C’è chi si unisce ai cori festanti “ufficiali” e alla lunga serie di eventi e manifestazioni previste. Molti di loro fino a nemmeno un anno addietro erano ignari perfino dell’esistenza di tale ricorrenza, salvo a scoprirla oggi che il governo, con i soli voti contrari della Lega, decide di istituire in tale data un giorno di “vacanza”, solo per quest’anno e a scapito del 4 novembre (giusto per non alterare gli equilibri “produttivi”).
Vi sono quelli che non condividono la scelta di tale data come ricorrenza dell’Unità di un Paese che tanto unito non appare, almeno sotto il profilo politico ed economico: che ci sia una Italia duale e una cosiddetta “questione meridionale” è un fatto indubitabile, per la cui evidenza non occorre scomodare il revisionismo storico del Risorgimento.
Vi sono quelli che, nauseati dalla dilagante recrudescenza nazi-fascista rappresentata dalla più deteriore classe dirigente leghista e dalla sua base militante sempre più fanatica, preoccupati di vederli occupare in numero sempre maggiore i posti di potere, di vederli presenziare sempre più frequentemente in televisione, con quello stile arrogante ed insopportabile che li contraddistingue, non tollerano affatto che vi possano essere altre voci se non quelle della retorica “unitarista” e – magari consapevoli delle “criticità” della storiografia ufficiale sul Risorgimento e delle verità storiche sollevate dai cosiddetti revisionisti – apprezzano comunque lo sforzo sanremese di Benigni condividendo il fine “unitario” sotteso a un monologo da molti altri, invece, aspramente criticato: per queste persone i continui attacchi alle istituzioni sferrati da parte della Lega rappresentano (e come dargli torto) una concreta minaccia per le stesse fondamenta del Paese.
Vi sono coloro che, invece, non accettano di essere condizionati da chi da anni fa la voce grossa inneggiando alla secessione, decidendo di approfittare di tale ricorrenza per rivendicare una memoria tradita, in onore di quanti (si parla di centinaia di migliaia di vittime) hanno pagato col sangue la feroce repressione sabauda durante l’annessione del Mezzogiorno. E in memoria di queste vittime il 17 marzo è stata lanciata su Facebook una iniziativa che sta coinvolgendo le piazze di moltissimi comuni del meridione d’Italia, ma non solo del meridione, e non solo d’Italia. Alcuni hanno pensato di scendere in piazza con una candela accesa trasformando la ricorrenza del 17 marzo come “Giorno della Memoria per i caduti e per i tanti che sono dovuti emigrare”.
C’è perfino chi, a Napoli, ha scelto di onorare la memoria delle vittime meridionali con un un Flash Mob così strutturato: tutti i partecipanti grideranno “Malaunità” dopo che i coordinatori dell’evento avranno urlato ciascuna delle 15 parole chiave scelte: “Garibaldi”, “Bassolino”, “Lega Nord”… Infine, dopo un fischio, tutti si getteranno a terra per un minuto.
Ma neanche fra queste “voci discordanti” vi è un’anima comune: c’è chi è nostalgico dei Borbone; c’è chi si dichiara invece repubblicano (e riconosce come propria festa solo il 2 giugno, ricorrenza della nascita della Repubblica Italiana); c’è perfino l’indipendentista veneto, che si distingue nettamente dai cosiddetti “neomeridionalisti”, pur condividendo la medesima lettura della storia risorgimentale.
E nemmeno fra questi ultimi troviamo unità di intenti, malgrado un comune atteggiamento nei confronti dell’anniversario. Vi sono i sicilianisti autonomisti, che rivendicano la mancata applicazione dello Statuto Speciale della Regione Siciliana; gli indipendentisti, che – come i suddetti veneti – vorrebbero uno stato siciliano indipendente; vi sono i federalisti, per i quali pur essendo indiscutibile l’unità del Paese in una unica Nazione, auspicano ad una struttura federalista dello Stato che possa contribuire a declinare tale Unità nelle distinte peculiarità di territori diversissimi fra loro, che necessitano di approcci autonomi e indipendenti. Un federalismo che, a detta di costoro, nulla ha a che vedere con quanto promosso dal governo attuale sotto la spinta della Lega.
Eppure malgrado questo caleidoscopio di forme e di distinte posizioni si fa fatica a pensare all’Italia come un paese diviso. La lingua italiana ha unito il paese a partire da 6 secoli prima del 17 marzo 1861. Come lingua letteraria, l’italiano costituì per secoli il fondamento di quel patrimonio culturale comune che fu determinante nel processo che spinse gli abitanti dello stivale a battersi da più parti per l’indipendenza del Paese dagli occupanti stranieri e per la sua unificazione politica.
Malgrado dunque le diverse visioni che “spaccano” l’Italia, sul passato, sul presente e sul futuro, e malgrado questo paese non sia ancora riuscito a risolvere la fondamentale questione della sperequazione socio-economica tra Nord e Sud (soluzione che oggi, sotto le pressioni dell’economia globalizzata, rappresenta una condicio sine qua non per affrontare la crisi economica in corso) malgrado si possa discutere su tutto, perfino sul fatto se abbia senso o no – oggi – festeggiare il 150°, e proprio in virtù di questa libertà di revisionare perfino i “capisaldi” della nostra storia, in fondo il nostro amato paese è più unito e in salute di quanto alcuni desiderino che non sia.
E sono certo che – proprio perché non ne sottovalutano il pericolo – la maggior parte degli italiani saprà far fronte comune agli attacchi leghisti, vanificandoli e rafforzando l’unità del Paese.
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