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mercoledì 9 dicembre 2020

Mes cosa cambia con la riforma che il Parlamento deve approvare e perché i fondi per la sanità non c’entrano nulla. - Mauro Del Corno

 

La riforma è in cantiere da tre anni ed era stata bloccata dall'Italia prima dell'inizio dalla pandemia. Fondamentalmente le novità riguardano l'uso dei fondi Mes anche per il sostegno alle banche della zona euro, primo tassello in vista dell'obiettivo di un'unione bancaria. I rischi ipotizzati per i debiti dei paesi membri non sembrano trovare riscontri reali.

Chiariamo subito il punto. La riforma del Mes che si vota oggi in Parlamento c’entra poco o nulla con i prestiti per la sanità. Il Meccanismo europeo di stabilità esiste infatti dal 2012 ed è stato pensato come strumento per garantire stabilità finanziaria ai paesi euro (che sia servito davvero allo scopo è un altro paio di maniche) e questa rimane la sua funzione principale. La possibilità di erogare crediti, ai paesi che ne fanno richiesta, per interventi sanitari è un compito attribuito al Mes solo di recente a causa dell’emergenza Covid. Il motivo alla base della decisione è che il Mes avrebbe potuto essere più rapido nel mobilitare i finanziamenti, avendo alle spalle una struttura già pronta e rodata.

La riforma su cui si esprimerà il Parlamento non riguarda questi prestiti ma bensì compiti e modalità di funzionamento del Mes. E’ una riforma di cui si discute ormai da quasi tre anni, quindi da ben prima dello scoppio della pandemia. Il progetto era stata momentaneamente congelato, anche su richiesta italiana. Poi, il 30 novembre scorso i ministri economico finanziari della zona euro hanno trovato un’intesa definitiva sulla prima fase di modifica. La parola passa ora ai parlamenti dei vari stati, per l’approvazione finale serve l’unanimità.

A cosa serve il Mes? Il compito principale è quello di prestare soldi ai paesi che faticano ad accedere ai mercati finanziari. In sostanza il Mes assicura agli stati la possibilità di continuare a finanziarsi pagando interessi sostenibili anche quando gli investitori non sarebbero più disposti a comprare titoli di Stato se non dietro il pagamento di interessi molto elevati. Per farlo si interpone tra lo Stato e i mercati. In sostanza il Mes raccogliere direttamente finanziamenti sui mercati e poi “gira” i soldi al paese richiedente. Poiché ha alle sue spalle le garanzie di tutti gli stati membri dell’euro (possono arrivare fino a 700 miliardi di euro) la sua affidabilità è maggiore rispetto a quella di un singolo stato specie se in difficoltà. Quindi gli investitori sono disposti a prestare il loro denaro in cambio di interessi più bassi. La funzione è insomma un po’ quella di uno scudo. Il problema è che quando un paese bussa alla porta del Mes, viene accolto solo se accetta delle condizioni. In sostanza se presta i soldi, il fondo può mettere bocca nelle politiche economiche del paese richiedente, pretendere riforme o tagli alle spese. Le poche volte che è stato usato, dalla Grecia, dal Portogallo o dalla Spagna, il Meccanismo europeo di stabilità non si è guadagnato una buona reputazione. Forse era inevitabile ma sta di fatto che questi precedenti hanno reso politicamente “tossici” i suoi finanziamenti.

Cosa prevede questa riforma e perché è contestata in alcuni suoi punti?  Un primo elemento di novità è la possibilità di mobilitare i fondi del Mes anche a sostegno al sistema bancario. In particolare per far fronte ad improvvisi aumenti delle esigenze di liquidità di una o più banche. Quando le condizioni di mercato peggiorano una banca può incontrare problemi nel disporre di tutti i soldi liquidi di cui ha bisogno per il suo normale funzionamento. Questo non significa che la banca sia fallita, i problemi possono nascere dal fatto che in quel preciso momento fatica a vendere asset in suo possesso e a reperire così denaro liquido. Ma come recita un adagio finanziario…“liquidity kills fast”, la carenza di liquidità può uccidere rapidamente. Il nuovo Mes dovrebbe essere in grado di intervenire rapidamente per evitare guai peggiori. Inizialmente questa nuova funzione avrebbe dovuto scattare dal 2024 ma con le ultime modifiche si è deciso di anticipare al 2022. E’ un passo verso l’agognata unione bancaria europea che precede la creazione di un’ assicurazione unica sui depositi.

Oggi i depositi bancari sono assicurati fino a 100mila euro ma a farsi carico di questa tutela sono i sistemi bancari dei singoli paesi. L’ipotesi è quella di unificare tra tutti i paesi euro questa rete di sicurezza per i correntisti. Ad ostacolare questo “salto” è soprattutto la condizione di 4 paesi, uno di questi è l’Italia. Il nostro paese presenta un livello di crediti deteriorati (ossia prestiti bancari che non verranno più restituiti o lo saranno solo in parte), superiore al limite necessario per dar vita all’assicurazione unica. Paesi dove il sistema creditizio è meno esposto a rischi sono comprensibilmente restii a condividere i rischi con stati che presentano un pericolo di fallimenti bancari maggiore. Certo è che senza riforma del Mes l’assicurazione unica sui depositi si allontanerebbe ulteriormente, cosa che all’Italia non conviene.

Debiti pubblici e default, cosa cambia con la riforma – Più delicate le questione che riguardano il ruolo del Mes a sostegno degli stati. Il vero rischio non sembra essere tanto quello che il Mes venga usato come grimaldello per scardinare la sovranità di uno stato imponendone la ristrutturazione del debito, come paventato da alcuni critici. Piuttosto il pericolo è che la riforma cambi poco o nulla, condannando il Mes ad una sostanziale inutilità. Come abbiamo visto oggi il Fondo muove in soccorso dei paesi in difficoltà a condizione che firmino un accordo su un programma di interventi. In teoria la riforma dovrebbe rendere un po’ più semplice l’accesso ai finanziamenti. Uno stato che ha i conti in ordine potrebbe accedervi senza dover prima di concordare un piano di risanamento. Sarebbe sufficiente una valutazione preventiva delle sue condizioni finanziarie. Se sufficientemente solide il prestito verrebbe erogato anche senza firmare accordi di altro tipo. E’ un po’ una contraddizione in termini visto che se un paese fatica a finanziarsi sui mercati è proprio perché non ha conti particolarmente brillanti. Tutto naturalmente dipende da quanto saranno stretti questi criteri. Difficile che si valutino debiti e deficit come prima della pandemia. Se così fosse quasi tutti gli stati, Italia in primis, sarebbero tagliati fuori dagli aiuti senza condizioni.

Il dilemma delle Cac’s – C’è un altro elemento che preoccupa i paesi fortemente indebitati come l’ Italia. Sono le cosiddette Cac’s, le clausole di azione collettiva. Quando un paese decide di dichiarare default o è costretto a farlo, il piano di ristrutturazione del debito che ne consegue (ossia misure come l’allungamento delle scadenze dei titoli, il taglio ai rimborsi e/o agli interessi etc) deve essere approvato dai possessori dei titoli coinvolti. In passato per ogni tipo di titolo era necessario un voto. Le Cac previste nella riforma fanno in modo che basti una sola votazione per tutti i titoli coinvolti. Così si rende più semplice il processo di ristrutturazione del debito, e si evitano infiniti strascichi giudiziari. Perché potrebbe essere un male?

Secondo i critici il fatto che ricorrere al default sia più semplice, aumenta la probabilità che si ricorra davvero a questa opzione. Ma se le possibilità di default crescono, gli investitori si faranno pagare interessi più alti per prestare i loro soldi. Questi timori sono comprensibili in linea teorica ma appaiono però poco fondati nella pratica. Clausole di azione collettiva stanno venendo via via introdotte nei titoli di Stato di tutto il mondo, senza che si registrino apprezzabili conseguenze sul cosiddetto “premio al rischio”. Anzi, la possibilità di un procedimento ordinato in caso di default, finisce per rendere i titoli più allettanti. La modifica delle Cac’s per i titoli di stato dei paesi euro non è peraltro strettamente legata alla sola riforma del Mes e verrebbe introdotta in ogni caso. Più fondate sembrano le critiche che riguardano l’impianto generale della riforma. Secondo più di un osservatore il nuovo Mes nascerebbe già vecchio. La pandemia ha cambiato il mondo e persino la lenta Unione europea ha accelerato i suoi processi. L’avvio di programmi gestiti dalla Commissione Ue per reperire fondi sui mercati con una parziale condivisione del rischio tra gli strati membri, si pensi al programma Sure per finanziare le casse integrazioni o allo stesso recovery fund, rendono obsoleto il Meccanismo europeo di stabilità nel suo ruolo di intermediario tra stati in difficoltà e mercati.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/09/mes-cosa-cambia-con-la-riforma-che-il-parlamento-deve-approvare-e-perche-i-fondi-per-la-sanita-non-centrano-nulla/6030098/

sabato 11 febbraio 2017

Il mistero della villa di Renzi: la Finanza non trova le fatture. - Chiara Giannini



I pm indagano sulle ricevute dei lavori di ristrutturazione fatti dall'amico Andrea Bacci, già vittima di un agguato. 

Nei giorni scorsi qualcuno aveva esploso dei colpi di pistola contro la Mercedes di Andrea Bacci, l'imprenditore fiorentino amico dell'ex premier Matteo Renzi, indagato peraltro dalla Guardia di Finanza per una questione legata al ricorso abusivo al credito.
Uno dei proiettili era rimbalzato e aveva infranto il vetro di una finestra della sua ditta di pelletteria, non procurando fortunatamente alcun ferito. Ora la storia si fa più intricata, perché gli inquirenti avrebbero messo sotto la lente di ingrandimento proprio i rapporti tra l'uomo e l'ex capo del governo.
L'attenzione sarebbe puntata in modo particolare sulla ristrutturazione alla villa di Renzi, di cui proprio Bacci si occupò nel 2004. Che fine hanno fatto le fatture relative ai lavori? Fonti vicine a chi indaga fanno sapere che non si troverebbero. Il dubbio è quindi lecito: sono semplicemente sfuggite a un occhio attento o l'imprenditore ha fatto le manutenzioni alla casa dell'amico gratis o al nero? C'è chi in passato ha avuto guai per essersi fatto installare una parabola senza pagare la manodopera, figuriamoci se si parla della ristrutturazione di un'intera villa. Peraltro, sono anche al vaglio i legami di Bacci con ambienti connessi con la malavita locale. Quegli spari prima alla sua auto, poi a un cartello della Ab Florence, azienda di pelletteria da 130 dipendenti di proprietà dell'uomo, fanno sorgere molti dubbi.
Negli ambienti dell'imprenditoria toscana si vocifera che l'amico di Renzi abbia contratto numerosi debiti e sia stato costretto a chiedere dei soldi agli strozzini. La mancata restituzione avrebbe fatto irritare i creditori. Ecco perché Bacci è attualmente sotto scorta, su decisione della Procura. La notizia, comunque, è passata quasi sotto silenzio ed è stata riportata da pochi quotidiani, per lo più locali. Se fosse accaduto in Sicilia o in Calabria, con ogni probabilità, sarebbero partite indagini della Dia, ma nel Granducato, terra comunque in cui le infiltrazioni di cosche mafiose sono comprovate, l'attenzione è rimasta puntata solo sugli spari.
Bacci, che è anche patron della Lucchese calcio, risulta indagato con altre sei persone, proprio per l'emissione di fatture false e ricorso abusivo al credito, quale amministratore della Coam, una società che si occupa di edilizia che ha sede, guarda caso, a Rignano sull'Arno, paese di Renzi, attualmente in regime fallimentare.
L'amicizia con l'ex premier risale ai tempi in cui lo stesso era presidente della Provincia e, quindi, sindaco. Bacci deteneva, infatti, una quota della Nikila invest, che possedeva il 40 per cento della Party, società al cui vertice c'era Tiziano Renzi, padre del politico, al quale lo stesso prestò 75mila euro, assieme ad altre persone, per riscattare l'ipoteca sulla casa. Fu proprio Matteo Renzi a nominare l'imprenditore nel cda della Centrale del latte di Firenze, la Mukki e in altre partecipate. «Ancora una volta - spiega il capogruppo in consiglio regionale di Fratelli d'Italia, Giovanni Donzelli - diventa più urgente e necessario che si chiarisca chi ha sparato a Bacci e quali sono i motivi. I suoi strettissimi legami con il capo del partito di governo in Italia costringono gli italiani a chiedere trasparenza completa sulle persone frequentate e i rapporti tra eventuali personaggi malavitosi e Bacci».

venerdì 1 aprile 2016

Vaticano apre inchiesta sull'attico di Bertone. L'Espresso mostra le lettere che lo inchiodano. - Emiliano Fittipaldi

Vaticano apre inchiesta sull'attico di Bertone. L'Espresso mostra le lettere che lo inchiodano


I giudici di papa Francesco hanno iscritto nel registro degli indagati il manager Profiti e il tesoriere del Bambin Gesù per i 400mila euro destinati all'ospedale ma usati per ristrutturare l'appartamento del Cardinale. Che ha sempre dichiarato di esserne all'oscuro. Ma questi documenti lo smentiscono.

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Il Vaticano ha aperto un’inchiesta sull’attico di Tarcisio Bertone, e ha già iscritto nel registro degli indagati due persone: Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù e manager vicinissimo al cardinale, e l’ex tesoriere Massimo Spina. L’istruttoria penale è scaturita dalle rivelazioni del saggio "Avarizia", pubblicato da chi scrive , e ora rischia di sconvolgere nuovamente gli assetti della curia romana: i giudici di papa Francesco ipotizzano infatti reati gravissimi («peculato, appropriazione e uso illecito di denaro», si legge nelle carte d’accusa) e hanno già trovato i riscontri documentali che dimostrano che i lavori di ristrutturazione dell’appartamento sono stati pagati dalla Fondazione dell’ospedale pediatrico "Bambin Gesù".

Lavori costati in totale ben 422 mila euro ("Avarizia" sottostimava la cifra a 200 mila euro), che sono stati fatturati nel 2014 non alla società italiana che ha materialmente effettuato il restauro (La Castelli Re, fallita a luglio del 2015), ma a una holding britannica con sede a Londra, la LG Concractor Ltd. Controllata sempre da Gianantonio Bandera, titolare della Castelli Re e amico personale di Bertone.
I soldi destinati ai bambini malati sono stati, in pratica, utilizzati per la ristrutturazione, e poi girati a Londra. Oltre alle sette fatture pagate al costruttore attraverso i conti Ior e Apsa della Fondazione, però, i magistrati di papa Francesco hanno in mano anche lettere firmate che inchiodano l’ex segretario di Stato di Benedetto XVI alle sue responsabilità: Bertone, che ha finora sostenuto di essere all’oscuro di eventuali finanziamenti di terzi, è invece sempre stato a conoscenza che i soldi del restauro del suo appartamento venivano (anche?) dall’ente di beneficenza dell’ospedale vaticano.

"L’Espresso", in un’inchiesta nel numero in edicola domani e già online su Espresso+ , è in grado di raccontare l’intera vicenda, e mostrare tutte le carte segrete. Tra cui la corrispondenza tra Profiti e Bertone. Dove si evince che il manager, in una lettera firmata del 7 novembre 2013, ha davvero offerto al cardinale di pagare (tramite la onlus dedicata ai bambini malati) i lavori dell’attico di residenza in cambio di ospitare «incontri istituzionali» nella casa, e che Bertone - il giorno dopo - lo ha ringraziato accettando l’offerta, allegandogli persino una lista di "desiderata".
La lettera di Profiti, presidente della Fondazione Bambin Gesù, mandata a Bertone il 7 novembre 2013, in cui il manager si offre di pagare i lavori di ristrutturazione della casa del cardinale.

«Egregio Professore, la ringrazio per la lettera del 7 novembre, che mi ha inviato a nome della Fondazione Bambino Gesù» scrive Bertone. «Al riguardo, come già riferito nelle vie più brevi, tengo a confermare che sarà mia cura fare in modo che la copertura economica occorrente alla realizzazione degli interventi proposti nella documentazione che allego, venga messa a disposizione della Fondazione a cura di terzi, affinché nulla resti a carico di codesta Istituzione». Il cardinale si era sempre difeso affermando che tutto era avvenuto a sua insaputa. «È una calunnia» s’era giustificato: «Ho pagato 300 mila euro, di tasca mia, secondo le fatture che mi aveva mandato il Governatorato, proprietario dell’immobile. I 200 mila euro versati dalla Fondazione? Io non ho visto nulla. Ed escludo in modo assoluto di aver mai dato indicazioni o autorizzato la Fondazione ad alcun pagamento». Ora sappiamo che, almeno sul punto, mentiva.

La lettera di risposta di Bertone a Profiti, mandata l’8 novembre 2013: il cardinale ringrazia e accetta l’offerta, allegando anche la documentazione con alcuni interventi da realizzare.

Come detto, sul registro degli indagati del promotore di Giustizia sono finiti per ora in due: Profiti, da sempre manager di fiducia di Bertone e all’epoca dei fatti presidente sia del Bambin Gesù che della Fondazione, e l’ex tesoriere Spina. Il Vaticano considera entrambi «pubblici ufficiali» vaticani, e li accusa di concorso in peculato perché «si sono appropriati» si legge nel capo d’accusa «e comunque hanno utilizzato in modo illecito» fondi dell’ospedale «per pagare lavori di ristrutturazione edilizia di un immobile di terzi sito all’interno della Città del Vaticano, sul quale nessuna competenza e nessun interesse poteva vantare la predetta Fondazione».

Nel documento dei pm non viene citato il nome di Bertone, ma difficilmente la Santa Sede potrà evitare un suo coinvolgimento diretto nello scandalo. Se Bertone fosse incriminato non sarebbe comunque giudicato dal tribunale ordinario che sta indagando su Profiti e il tesoriere, ma dalla Corte di Cassazione della Città del Vaticano: secondo la giurisdizione d’Oltretevere è quello l’unico organo che ha il potere di aprire un’istruttoria sui peccati dei cardinali di Santa Romana Chiesa. Sarebbe il primo caso della storia.


Ma la documentazione contabile in mano al promotore di giustizia apre anche nuovi, preoccupanti scenari: quelli di un doppio pagamento. Bertone ha infatti spiegato di possedere la documentazione che dimostrerebbe come sia stato anche lui a saldare il conto. Attraverso un pagamento di 300 mila euro. «Mentre avanzavano i lavori e alla Ragioneria arrivavano le fatture da pagare, fui invitato dal Governatorato, il proprietario dell’immobile, a saldare. E come risulta da una precisa documentazione, ho versato al Governatorato la somma», ha confermato in un’intervista. 

Tralasciando la sorpresa di scoprire che un uomo di Chiesa ha un conto in banca capace di coprire spese per quasi mezzo milione di euro (tra lavori e successiva donazione), il pagamento a cui fa riferimento il prelato non è mai stato smentito dal Governatorato, un organismo presieduto dal cardinale Giuseppe Bertello. Dal momento che finora è certo che la Fondazione ha girato al costruttore Bandera 422mila euro per gli stessi lavori, delle due l’una: o Bertone mente di nuovo - ed è coperto dagli uffici del Governatorato - e in realtà non ha mai versato un euro, oppure il costruttore ha ottenuto per la medesima ristrutturazione non solo i denari della Fondazione, ma anche i 300 mila euro di Bertone fatturati dagli uffici della Santa Sede.

La lettera del costruttore Bandera, che chiede a Profiti l’autorizzazione per cedere il contratto di appalto a una holding londinese (sarà lei a fatturare alla Fondazione 422 mila euro), e la risposta affermativa del braccio destro di Bertone.

Entrambe le versioni imbarazzano non poco il Vaticano. Che ha aperto - con coraggio - un vaso di Pandora in cui rischiano di finire altri, insospettabili protagonisti.

L'inchiesta integrale su l'Espresso in edicola da venerdì 1 aprile e su  Espresso+


http://espresso.repubblica.it/archivio/2016/03/31/news/vaticano-inchiesta-attico-bertone-espresso-mostra-le-lettere-che-lo-inchiodano-1.256129?ref=HEF_RULLO

Siamo messi malissimo, sia materialmente che spiritualmente.

lunedì 13 luglio 2015

Yanis Varoufakis: La Germania non risparmierà dolore greco – ha interesse a rompere con noi.


Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Yanis Varoufakis pubblicato sul Guardian venerdì 10 luglio 2015.  Fotografa molto bene le difficoltà che sta affrontando Syriza e anticipava l’atteggiamento della Germania. 

La ristrutturazione del debito è sempre stato il nostro obiettivo nei negoziati – ma per alcuni leader dell’eurozona la Grexit è l’obiettivo.
Il dramma finanziario della Grecia ha dominato i titoli dei giornali per cinque anni per un motivo: l’ostinato rifiuto dei nostri creditori a offrire un’essenziale riduzione del debito. Perché, contro il buon senso, contro il verdetto del FMI e contro le pratiche quotidiane dei banchieri di fronte a debitori stressati, resistono a una ristrutturazione del debito? La risposta non può essere trovata in economia perché risiede in profondità nella politica labirintica dell’Europa.

Nel 2010, lo Stato greco è diventato insolvente. Due opzioni compatibili con il continuare a essere membri della zona euro si presentavano: quella sensibile, che ogni banchiere decente consiglierebbe – ristrutturazione del debito e riformare l’economia; e l’opzione tossica – estendere nuovi prestiti a un’entità in bancarotta fingendo che resti solvibile.

L’Europa ufficiale ha scelto la seconda opzione, mettendo il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte al debito pubblico greco al di sopra della vitalità socio-economica della Grecia. Una ristrutturazione del debito avrebbe perdite implicite per i banchieri nelle loro quote del debito greco. Desiderosi di evitare di confessare ai parlamenti che i contribuenti avrebbero dovuto pagare di nuovo per le banche per mezzo di insostenibili nuovi prestiti, i funzionari dell’UE hanno presentato l’insolvenza dello stato greco come un problema di mancanza di liquidità, e giustificato il “salvataggio” come un caso di “solidarietà” con i greci.
Per incorniciare il trasferimento cinico di irreparabili perdite private sulle spalle dei contribuenti, come un esercizio di “amore duro”, austerità da record è stata imposta alla Grecia, il cui reddito nazionale, a sua volta – da cui i nuovi e vecchi debiti dovevano essere rimborsati – diminuiva di più di un quarto. Basta l’esperienza matematica di un bambino di otto anni per capire che questo processo non poteva finire bene.
Una volta che la sordida operazione fu completata, l’Europa aveva acquisito automaticamente un altro motivo per rifiutare di discutere la ristrutturazione del debito: essa avrebbe ora colpito le tasche dei cittadini europei! E così dosi crescenti di austerità sono state somministrate mentre il debito è diventato più grande, costringendo i creditori a dare più prestiti in cambio di ancora più austerità.
Il nostro governo è stato eletto su un mandato per porre fine a questo circolo vizioso tra banche e stati (doom loop nel testo); per chiedere la ristrutturazione del debito e la fine dell’austerità paralizzante. I negoziati hanno raggiunto il loro molto pubblicizzato impasse per un semplice motivo: i nostri creditori continuano a escludere qualsiasi tangibile ristrutturazione del debito pur insistendo che il nostro debito impagabile sia rimborsato “in modo parametrico” da parte della parte più debole dei Greci, dei loro figli e dei loro nipoti.
Nella mia prima settimana come ministro delle finanze sono stato visitato da Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo (i ministri delle finanze della zona euro), che mi sottopose una scelta netta: accettare “logica” del piano di salvataggio e rinunciare a qualsiasi richiesta di ristrutturazione del debito o il vostro accordo di prestito farà “Crash” – la ripercussione non detta era che le banche della Grecia sarebbero state sbarrate.
Cinque mesi di trattative seguirono in condizioni di asfissia monetaria e di assalto agli sportelli bancari indotto supervisionate e gestite dalla Banca centrale europea. La scritta era sul muro: a meno che non capitoliamo, presto saremmo stati di fronte a controlli sui capitali, bancomat quasi-funzionanti, una prolungata chiusura festiva delle banche e, in ultima analisi, la Grexit.
La minaccia della Grexit ha avuto una breve storia sulle montagne russe. Nel 2010 ha messo il timore di Dio nel cuore e nella mente dei finanzieri poiché le loro banche erano piene di debito greco. Anche nel 2012, quando il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, decise che i costi della Grexit erano un “investimento” utile come un modo per disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva ha continuato a spaventare a morte quasi tutti.
I Greci, a ragione, tremano al pensiero dell'amputazione dall’unione monetaria. L’uscita da una moneta comune non è come troncare un piolo, come ha fatto la Gran Bretagna nel 1992, quando Norman Lamont notoriamente cantò sotto la doccia la mattina che la sterlina usciva dal meccanismo di cambio europeo (ERM). Ahimè, la Grecia non ha una moneta il cui piolo con l’euro può essere tagliato. Ha l’euro – una valuta estera completamente amministrata da un creditore ostile alla ristrutturazione del debito insostenibile della nostra nazione.
Per uscire, dovremmo creare una nuova moneta da zero. Nell’Iraq occupato, l’introduzione della nuova carta moneta ha impiegato quasi un anno, 20 o giù di lì Boeing 747, la mobilitazione della potenza delle forze armate Usa, tre aziende di stampa e centinaia di camion. In assenza di tale sostegno, la Grexit sarebbe l’equivalente di annunciare una grande svalutazione più di 18 mesi in anticipo: una ricetta per liquidare tutto lo stock di capitale greco e trasferirlo all’estero con ogni mezzo disponibile.
Con la Grexit che rafforza la corsa agli sportelli indotta dalla Bce, i nostri tentativi di porre la ristrutturazione del debito di nuovo sul tavolo dei negoziati è caduto nel vuoto. Di volta in volta ci hanno detto che si trattava di una questione da affrontare in un futuro non specificato che avrebbe seguito il “successo nel completamento del programma” – uno stupendo Comma 22 dal momento che il “programma” non avrebbero mai potuto avere successo senza una ristrutturazione del debito.
Questo fine settimana segna il culmine dei colloqui quando Euclide Tsakalotos, il mio successore, si sforza, ancora una volta, di mettere il cavallo davanti al carro – per convincere un ostile Eurogruppo che la ristrutturazione del debito è un prerequisito del successo nel riformare la Grecia, non un premio ex-post per questo. Perché è così difficile da far capire? Vedo tre ragioni.
Uno è che l’inerzia istituzionale è difficile da battere. 
Un secondo, che il debito insostenibile dà ai creditori immenso potere sui debitori – e il potere, come sappiamo, corrompe anche i migliori. 
Ma è il terzo che mi sembra più pertinente e, anzi, più interessante.
L’euro è un ibrido di un regime di tassi di cambio fissi, come l’ERM degli anni ’80, o il gold standard degli anni ’30, e una moneta di stato. Il primo si basa sulla paura dell’espulsione per tenere insieme, mentre il denaro statale comporta meccanismi per riciclare eccedenze tra gli Stati membri (per esempio, un bilancio federale, obbligazioni comuni). La zona euro cade fra questi sgabelli – è più di un regime di tassi di cambio e meno di uno stato.
E qui sta il problema. Dopo la crisi del 2008/9, l’Europa non sapeva come rispondere. Dovrebbe preparare il terreno per almeno una espulsione (cioè, la Grexit) per rafforzare la disciplina? O passare a una federazione? Finora non ha fatto nessuna delle due, la sua angoscia esistenziale sempre crescente. Schäuble è convinto che allo stato attuale, ha bisogno di una Grexit per pulire l’aria, in un modo o nell’altro. Improvvisamente, un permanentemente insostenibile debito pubblico greco, senza il quale il rischio di Grexit sarebbe svanito, ha acquisito una nuova utilità per Schauble.
Cosa voglio dire con questo? Sulla base di mesi di negoziati, la mia convinzione è che il ministro delle finanze tedesco vuole che la Grecia sia spinta fuori dalla moneta unica per mettere il timore di Dio nei francesi e fargli accettare il suo modello di euro zona inflessibile.

traduzione di Maurizio Acerbo