l’11 luglio prossimo, tra pochi giorni, il Gup di Bologna si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla procura nei confronti di 11 persone, tra cui funzionari pubblici dello Stato, accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, con l’aggravante del metodo mafioso, in concorso con l’allora senatore Pdl Carlo Giovanardi, ex componente della commissione parlamentare antimafia. Il tutto all’indomani del terremoto, per ottenere la riammissione nella white list della Bianchini Costruzioni srl. La stimata impresa che – per l’accusa – utilizzava manodopera fornita dalla ‘ndrangheta.
Un’altra società che casca nelle mani dei Grande Aracri di Brescello, con un ruolo in questo caso giocato anche dal capo dei capi Nicolino, è la azienda Vigna Dogarina srl di Treviso, alla quale i Grande Aracri portano via tonnellate di vino per centinaia di migliaia di euro che non verranno mai pagati, mostrando credenziali false di false o vere società. In un caso presentano alla Dogarina una fideiussione per tre milioni di euro apparentemente emesso dalla Banca Barclays nel 2013 e si portano via un milione di bottiglie di prosecco. Peccato che la fideiussione fosse falsa.

mercoledì 26 giugno 2019

Siri, l’intercettazione di Arata: “Ci lavora un secondo per guadagnare 30mila euro. Armando è un carissimo amico”.

Siri, l’intercettazione di Arata: “Ci lavora un secondo per guadagnare 30mila euro. Armando è un carissimo amico”

L'ex sottosegretario è indagato da parte della procura di Roma perché si sarebbe fatto corrompere dallo stesso ex deputato di Forza Italia. "Guarda che l' emendamento passa", diceva Arata il 10 settembre dell' anno scorso, mentre il suo telefonino - trasformato in trojan dalla Dia di Trapani - registrava ogni parola. Il riferimento era per una norma al decreto "rinnovabili" che avrebbe portato milioni di finanziamenti al mini eolico.

Siri ci lavora un secondo per guadagnare trentamila euro“. Parola di Francesco Arata, l’ex deputato di Forza Italia, ora detenuto nel carcere di Regina Coeli. Accusato di essere in affari con Vito Nicastri, il re dell’eolico considerato un finanziatore della latitanza di Matteo Messina Denaro, Arata è l’uomo che fa finire nei guai l’ex sottosegretario della Lega. Siri è indagato da parte della procura di Roma perché si sarebbe fatto corrompere da Arata con una mazzetta da trentamila euro. “Guarda che l’ emendamento passa“, dice Arata il 10 settembre dell’ anno scorso, mentre il suo telefonino – trasformato in trojan dalla Dia di Trapani – registrava ogni parola. Il riferimento era per una norma al decreto “rinnovabili” che avrebbe portato milioni di finanziamenti al mini eolico. “L’emendamento è importante. Sono milioni per noi l’emendamento, che cazzo”, dice Arata. Quell’emendamento non passerà mai”.
L’intercettazione, riportata da Repubblica, è agli atti dell’ ordinanza che il 12 giugno ha portato in carcere Arata e i Nicastri. Ma non si tratta dell’intercettazione integrale: i dialoghi, infatti, sono ancora coperti da parecchi omissis e oggetto di valutazione da parte della procura di Roma. È l’allegato I–44 del rapporto Dia di Trapani con numero di protocollo 2567 del 26 aprile del 2019. Secondo il giornalista Salvo Palazzolo, dietro quell’omissis, è celata anche la frase di Arata, riferita a Siri, “Io gli do 30 mila euro“. È a causa di quel dialogo che il procuratore aggiunto Paolo Guido ha inviato ai colleghi della Capitale la parte dell’inchiesta che riguarda Siri. I riferimenti di quell’intercettazione sono importanti, visto che in fase d’indagini, il quotidiano La Verità aveva ipotizzato l’inesistenza di quel dialogo. 
L’inchiesta per corruzione, però, aveva portato alla revoca delle deleghe di sottosegretario per Siri. “Siri è un carissimo amico, ma proprio caro“, diceva sempre Arata. “Armando – continuava – è uno che ama la Sicilia”. Sempre l’ex deputato di Forza Italia raccontava quando Siri gli aveva fatto un altro favore: “Il biometano l’ho fatto inserire anche nel programma tra Lega e Cinque Stelle, proprio da Armando Siri”. In quel periodo Arata stava lavorando proprio per creare un impianto di biometano in provincia di Trapani: “A Gallitello, la cosa si è fermata perché i Cinque Stelle ci contestano. Non ci possono contestare, perché io l’ ho fatto inserire, li ho fottuti, l’ho fatto inserire nell’ accordo di governo”. Anche ai vertici della Regione siciliana Arata vantava entrature di primissimo livello, come ha raccontato il dirigente Salvatore D’Urso: “Arata si presentava come ex deputato nazionale e referente nazionale per il centrodestra delle problematiche energetiche. Mi parlava dei suoi rapporti con esponenti di vertice della Lega, come Siri e Giorgetti, con i quali sosteneva di essere in familiarità al punto che qualche giorno dopo sarebbero stati ospiti a casa sua”. 
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