Viva sorpresa e costernazione ha suscitato fra i leghisti la sentenza della Consulta che boccia il referendum dei leghisti per cancellare il Rosatellum (votato anche dai leghisti) e sostituirlo con una legge elettorale maggioritaria su misura dei leghisti.
Eppure un indizio preciso di come sarebbe finita ce l’avevano: l’autore del quesito era Roberto Calderoli. Un nome, una garanzia di catastrofe. Calderoli, in arte “Pota”, dentista di Bergamo Alta inopinatamente scambiato da 25 anni per un riformatore, vanta una collezione di fiaschi che nemmeno una cantina sociale.
Un giorno, a Pontida, per sventare l’avvento dell’euro, s’inventò il tallero padano, detto “calderòlo”. Quando il pataccaro Igor Marini fu accolto in commissione Telekom Serbia come “supertestimone” delle tangenti a Prodi, Fassino e Dini sui conti “Mortadella”, “Cicogna” e “Ranocchio”, fu il Pota a garantire sulla sua attendibilità, definendolo “una persona di una memoria che fa impallidire Pico della Mirandola, intelligente, sveglia e preparata”. Infatti Marini fu arrestato per essersi inventato tutto.
Quando Ratzinger fu eletto papa, Calderoli pensò di migliorare i rapporti fra Lega e Vaticano dichiarando: “A Benedetto XVI avrei preferito Crautus I”. Nell’estate 2005 si inerpicò su una baita di Lorenzago del Cadore, in compagnia di costituzionalisti del suo calibro (D’Onofrio, Brancher e Tremonti che portava da bere), per riscrivere la Costituzione fra un grappino e una polenta taragna: la famosa devolution, regolarmente spazzata via nel referendum del 2006.
Poco dopo, il cavadenti padano sfornò la più indecente legge elettorale della storia dell’umanità prima dell’arrivo di Renzi. Infatti lui stesso, conoscendola, la definì “una porcata” (per gli amici Porcellum, ovviamente fulminata dalla Consulta). E, conoscendosi, confidò al Corriere: “Su di me non avrei scommesso un euro”.
Ma gli altri sì, anche se lui faceva di tutto per metterli sull’avviso: come la sera che apparve al Tg1 e si aprì la camicia mostrando in mondovisione una canotta con una vignetta anti-Maometto, che nel giro di 48 ore provocò una rivolta a Bengasi, 11 morti dinanzi al consolato italiano e le sue immediate dimissioni da ministro delle Riforme. Ma non bastò, nemmeno quando si riempì il giardino di leoncini, che lo riconobbero e lo azzannarono agli arti inferiori. L’equivoco continuò, tant’è che nel 2008 fu promosso ministro della Semplificazione Normativa: ruolo che purtroppo interpretò con la consueta dedizione. Appena arrivato, accatastò nel cortile del ministero un mucchio di norme stampate su carta.
Poi convocò la stampa e, con gli occhi spiritati a favore di telecamera, le semplificò bruciandole col lanciafiamme. “Sono 375 mila leggi inutili”, annunciò trionfante. Si scoprì poi che l’Italia, fra leggi utili e inutili, non supera le 150 mila, anche perché il Parlamento, per produrne 375 mila, avrebbe dovuto lavorare ininterrottamente dall’Unità d’Italia per 150 anni, compresi quelli di guerra e i mesi di ferie, sfornandone una media di 7,8 al giorno. Dunque non s’è mai capito che diavolo abbia bruciato Calderoli quel giorno. E soprattutto cosa si fosse fumato. In ogni caso qualcuna la incendiò: per esempio, i decreti ottocenteschi di annessione all’Italia del Veneto e del ducato di Mantova, riportando in vita i serenissimi dogi e i Gonzaga.
Più utile si rivelò la depenalizzazione del reato di banda armata a fini politici, che salvò i leghisti imputati a Verona nel processo “Camicie verdi”, tra i quali lui. Che, intanto, continuava a lasciare tracce, come le molliche di Pollicino, per far capire ai suoi che dovevano fermarlo. Chiamava i gay “culattoni ricchioni” e gl’immigrati “bingo-bongo”. Proponeva un “Maiale Day” contro la nuova moschea di Bologna. Chiedeva le dimissioni del premier Monti per aver festeggiato il Capodanno con i parenti a spese dei contribuenti (Monti rispose: “Gli acquisti di cotechino, lenticchie, tortellini e dolce sono stati effettuati a proprie spese dalla mia signora”), proprio mentre la Procura di Roma indagava Calderoli per truffa su un volo blu da Roma a Cuneo per visitare il figlio della compagna Giovanna Gancia in ospedale per un incidente stradale (la trasvolata da 10.271,56 euro restò impunita per il solito no del Senato all’autorizzazione a procedere).
Ma niente, tutti continuavano a prenderlo sul serio. A destra e pure a sinistra, malgrado avesse dato a dell’“orango” alla ministra Kyenge e chiesto l’immunità al Parlamento perché la sua era “una critica politica al governo Letta per il divertimento delle persone presenti, con toni leggeri, infatti non ho detto ‘orango’, ma ‘oranghi’, riferendomi a tutti i ministri” (la cosa però non parve un alibi di ferro, lui andò a giudizio e fu condannato per razzismo).
Così nel 2015 fu correlatore della controriforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini. E fu una fortuna: anche quella fu bocciata dagli elettori nel referendum del 2016. Con questo curriculum era naturale che Salvini e gli otto governatori di centrodestra promotori del referendum maggioritario chiedessero a lui di scrivere il quesito. Tutti i costituzionalisti, ma anche i passanti, che lo leggevano sapevano che sarebbe stato respinto perché, essendo troppo manipolativo, avrebbe lasciato il Paese senza legge elettorale. Ma l’Uomo Fiasco garantiva: “Niente paura, passerà”. Aveva pure chiesto alla Consulta di presenziare all’udienza in qualità di “delegato della Basilicata”. E la presidente Cartabia, con uno strappo alla regola, aveva accettato. Lui pensava che la cosa fosse di buon auspicio. In realtà era un premio per aver garantito alla Corte la piena occupazione con la sua produzione industriale di leggi incostituzionali. Infatti è entrato dall’ingresso fornitori.
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