Parliamo di povertà, oggi.
Dei vecchi poveri e dei nuovi poveri.
Aveva venticinque anni, quando pubblicò il suo primo romanzo. Non appena uscito, presso quella che potremmo oggi definire “piccola editoria indipendente”, il libro ebbe un successo travolgente, grazie soprattutto al fatto che il più importante critico letterario dell’epoca, il potente Belinskij, ebbe a scrivere che “la Grande Madre Russia ha finalmente partorito un grande genio della letteratura, che raccoglie l’eredità di Gogol e lancia la nostra patria verso un futuro che appare già pieno di sicura e certa illuminazione sulla strada da percorrere: quel romanzo è ispirato dall’alto direttamente da Cristo”. Eravamo a Mosca. Nel pieno della più grave crisi economica recessiva della sua storia, nell’autunno del 1846, centosessantasette anni fa. Il libro di cui parliamo si intitolava “Povera gente”, romanzo d’esordio di Fedor Mickailovitch Dostoevskij, il fondatore del romanzo realista, il più enigmatico, profondo, visionario scrittore europeo, il padre indiscusso della letteratura moderna. Quando il romanzo uscì, il suo incredibile successo scosse le coscienze pensanti della borghesia russa in ascesa, perché gettava una luce di tragica attualità sul Senso delle esistenze dei poveri, sulla loro vita, sui loro sogni, sulle loro aspirazioni. Ciò che colpì l’immaginario collettivo delle classi colte di allora fu il fatto di scoprire che i poveri erano cambiati. Non erano più soltanto figli di contadini in dissesto, analfabeti, senza fissa dimora, che si aggiravano nelle campagne in cerca di cibo. Non erano neppure le famiglie indigenti degli operai assunti nella nuova industria manifatturiera e metalmeccanica, con stipendi da fame, nell’impossibilità di mantenere la loro famiglia. Le manovre restrittive imposte dallo zar avevano, allora, provocato un collasso nella nascente e prosperosa borghesia moscovita, che era stata così annientata, producendo una insospettabile classe di cittadini: i nuovi poveri. Giovani che erano andati all’università, figli di medici di provincia, di notai, di professionisti urbani, eliminati dal mercato per via di un aumento esorbitante delle tasse zariste sul demanio, erano andati a formare una clandestina e insospettabile classe di nuovi poveri. Il romanzo “Povera gente” toccò e perforò la sensibile anima del popolo russo, alimentando il germe di una sentimentalità mescolata a intensa spiritualità e attivismo politico, quella che di lì a breve avrebbe prodotto la fulminante e contagiosa passione rivoluzionaria bolscevica. I giovani universitari si radunavano per leggere a voce alta il romanzo agli analfabeti, che allora erano la maggioranza schiacciante della popolazione: avevano trovato una voce che li rappresentava, in grado di esprimere con parole semplici e immediate il loro disagio.
La tecnica del romanzo è epistolare: uno scambio di lettere tra due giovani, colti, senza futuro, travolti dalla miseria economica più nera e colma di disperazione esistenziale, che si scambiano la loro idea del mondo. Nasce una violenta passione amorosa tra i due, che entrambi identificano come passaporto per una possibile felicità sulla terra, ma la loro povertà impedisce una loro unione. L’aspetto di quel libro che colpì l’immaginario collettivo, al di là della sua qualità intrinseca letteraria, fu la scoperta che la povertà economica non aveva niente a che fare con la miseria interiore, anzi. Anche se a noi, oggi, può suonare strano, per i russi di allora fu una incredibile sorpresa venire a sapere che persone povere di soldi, travolte da una quotidiana indigenza, in verità rivelavano un mondo interiore, sia emotivo che esistenziale e psicologico, di invidiabile ricchezza sentimentale, spirituale, culturale. Con 55 anni di ritardo, arrivava nella Grande Russia il seme piantato dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, prodotta dalla rivoluzione francese.
Noi, oggi, in Italia, siamo in una situazione “politico-emotiva” paragonabile a quella dei russi nel 1846.
Con atroce ritardo, ipocrita sorpresa, una snervante quanto subdola lentezza, l’attuale classe politica dirigente, attraverso i vassalli della cupola mediatica, scopre che in Italia, nella primavera del 2013 esistono i poveri. Non solo. Scoprono (e la considerano una notizia, come se si fosse verificato lo scorso febbraio, così, all’improvviso) che sono tanti, molti di più di quanto non pensassero (loro che non lo sono): milioni e milioni. Vengono a sapere che non si tratta soltanto di extra-comunitari, emigrati affamati senza patria, fannulloni di varia natura, tossici sbandati, sporadici casi sociali di natura clinica, bensì una marea di giovani e anziani, figli e nipoti di una borghesia maciullata dall’iper-iberismo, non avvezza a elaborare anticorpi necessari per la sopravvivenza. Scoprono, oggi, addirittura dichiarandosi sorpresi, che l’Italia è un paese medioevale e arretrato, com’era la Russia nel 1846, dove non sapevano neppure che cosa fossero i diritti civili sui quali si dibatteva nel resto d’Europa da almeno cento anni, da quando Voltaire e gli altri illuministi avevano iniziato a diffondere il loro pensiero libertario. Sciorinano dati statistici allarmanti, freddi, oggettivi, numeri che si aggiungono ad altri numeri, impietosamente declinati senza pensare che ogni numero si riferisce a una Persona, a una Esistenza, a una Vita Pulsante, che è legata ad altre vite in una catena umana che, in un modo o nell’altro, tocca tutti noi. Riguarda tutti noi, nessuno escluso. Scoprono, oggi, che in Italia i suicidi degli imprenditori e dei salariati sta aumentando a un ritmo vertiginoso e preoccupante, insostenibile per una società europea. Scoprono, oggi, con circa 40 anni di ritardo, che l’Italia è un paese sorretto da piccole oligarchie del privilegio garantito, la cui bulimica avidità aumenta ogni giorno di più ingigantendo la questione sociale. Peggiorandola. Rendendola endemica, perché chi ne parla lo fa sempre dall’alto “come se” proponendo alla fine delle soluzioni operative che altro non sono che elucubrazioni retoriche e bizantinismi inutili che hanno l’obiettivo di mantenere lo status quo allargando sempre di più lo spettro della povertà che dilaga. La cosiddetta “manifestazione contro la povertà” indetta dal PD, avrebbe potuto essere, in questa Italia degradata del 2013, come “Povera gente” lo era stato in Russia nel 1846: un fragoroso acceleratore di particelle di consapevolezza, la presa d’atto di una situazione di emergenza sociale, presentata e rappresentata dalle voci esistenziali di chi soffre, di chi non ha più nulla, di chi è immerso nella disperazione quotidiana, nel solipsismo consueto dei nuovi disabili italiani, censurati e clandestini: i poveri senza volto, i vergognosi del proprio dissesto, i colpevolizzati per via del proprio dissesto, gli abbandonati, esclusi, emarginati e marginalizzati da una società (quella italiana) provinciale e cattiva, narcisista e malvagia, da sempre avvezza a rincuorare e valorizzare i vincenti, fuggendo dai bisognosi per evitare di prendere atto dell’esistenza di una propria miseria latente, temendone, magicamente, una specie di contagio esistenziale. Avrebbe potuto essere una occasione d’oro, forse l’ultima, per coloro che pontificano sui giornali e alla tivvù, per venire a raccontarci delle esistenze delle persone vere, proponendo una soluzione, un progetto, un programma, una medicina, un sogno, una speranza. Una parola. Forse, sarebbe bastata anche una semplice parola, tanto per fare capire ai milioni di poveri consapevoli e a quei milioni di potenziali poveri inconsapevoli (nel senso che oggi non sanno quanto saranno poveri anche loro, a breve e brevissimo tempo) che si è preso atto dell’esistenza e dell’autenticità delle loro vite. Per sapere. Tutti. E invece, il PD ha scelto di ignorare la narrativa esistenziale.
Ma non si tratta soltanto di un errore, bensì di un suicidio annunciato.
Un gruppo di burocrati obsoleti, applauditi dalle clientele rappresentate e dai capi bastone che controllano i voti dei bisognosi ricattati, si è riunito in un teatro parlando di nulla. Discorsi auto-referenziali, inutili, insultanti, privi di sostanza pragmatica. Neppure una frase, una parola (sia d’ordine che di disordine), una lettera, una virgola, sull’immediato programma da applicare domattina dovunque e comunque per far fronte all’emergenza sociale.
Una manifestazione contro la povertà senza poveri.
Una manifestazione contro la povertà senza le vite dei nuovi poveri.
Una manifestazione contro la povertà senza fornire adeguate misure contro la povertà.
Una manifestazione iper-realista: la prova della loro povertà di idee.
E’ la malattia mortale del PD.
E’ la pestilenza del 2013.
E’ un bacillo infetto di cui non è responsabile né Berlusconi né tantomeno Beppe Grillo. Se il PD non è in grado di produrre idee è perché ha una dirigenza che ne è priva.
Questo PD ha prodotto, volontariamente, una classe dirigente non pensante.
Questo PD ha voluto costruire una classe dirigente incapace ma servile, quindi utile a loro ma inutile per il paese.
Questo PD è incapace di pensare, perché è privo di pensatori.
Mentre Bersani portava fino in fondo il suicidio della sua compagine, a 600 chilometri di distanza, il presidente Giorgio Squinzi chiudeva il suo convegno sulla piccola impresa di Confindustria. “Il tempo è scaduto perché siamo al collasso” ha detto con realismo “e questa classe politica di inetti non ci rappresenta più. Da oggi, per noi, conta il nostro programma che intendiamo portare avanti e ruota su tre punti che…lasciatemi usare questo termine….da questo momento diventa il nostro mantra: credito, lavoro, occupazione. Questo è ciò che a noi interessa. Perché a noi, gente che fa impresa, non piace e non vogliamo vivere in un paese povero, e vogliamo produrre ricchezza per tutti”. Così ha parlato chi rappresenta la parte più ricca della nazione.
Mentre a Roma si consumava il macabro rituale di un gruppo di mummie, completamente incapaci di pensare, di progettare, di rispondere.
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