venerdì 11 dicembre 2020

Accordo Mittal-Invitalia, torna l'acciaio di Stato.

 

La società del Mef entra al 50% nella gestione degli impianti.

Il futuro ha un cuore antico per la ex Ilva di Taranto. Lo Stato imprenditore torna nella gestione del siderurgico più grande d'Europa e di tutti gli impianti siderurgici che il gruppo possiede in Italia.

La firma dell'intesa è arrivata a tarda sera e prevede un deciso investimento pubblico che consentirà di garantire alla fine la piena occupazione dell'impianto e di ridurre l'inquinamento per la produzione di acciaio. La mano pubblica entra nella società italiana Am Investco con un doppio aumento di capitale: un primo aumento da 400 milioni di euro darà a Invitalia, che è controllata dal ministero dell'Economia, il 50% dei diritti di voto della società.

Le condizioni sospensive al closing (dell'ingresso di Invitalia in AM InvestCo, controllata ArcelorMittal) comprendono "la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; e l'assenza di misure restrittive, nell'ambito dei procedimento penali in cui Ilva è imputata, nei confronti di AM InvestCo. Lo precisa in una nota ArcelorMittal.

A maggio del 2022 è programmato, poi, un secondo aumento di capitale, che sarà sottoscritto fino a 680 milioni da parte di Invitalia e fino a 70 milioni di parte di Arcelor Mittal. Il ministro del tesoro, Roberto Gualtieri e dello Sviluppo, Stefano Patuanelli hanno espresso soddisfazione per l'intesa che avrà un doppio impatto. Si prevede alla fine del processo il completo assorbimento di 10.700 lavoratori.

E partirà da subito un piano di decarbonizzazione attraverso l'avvio della produzione di acciaio con processi meno inquinanti. È prevista la creazione di una nuova linea di produzione esterna al perimetro aziendale (DRI) e di un forno elettrico interno allo stabilimento che a regime potrà realizzare 2,6 milioni di tonnellate annue di prodotto. "Circa un terzo della produzione di acciaio - sostengono Mef e Mise - avverrà con emissioni ridotte, grazie all'utilizzo del forno elettrico e di una tecnologia d'avanguardia, il cosiddetto "preridotto", in coerenza con le linee guida del Next Generation EU. La riduzione dell'inquinamento realizzabile con questa tecnologia è infatti del 93% a regime per l'ossido di zolfo, del 90% per la diossina, del 78% per le polveri sottili e per la CO2". Sarà ora necessario vedere se l'intesa raggiunta soddisfa il territorio, con il sindacato di Taranto e di molti comuni limitrofi che avevano ipotizzato altri interventi. Il governo ha annunciato che darà vita a un tavolo con gli enti locali per accompagnare e monitorare la transizione.

E se la piena occupazione promessa alla fine del processo riuscirà a dissipare le preoccupazioni delle 'tute blu', anche se nel prossimo quinquennio gli esuberi temporanei sarebbero coperti - ma i comunicati diffuso in serata non ne fanno menzione - dagli ammortizzatori sociali dei quali lo Stato si fa garante. L'annuncio ufficiale dell'accordo è destinato ad alzare il velo anche su altri aspetti della vicenda, a cominciare dalla governance che dovrebbe essere inizialmente paritaria con presidente e amministratore delegato espressi l'uno da Invitalia e l'altro dalla Mittal. Anche su questo punto non ci sono comunicazioni ufficiali. Per l'impianto di Taranto si profila comunque in ritorno al passato. Nata nel 1905 l'Ilva passò all'Iri nel 1929 e venne ceduta ai Riva solo nel 1995, con il piano di privatizzazioni. Il commissariamento è datato 2012. ArcelorMittal arriva nel 2018 e ora arriva una nuova svolta.

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/12/10/accordo-mittal-invitalia-torna-lacciaio-di-stato_5787a0af-96dc-44d5-9290-917bdfb6b991.html

“I super-ricchi alla base delle crisi. Come evitarlo? Misure fiscali”. Parla l’autore del libro che lega guerre commerciali e lotta di classe. - Mauro Del Corno

 

Intervista a Matthew Klein, editorialista del settimanale finanziario Usa Barron's e autore di "Trade Wars are Class Wars". Tra le altre cose spiega come scelte politiche di paesi come Cina, Germania, Stati Uniti che hanno favorito una distribuzione della ricchezza a favore di ceti più abbienti siano alla base degli squilibri commerciali e finanziari globali. E che i correttivi stanno nella redistribuzione delle ricchezze.

L’editorialista del settimanale finanziario Barron’s Matthew Klein e l’economista Michael Pettis sono gli autori di Trade Wars are Class Wars, edito da Yale University Press. Il libro spiega come una distribuzione della ricchezza troppo sbilanciata a favore dei ceti più abbienti sia alla base delle tensioni finanziarie e commerciali tra Stati. Una situazione che in una certa misura dipende da scelte politiche che negli ultimi decenni hanno interessato la Germania come la Cina o gli Stati Uniti, pur nella particolarità e differenza dei rispettivi sistemi. Se non verrà corretta, anche con interventi di natura fiscale, questa condizione presenta e presenterà rischi notevoli e crescenti, di natura sia economica che sociale. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Klein.

Come si intuisce già dal titolo, la tesi di fondo sviluppata nel vostro libro è quella secondo cui le tensioni commerciali internazionali dipendono, in ultima analisi, da una distribuzione disarmonica della ricchezza all’interno dei singoli Paesi. Ma esattamente come funziona questo meccanismo?
Questa è la questione cruciale, e infatti per spiegarla bene abbiamo dovuto scrivere un intero libro (ride, ndr). Ad ogni modo, la “versione breve” è che oggi tutti siamo interconnessi, attraverso il commercio internazionale e il sistema finanziario. Quello che accade e che cambia all’interno di una società, avrà inevitabilmente conseguenze per persone che vivono altrove indipendentemente dal fatto che questi effetti siano intenzionali o meno. Un buon esempio per cogliere bene il concetto è quello che accade con l’inquinamento.

Il secondo aspetto chiave della nostra tesi è che i ricchi, e le imprese che controllano, sono molto differenti da tutti gli altri. La maggior parte delle persone spende più o meno tutto quello che guadagna nel corso della vita. I ricchi no e questo accade in qualsiasi Paese del mondo. Le persone che si trovano al vertice della piramide della ricchezza risparmiano una buona fetta di quel che guadagnano. Guardato da un’altra prospettiva risparmiare significa comprare asset (come fondi, immobili, azioni, etc, ndrinvece che beni o servizi. Il motivo è semplice: per quanto i gusti possano essere raffinati e costosi, c’è un limite alla quantità di beni necessari per la loro soddisfazione (es non ha senso comprarsi 5 yacht o 10 Ferrari, ndr). Quindi cambiamenti significativi nella distribuzione del reddito dalla gente comune ai ricchi, spostano risorse da persone che spendono molto in beni e servizi a persone che acquistano molti asset.

Non dimentichiamo che ogni reddito proviene dalla spesa di qualcun altro. A livello globale questo significa che per chi è già ricco, arricchirsi ulteriormente è molto difficile, se si cerca di farlo unicamente comprimendo il reddito degli altri. La spesa complessiva diminuirebbe e così, in proporzione, calerebbero i ricavi delle imprese. Ciò che consente ai consumatori di continuare a spendere anche quando i redditi sono stagnanti, sono i prestiti. E infatti quello a cui abbiamo assistito a livello globale è che la crescente concentrazione del reddito ha coinciso con un forte aumento dei debiti di famiglie e governi. Se guardiamo a queste dinamiche dal punto di vista del commercio quello che vediamo è che un cambiamento della distribuzione del reddito in un Paese può avere conseguenze negative anche altrove, riducendo gli acquisti dall’estero di beni e servizi e spingendo così le persone che vedono calare i loro ricavi, a contrarre debiti che spesso non sono in grado di sostenere.

Nel libro scrivete che attualmente la zona euro è la principale fonte di squilibri globali. Il caso più emblematico è quello della Germania, dove i governi, sia di destra che di sinistra, hanno fatto scelte politiche a favore delle élite. Cosa dovrebbe fare Berlino per cambiare questa situazione? Pensi che una tassa sul patrimonio potrebbe essere una buona opzione?
Il problema fondamentale, per quanto riguarda la Germania, è che nel complesso i tedeschi hanno vissuto al di sotto delle loro possibilità per un ventennio. I redditi delle famiglie, gli investimenti pubblici in infrastrutture, e anche quelli aziendali, sono stati sacrificati per il benessere del bilancio pubblico. Il governo ha ripagato i suoi debiti, le aziende generano molto flusso di cassa per i loro proprietari, ma nel complesso la società tedesca sta peggio di come potrebbe stare. La notizia positiva è che questa situazione può essere corretta con decisioni piuttosto semplici. Il vincolo del pareggio di bilancio previsto dalla Costituzione tedesca dovrebbe essere sostituito con una regola più sensata, che offra margini per effettuare più investimenti pubblici.

Una volta che avessero una maggiore possibilità di indebitarsi, governo centrale e Lander potrebbero finalmente lavorare sul grande arretrato di interventi in manutenzione e sviluppo delle infrastrutture. Il governo potrebbe, ad esempio, finanziare con più risorse lo sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità, implementare la rete internet e favorire la transizione verso fonti di energia rinnovabili. Soprattutto governo e imprese dovrebbero considerare la possibilità di correggere alcune delle scelte fatte negli anni ’90 e 2000, mi riferisco soprattutto ai tagli al welfare che hanno aumentato l’insicurezza dei lavoratori, oltre che alla diffusione di lavori con orario ridotto. Infine, il governo potrebbe valutare un impegno nella redistribuzione diretta per trasferire il reddito dai ricchi imprenditori tedeschi, che hanno prosperato negli ultimi 20 anni, a favore della stragrande maggioranza della popolazione che viceversa non l’ha fatto. Modifiche al regime dell‘imposta sulle successioni e l’introduzione di un’imposta sul patrimonio, che tenga adeguatamente conto delle valutazioni immobiliari, sarebbero certamente utili a questo scopo.

Come spiegate bene nel vostro libro, e a proposito del fatto che le scelte di un paese producono conseguenze ben al di là dei suoi confini, quello che è accaduto negli ultimi 20 anni in Germania è alla base della crisi dei debiti sovrani che nel 2012 ha colpito Paesi come Italia, Spagna e Portogallo…
Ripeto, oggi viviamo in un mondo in cui tutti sono connessi. Nessun paese è isolato dal sistema globale, neppure paesi pariah come la Corea del Nord. La Germania è un’economia aperta e fortemente integrata con il resto d’Europa. Tutto ciò che accade qui ha quindi profonde conseguenze sui paesi vicini. Quando il governo e il mondo degli affari tedeschi hanno adottato una serie di decisioni che hanno causato una riduzione dei consumi delle famiglie e degli investimenti pubblici e privati nel paese, questo ha avuto ripercussioni anche sulle importazioni tedesche, che sono diminuiti. Nel frattempo però gli esportatori tedeschi hanno continuato a vendere senza problemi nel mondo e nei paesi vicini. I risparmi accumulati dai tedeschi più abbienti venivano infatti prestati all’estero attraverso il sistema bancario della Germania, sostenendo importazioni e consumi locali. A ricevere questi finanziamenti erano, tra gli altro, ItaliaSpagnaPortogalloIrlandaGrecia e Stati baltici. Quindi questi stati esportavano meno di quanto avrebbero potuto anche a causa di una domanda tedesca fiacca ma hanno mantenuto inalterato il loro livello di importazioni, grazie ai finanziamenti a basso costo che arrivavano dalla Germania. Il problema è che purtroppo questo sistema non è sostenibile a lungo.

Qualcosa di simile è accaduto negli Stati Uniti nel 2008. Il Paese ha dovuto assorbire un immenso flusso di denaro proveniente dall’estero, i risparmiatori di tutto il mondo vogliono comprare titoli Usa. Per soddisfarli ha emesso una grandissima quantità di titoli obbligazionari, anche di pessima qualità come quelli costruiti sui famigerati mutui subprime. Gli Usa amministrano il dollaro, la moneta di riferimento a livello globale, ma questo più che un privilegio, ha finito per diventare un peso.
Gli Stati Uniti si trovano in una situazione delicata perché, come hai ricordato, le persone, in tutto il mondo, vogliono possedere attività denominate in dollari. Tuttavia creare e distribuire quelle attività in dimensioni sufficienti per soddisfare questa gigantesca domanda finisce per avere effetti distorsivi sull’economia. E’ il motivo per cui nel libro definiamo lo status di valuta di riserva del dollaro un “fardello esorbitante” piuttosto che un “privilegio esorbitante” (definizione coniata negli anni ’60 dall’allora ministro delle finanze francese Valery Giscard D’Estaigne, ndr). Ci sono una serie di cose che gli Usa potrebbero fare per ridurre la domanda estera di asset su valori sostenibili. Se la Federal Reserve e il Fondo monetario internazionale rendessero più facile prendere in prestito dollari in caso di necessità, i governi stranieri avrebbero meno bisogno di detenere ingenti riserve. Tasse sugli investimenti esteri, e altri controlli sui capitali, potrebbero scoraggiare l’acquisto di beni statunitensi. Allo stesso tempo, il governo federale dovrebbe prendere atto di essere il soggetto più capace di soddisfare questa domanda. Essere quindi disposto ad emettere una quantità di titoli di Stato sufficiente per fare in modo che non debba essere il settore privato a farlo. Infine, vorrei sottolineare che non c’è motivo per cui il dollaro debba essere l’unica valuta di riserva. L’euro è un’alternativa valida e, in teoria, titoli di debito emessi dall’UE potrebbero essere attraente tanto quanto quelli del Tesoro degli Stati Uniti. Sarebbe un bene sia per gli europei, che potrebbero prendere in prestito e spendere più di quanto fanno ora, sia per gli americani.

Anche la Cina mostra forti squilibri nel suo modello di sviluppo, con i redditi della classe media sacrificati a favore degli investimenti decisi dal governo centrale. Voi scrivete che, in un modo o nell’altro, Pechino dovrà presto correggere questo stato di cose. Questo processo comporta dei rischi per la Cina o per gli altri Paesi?
Sì, la natura squilibrata dell’economia cinese pone sicuramente dei rischi, ma è importante capire quali sono questi rischi. Un crollo improvviso è improbabile, perché il governo mantiene uno stretto controllo sul sistema finanziario. Il risultato più probabile è che il tasso di crescita dell’economia tenderà a rallentare ancora più di quanto non abbia già fatto sinora. Il governo cercherà però di evitarlo. Come? Aumentando ulteriormente il suo surplus (differenza tra valore delle esportazioni e delle importazioni, ndr) , un comportamento molto nocivo per il resto del mondo.

Prima o poi il peso dei consumi sul Pil aumenterà. Questo potrebbe verificarsi perché la spesa delle famiglie accelera velocemente oppure, ed è più probabile, perché rallenterà la crescita degli investimenti. In una certa misura questo sta già accadendo. La crescita è rallentata notevolmente dal 2010, in parte grazie alla decisione del governo di frenare l’espansione del credito e di contenere la spesa per investimenti. Ma a questo punto tagliare ulteriormente gli investimenti, senza fare nulla per i lavoratori cinesi e i pensionati, deprimerebbe la spesa totale, e finirebbe per ridurre anche le importazioni con ripercussioni negative anche sulle economia del resto del mondo.

La pandemia come influenza e come sta cambiando la situazione che voi descrivete?
La pandemia ha causato un calo consistente sia della spesa globale per beni e servizi, sia della loro produzione. Ma i cali sono stati diversi da paese a paese, Cina e Stati Uniti in particolare hanno esperienze diametralmente opposte. In Cina, la spesa dei consumatori è diminuita drasticamente e il governo ha fatto poco per proteggere i redditi dei lavoratori. Ha invece aiutato le imprese, con prestiti a basso costo e deprezzamento della valuta. Così ha favorito l’export (una moneta svalutata fa si che i prodotti cinesi costino meno all’estero e quindi vengano venduti più facilmente, ndr) e il surplus commerciale ha raggiunto nuovi record. Viceversa il governo degli Stati Uniti ha fornito un enorme sostegno alle famiglie americane, che hanno speso i soldi in beni, molti dei quali importati. La produzione manifatturiera statunitense è invece rimasta debole, principalmente a causa della debolezza delle esportazioni. Gli squilibri di cui parliamo nel libro si sono ulteriormente esacerbati. L’unico fatto positivo che posso vedere, anche se probabilmente è prematuro dirlo, è che l’Europa ha mostrato un grado di solidarietà maggiore di quanto mi sarei aspettato. Se si dovesse affermare e consolidare la pratica di emettere debito comune per finanziare spese di interesse comune, per i singoli governi sarebbe più facile aiutare i cittadini, pur rispettando i vincoli di bilancio. Inoltre i titoli di debito comune dell’Ue sarebbe anche un’opzione di risparmio per gli europei alternativa ai titoli di stato statunitensi, favorendo così un riequilibrio tra le due sponde dell’Atlantico.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/11/i-super-ricchi-alla-base-delle-crisi-come-evitarlo-misure-fiscali-parla-lautore-del-libro-che-lega-guerre-commerciali-e-lotta-di-classe/6009245/

Il Mes tangentario. - Marco Travaglio

 

Al cabaret permanente della politichetta italiota si aggiunge una nuova gag: la campagna del Pd per scongelare il vitalizio a Ottaviano Del Turco, sospeso nei giorni scorsi in base a una norma voluta e approvata nel 2015 da Pd, Sel, Scelta Civica, Fd’I, Lega e contestata dai 5Stelle perché troppo blanda e piena di scappatoie. Cioè alla delibera degli uffici di presidenza di Camera e Senato che, ai tempi del governo Renzi, stabilì di levare la pensione ai parlamentari condannati a più di 2 anni per mafia, terrorismo e reati contro la Pa. Ora si dà il caso che Del Turco, arrestato nel 2008 da presidente Pd dell’Abruzzo, sia stato condannato definitivamente nel 2018 a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita (la vecchia concussione) per aver estorto almeno cinque mazzette per un totale di 850mila euro al ras delle cliniche private Vincenzo Angelini. Dunque per due anni ha percepito indebitamente 5.500 euro mensili. Il fatto che la presidenza del Senato abbia posto fine a quell’ulteriore latrocinio di denaro pubblico scandalizza il Riformista, che è un po’ l’ora d’aria dei quotidiani italiani e vaneggia di “grida polpottiane dei 5 Stelle”, come se la norma fosse loro e non di Pd&C.

Segue un esilarante articolo dell’avvocato di Del Turco, Gian Domenico Caiazza che, avendo perso il processo, si rifà sul Riformatorio insultando i pm che l’hanno vinto. Titolo: “È innocentissimo” (infatti è stato condannato). La comica finale viene presa molto sul serio dall’ineffabile capogruppo del Pd Andrea Marcucci, quello che parla come un liderino di opposizione e invece pare stia in maggioranza. Il Marcucci esprime “profondo sgomento per la decisione di privare Del Turco del vitalizio” in base a una norma voluta dal suo partito, perchè il condannato è “gravemente ammalato”. Il che ovviamente dispiace, ma purtroppo la norma non prevede eccezioni per motivi di salute. Fra l’altro, sarebbe interessante sapere se l’ex sgovernatore abbia mai risarcito con i 700mila euro previsti dalla sentenza le parti civili, cioè alla sua Regione e alle Asl abruzzesi. Già, perché oltre alle mazzette ci sono i gravi danni inferti dalle sue politiche sanitarie a quella che ora è guardacaso la Regione peggio messa col Covid. Pochi mesi fa l’Abruzzo ha pagato l’ultima rata dell’enorme buco creato da Del Turco&C. con la folle cartolarizzazione dei crediti farlocchi della sanità, ceduti a banche estere mentre i vertici di Regione e Asl incassavano mazzette sui tagli dei posti letto negli ospedali pubblici e sui regali alle cliniche private. Così, quando certi impuniti invocano con la bava alla bocca i 37 miliardi di Mes sanitario e più soldi alla sanità nel Recovery Plan, possiamo facilmente immaginare cosa vogliono farne.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/11/il-mes-tangentario/6033329/

L’Italia spende 35,7 miliardi l’anno in sussidi alle fossili o che danneggiano l’ambiente.

 

Il nuovo rapporto di Legambiente sui sussidi ambientalmente dannosi.

Anche il 2020 si chiude senza tagli ai sussidi alle fonti fossili; nella legge di bilancio presentata dal governo il tema non è previsto, nonostante sia stata istituita quest’anno una “Commissione interministeriale per lo studio e l’elaborazione di proposte per la transizione ecologica e per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi”.

Sussidi stimabili, complessivamente, in 35,7 miliardi di euro, di cui oltre 21,8 miliardi sotto forma diretta e circa 13,8 miliardi in forma indiretta.

Parliamo di tutte le misure incentivanti, che intervengono su beni o lavorazioni, per ridurre il costo di utilizzo di fonti fossili o di sfruttamento delle risorse naturali. Il quadro completo delle voci e delle cifre è ricostruito nel nuovo rapporto presentato oggi da Legambiente (allegato in basso), per far capire la dimensione e l’importanza delle decisioni da prendere.

Larga parte va alle imprese, oltre 23 miliardi, e 12,5 miliardi alle famiglie. La quota più rilevante dei sussidi diretti riguarda il settore dei trasporti, per 11 miliardi; seguono l’energia con 10,6 e l’agricoltura con 0,1.

Il rapporto (che unisce fonti diverse tra cui il Catalogo SAF e SAD, il bilancio dello Stato, dati Terna, Arera, GSE e MISE) riporta voci molto differenti – da incentivi diretti e indiretti a sconti sulle tasse, a finanziamenti dati da imprese e società dello Stato – ognuna nata con l’obiettivo, condivisibile, di ridurre i costi a vantaggio di imprese e famiglie, ma è il mezzo che oggi non funziona più: bisogna guardare alle ragioni per cui si confermano sussidi che producono un impatto negativo su ambiente e clima quando esistono alternative competitive.

“Alcuni di questi sussidi sono stati addirittura introdotti nel 2020, come il capacity market, che prevede 20 anni di generosissimi incentivi per nuove centrali a gas, giustificati da ragioni di sicurezza del sistema – spiega Legambiente quando per la flessibilità e la sicurezza del sistema esistono alternative più economiche, efficienti e con ridotte o zero emissioni di gas serra”.

Il paradosso dei sussidi alle fonti fossili, come sottolineato da Fatih Birol, capo economista dell’International Energy Agency, è che sono oggi il principale ostacolo allo sviluppo delle rinnovabili e di interventi di efficienza energetica che sarebbero competitivi in ogni parte del mondo, ma che invece vedono privilegiare con carbone, gas e petrolio, resi artificialmente economici dagli aiuti pubblici.

Non esiste scusa legata al Covid che tenga – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – perché l’emergenza climatica sta diventando sempre più grave e perché ogni euro non più regalato a chi inquina può liberare investimenti in innovazione ambientale ma anche per far uscire il Paese dalla crisi economica e sociale. Nelle proposte che presentiamo oggi dimostriamo come sia possibile intervenire subito sui sussidi alle fonti fossili e all’estrazione di materiali naturali, mentre il Recovery Plan italiano dovrà fissare le riforme e la tempistica per cancellare tutti i sussidi entro il 2030”.

Nel 2017 il ministero dell’Ambiente ha presentato il primo “Catalogo dei Sussidi ambientalmente dannosi e favorevoli”, aggiornato nel 2019; il tema è finalmente nel dibattito politico, ma i risultati finora sono deludenti, con un intervento limitato di adeguamento dei canoni per le estrazioni di fonti fossili e di eliminazione del rimborso accise gasolio per i camion con standard di emissioni euro 3 ed euro 4.

I sussidi ambientalmente dannosi sono finanziamenti diretti a centrali che utilizzano derivati del petrolio, gas e carbone, che inquinano e producono emissioni di gas serra, come le centrali di Brindisi Sud e Fiumesanto o di San Filippo Mela, che rimangono accese solo perché ricevono generosi sussidi, altrimenti in larga parte sarebbero fuori mercato. Oppure centrali diesel nelle isole minori italiane che potrebbero essere sostituite da ben più economici ed efficienti impianti solari ed eolici, denuncia lo studio.

Sono sconti su tasse (accisa, iva e credito d’imposta) per una serie enorme di utilizzi di benzina, gasolio, gas, ecc. nei trasporti, nel riscaldamento, nelle industrie.

Per chiarezza – si precisa –  di questi sconti beneficiano famiglie e imprese, per cui un semplice taglio avrebbe effetti negativi da un punto di vista economico e sociale, per le famiglie più povere e le imprese più in difficoltà. Ma invece si può e si deve far diventare questi sconti sui consumi, incentivi verso investimenti in efficienza e nell’autoproduzione da rinnovabili, con risultati strutturali in termini di risparmio oltre che vantaggi ambientali. Sono canoni bassi per l’estrazione di materie prime, per l’imbottigliamento di acqua, sono tasse limitate per chi butta i rifiuti riciclabili in discarica. Sono anche finanziamenti ad autostrade, a componentistica, impianti per la fertilizzazione e fondi per la ricerca su carbone, gas e petrolio. In Italia e all’estero.

“Con questo lavoro vogliamo dare il nostro contributo nel dimostrare quanto sia urgente cambiare il sistema di sussidi di cui beneficiano tante attività inquinanti nel nostro Paese – dichiara Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente – Non tutto è cancellabile dall’oggi al domani ma è certo che serve intervenire, partendo dai finanziamenti più assurdi, inquinanti, a premio di rendite contro l’ambiente. I sussidi dannosi sono un macigno sulla possibilità di spingere una innovazione diffusa, nell’interesse del Paese; sono risorse sottratte a investimenti di cui c’è enorme bisogno per uscire dalla crisi: potrebbero andare a ospedali, scuole, ricerca, investimenti nella green economy e nella riduzione delle diseguaglianze. Esistono oggi alternative da fonti rinnovabili meno costose in tanti campi, mentre in altri si dovrebbe promuovere l’efficienza nell’uso dei combustibili invece di fare sconti”.

Settore energia.

Sono 15 i miliardi di euro destinati, nel 2019, a sussidiare il settore energetico fossile del nostro Paese; che diventano 15,8 miliardi per il 2020. Ventisei sussidi diversi, di cui almeno 14- secondo Legambiente –  potrebbero essere eliminati subito, per un valore pari a 8,6 miliardi di euro.

Sono invece 6,3 i miliardi euro di sussidi che andrebbero rimodulati, in quanto strettamente connessi con settori strategici produttivi o di consumo, come quelli delle isole minori o delle aree geograficamente svantaggiate o ancora la riduzione dell’iva per imprese e utenti domestici.

In particolare, le trivellazioni ricevono sussidi indiretti per 576,54 milioni di euro, dovuti all’inadeguatezza di royalties e canoni.

I contributi a centrali fossili e impianti sono costati, nel 2019, ai contribuenti italiani, 1.316,4 milioni di euro; di cui 412,4 milioni di euro sono andati ai cosiddetti “impianti essenziali” su terra ferma e nelle isole minori; 500 milioni di euro di indennizzo sono andati invece agli interconnector, linee elettriche finanziate da soggetti privati.

Al Capacity Market nel 2020 vanno 180 milioni di euro di sussidi diretti, mentre il CIP6 continua a ricevere sussidi per 682 milioni all’anno.

I prestiti e le garanzie pubbliche (CDP e SACE) per operazioni a sostegno di investimenti nell’Oil&Gas ammontano a 3.756 milioni di euro. Senza dimenticare gli assurdi sussidi che riceve la ricerca su carbone, gas e petrolio.

Settore trasporto.

Il settore è sussidiato complessivamente per 16,2 miliardi di euro. Di cui 5.154 milioni di euro per il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio e 3.757 milioni di euro per quello tra metano, gpl e benzina; l’esenzione dell’accisa sui carburanti per la navigazione aerea ammonta a 1.807,3 milioni di euro; 1.587,5 milioni vanno al rimborso delle accise sul gasolio per trasporti, 400 milioni sussidiano l’olio di palme nei biocarburanti.

Settore agricoltura.

Alla PAC vanno sussidi per 2.117,47 milioni di euro. Le esenzioni e riduzioni ai prodotti energetici ammontano a 939,2 milioni. Tra i sussidi indiretti, la SACE eroga prestiti e garanzie per 155,6 milioni per un impianto di fertilizzanti in Russia.

Settore edilizia.

Il credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali, secondo Legambiente generalmente associati a elevati consumi energetici ed emissioni, vale 617 milioni di euro. L’esenzione dell’IMU per nuovi fabbricati ammonta a 38,3 milioni di euro, sussidiando il consumo di suolo anziché incentivare le ristrutturazioni.

Settore canoni e concessioni.

L’inadeguatezza di concessioni e canoni equivale a un sussidio di 509 milioni, tra acque minerali (262), demanio marittimo (150) e cave (97).

Le richieste di Legambiente al governo.

La situazione deve cambiare ora; Legambiente chiede al governo di smettere di fare rinvii su questo tema fondamentale per far uscire l’Italia dalle crisi economica, sociale e ambientale. Il consumo di fonti fossili è non solo la causa dei cambiamenti climatici ma anche dell’inquinamento delle città, con drammatiche conseguenze sulla salute, per l’esposizione al PM2,5, ozono, diossido di azoto che vengono stimate in 60 mila morti all’anno in Italia dall’Agenzia europea dell’ambiente.

Sono tre le scelte da prendere nei prossimi mesi: inserire nel Recovery plan le scelte di cancellazione di tutti i sussidi alle fossili entro il 2030, eliminare subito i sussidi diretti alle fossili e per lo sfruttamento dei beni ambientali e aggiornare il Catalogo dei sussidi, rivedere subito la tassazione sui combustibili fossili per portare trasparenza e legare la fiscalità alle emissioni di gas serra.

1. Inserire nel Recovery plan le scelte di cancellazione di tutti i sussidi alle fossili entro il 2030. Il primo intervento da realizzare dovrebbe essere di chiarire la tassazione sui diversi tipi di combustibili fossili e di cancellare tutte le esclusioni dalle accise esistenti, secondo il principio “chi inquina paga” legando la fiscalità alle emissioni di gas serra. Il secondo intervento deve essere di trasformare gli esoneri dalle accise per i consumi di benzina e gasolio nei trasporti, per l’accisa e l’Iva dei consumi di gas nel riscaldamento civile e nell’industria in incentivi a interventi di efficienza energetica per produrre una riduzione dei consumi e autoprodursi l’energia da rinnovabili.

2. Eliminare subito i sussidi diretti alle fossili e per lo sfruttamento dei beni ambientali e aggiornare il Catalogo dei sussidi. Il governo deve accelerare i lavori della Commissione del ministero dell’Ambiente istituita lo scorso anno e allargare il campo dei sussidi da tagliare subito, perché non ha senso considerare solo quelli che riguardano i combustibili. Sono ampi quelli di cui beneficia il settore dell’oil&gas, come quelli per i canoni per l’estrazione di materiali, tutti i finanziamenti pubblici attraverso il gruppo SACE, gli essenziali, i fondi per la ricerca su gas, carbone e petrolio. Fuori dal settore energetico, ci sono il trattamento fiscale differente tra benzina e gasolio o le agevolazioni IVA per i prodotti fitosanitari o tutti i canoni agevolati nelle attività di estrazione. Nel nostro dossier individuiamo 13,8 miliardi su cui si può intervenire da qui al 2025. Senza dimenticare di aggiornare il Catalogo dei sussidi inserendo le 13 voci mancanti per un totale di 11,7 miliardi euro

3. Rivedere subito la tassazione sui combustibili fossili per portare trasparenza e legare la fiscalità alle emissioni di gas serra. In Italia la tassazione di combustibili e carburanti non è legata alle emissioni di gas serra. L’obiettivo delle politiche energetiche e dei trasporti deve essere di ridurre le emissioni di CO2 prodotte. Per questo la tassazione deve essere legata alle emissioni di carbonio fossile in ogni passaggio fiscale (dalla tassa di proprietà per gli autoveicoli, all’acquisto di combustibili per il trasporto e di fonti per il riscaldamento, ecc.).

(tabelle e rapporto nel link qui sotto)

https://www.qualenergia.it/articoli/litalia-spende-357-miliardi-lanno-in-sussidi-alle-fossili-o-che-danneggiano-lambiente/?fbclid=IwAR0esVqH4tdgpdjFnOL8nOHDdT95EX9l0fgYKG0AR4r5Gmp2ioDZIn11raQ

Recovery plan, “chi ha deciso come suddividere i fondi”? Lo schema delle bozze è orientato da paletti e raccomandazioni della Commissione Ue. Ecco quali. - Chiara Brusini

 

Gli attacchi di Renzi a Conte trascurano un particolare non da poco. Il margine di manovra del governo nel preparare l'ossatura del piano era limitato: tutti i Paesi devono rispettare le linee guida dettate da Bruxelles per assicurare che il Next generation Eu raggiunga gli obiettivi, a partire da lotta al cambiamento climatico e transizione digitale, a cui va destinata una quota ben precisa di fondi. In più occorre proporre misure che affrontino i punti deboli elencati nelle Raccomandazioni pubblicate ogni anno per ogni Paese. Fuori dalle maglie restano solo i circa 13 miliardi di React Eu, che il governo punta a usare per il taglio dei contributi per i lavoratori del Sud.

Definirle scelte obbligate forse è un eccesso. Ma di sicuro il margine di manovra del governo nel preparare la bozza del Piano nazionale per la ripresa e resilienza era molto limitato. Le polemiche politiche di queste ore – Matteo Renzi nel suo discorso al Senato si è chiesto “chi abbia deciso” dove mettere le risorse – non tengono conto del fatto che tutti i Recovery plan devono rispettare i rigidi paletti fissati dalla Commissione europea. Regole necessarie per assicurare che i 750 miliardi del Next generation Eu raggiungano gli obiettivi stabiliti da Bruxelles, a partire da lotta al cambiamento climatico e transizione digitale, a cui va destinata una quota ben precisa di fondi. Non solo: ogni Paese è anche tenuto a proporre misure con cui “affrontare efficacemente” i punti deboli rilevati dal Consiglio nelle sue raccomandazioni specifiche pubblicate ogni anno. Per l’Italia la lista è lunga: dalla lentezza della giustizia civile alla bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, passando per i risultati scolastici “tra i peggiori dell’Ue” e l’insufficiente offerta di asili nido. Tutti problemi a cui (cercare di) rimediare con il Piano. Risultato: la quasi totalità dell’ossatura della bozza era “già scritta” o quasi. Fuori dalle maglie restano solo i circa 13 miliardi dell’iniziativa React Eu, che il governo punta a usare per il taglio dei contributi per i lavoratori del Sud.

44 pagine di linee guida fissano i paletti – Le linee guida dello staff della Commissione sono state pubblicate lo scorso 17 settembre: 44 pagine ricche di esempi di “tipiche riforme e investimenti” ritenuti adeguati ai fini della transizione verde e delle altre priorità dell’esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, che è stata tra i grandi sponsor del fondo straordinario per la ripresa post Covid finanziato – per la prima volta nella storia – con l’emissione di bond europei per centinaia di miliardi. “Gli Stati hanno bisogno di una guida chiara per assicurare che i 672 miliardi della Recovery facility (il “cuore” del Next generation Eu, ndr) siano investiti sia per la ripresa immediata sia per una crescita sostenibile e inclusiva di lungo termine“, ha spiegato la presidente durante la presentazione del documento. E il punto è proprio questo: quelli che arriveranno all’Italia, primo beneficiario del piano, non sono fondi “svincolati” e da usare a piacimento per i settori scelti dal governo. Servono per costruire l’Europa del post pandemia secondo un progetto di ampio respiro messo a punto a Bruxelles.

Quattro obiettivi: dalla coesione alla transizione digitale e green – Dopo aver ricordato che i Piani nazionali vanno presentati entro il 30 aprile 2021 e discussi informalmente “appena possibile” con la task force europea – l’Italia ha iniziato a farlo a metà ottobre – le linee guida entrano nello specifico. Mettendo nero su bianco i quattro obiettivi generali che gli Stati membri devono tenere presenti, indicando come il loro piano contribuirà a raggiungerli: al primo posto c’è la promozione della coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione, seguita dal rafforzamento della resilienza economica e sociale, dalla mitigazione dell’impatto sociale ed economico della crisi e dal supporto alla transizione verde e digitale. A prima vista le descrizioni sono vaghe, ma è solo l’inizio. Perché il punto 4, sulla base di quanto deciso da Commissione e Consiglio nei mesi scorsi, ricorda che almeno il 37% delle risorse va speso per progetti “verdi”: per l’Italia significa almeno 72,5 miliardi. In più è richiesto “un livello minimo del 20% di spesa legato al digitale“: fanno altri 39 miliardi e passa. La bozza italiana rispetta l’indicazione e va un po’ oltre, visto che alla transizione green vanno, stando alle tabelle, 80 miliardi pari al 40,8% dei 196 miliardi che sono la cifra complessiva degli stanziamenti della Rrf per l’Italia (stima ancora provvisoria), mentre al digitale ne vengono assegnati 45 (23%). E così il 64% del totale è già assegnato.

La tabella con la ripartizione dei fondi contenuta nella bozza del Recovery plan italiano

Le sette iniziative chiave a cui contribuire – Ma il “foglietto di istruzioni” di Bruxelles è solo all’inizio. Subito dopo i Paesi vengono “invitati a fornire informazioni su quali componenti del loro Recovery plan contribuiranno alle sette iniziative” definite “fiori all’occhiello europei”, che fanno parte della strategia annuale per la crescita sostenibile: si tratta di piani per l’accelerazione nell’uso delle energie rinnovabili, la riqualificazione degli edifici, la promozione di tecnologie per la mobilità pulita, la diffusione di banda larga e 5G, la digitalizzazione della pubblica amministrazione, lo sviluppo di processori più efficienti insieme al raddoppio della percentuale di aziende che usano big data e servizi cloud avanzati, l’aumento delle competenze digitali e della formazione sul lavoro. Di qui la necessità di un’infornata di progetti in queste aree.

Gli investimenti in infrastrutture? Solo se realizzabili entro il 2026 – Quanto agli investimenti in infrastrutture, è lo stesso manuale europeo a specificare che il loro orizzonte temporale deve essere coerente con quello del piano europeo, che si esaurirà nel 2026: dunque “gli Stati dovrebbero evitare investimenti la cui implementazione non può essere assicurata nell’arco di vita della Facility ed essere cauti nel considerare investimenti che richiederebbero impegni fiscali permanenti che richiederebbero economie di bilancio nei budget nazionali”. Cosa che spiega la scelta di concentrarsi sul rafforzamento e l’estensione di alcune tratte ferroviarie e la realizzazione dell’alta velocità al sud – che già sarà una sfida – e non aggiungere nel calderone altre grandi opere inventate ex novo. Gli investimenti già decisi saranno finanziati con i prestiti, riducendo così la necessità di indebitarsi ulteriormente sul mercato, mentre le sovvenzioni a fondo perduto andranno a coprire le spese addizionali.

Le raccomandazioni Paese da seguire – Il quadro si completa con la richiesta che il Recovery plan affronti anche le sfide identificate delle raccomandazioni Paese che Bruxelles invia tutti gli anni. Le linee guida ne ricordano alcune che ritengono valide per tutti, tra cui le riforme per migliorare il cosiddetto “business environment” – la facilità di fare impresa – e garantire l’efficacia della pubblica amministrazione. Aggiungendo le richieste specifiche fatte all’Italia, che nel 2019 e 2020 hanno riguardato tra il resto il coinvolgimento di giovani e donne nel mercato del lavoro, gli investimenti per migliorare i risultati scolastici, il rafforzamento delle competenze digitali e la riduzione della durata dei processi civili, il menù è completo.

Poche indicazioni sulla sanità – La bozza italiana recepisce tutte le indicazioni ed è peraltro modellata sulle linee guida italiane scritte dal Comitato interministeriale affari europei, approvate in cdm e discusse in Parlamento a ottobre. Per quanto riguarda uno degli aspetti più discussi, gli “scarsi” fondi alla sanità, va detto che quel comparto non è tra i punti principali del documento della Commissione visto che i Paesi, sulla carta, possono finanziarlo anche con le risorse del Mes. Le linee guida si limitano dunque a consigliare che scuole e ospedali siano in cima alla lista degli edifici pubblici da riqualificare e modernizzare – e il Recovery italiano lo prevede – e come esempi di interventi per affrontare le vulnerabilità dei sistemi sanitari cita il “miglioramento dell’accessibilità” e il rafforzamento dell’assistenza di lungo termine. Il piano italiano, partendo dalle criticità emerse durante la pandemia, punta su assistenza territoriale e digitalizzazione, capitolo che comprende la telemedicina per l’assistenza domiciliare ai pazienti anziani ma anche l’ampliamento dell’accesso dei laureati in medicina alle specializzazioni che sono risultate più scoperte, a partire da anestesia e terapia intensiva.

Obiettivi, tempi e risultati – Il piano vero e proprio, comunque, è ancora da scrivere: sarà molto più dettagliato e, stando allo schema proposto dalla Commissione, dovrà comprendere per ogni progetto specifici obiettivi descritti con numeri e dati, tappe da raggiungere strada facendo, risultati attesi in termini di impatto su quel settore. Ogni voce dovrà essere accompagnata dalla spiegazione di cosa, come, entro quando si punta a realizzare, chi è responsabile di farlo, perché è importante per il sistema Paese. La precisione e la chiarezza saranno cruciali, visto che è sulla base dell’effettivo raggiungimento di ogni target nei tempi previsti che la Commissione darà man mano il via libera al versamento dei fondi richiesti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/11/recovery-plan-chi-ha-deciso-come-suddividere-i-fondi-lo-schema-delle-bozze-e-orientato-da-paletti-e-raccomandazioni-della-commissione-ue-ecco-quali/6032746/