giovedì 21 luglio 2011

San Raffaele, i sospetti sui conti per i politici. - di Mario Gerevini e Simona Ravizza

Don Luigi Verzè (Fotogramma)

L'affare dell'aereo e gli 11 milioni in Nuova Zelanda.

MILANO - Undici milioni di euro inghiottiti nel buco di una società dall'altra parte del mondo. «Assion nz», scrive su un foglio un dirigente del San Raffaele. L'argomento è: le operazioni sospette di don Luigi Verzé, il fondatore dell'ospedale milanese, e Mario Cal, il vice suicida. È inutile girarci intorno: occorre dare un volto alle voci. A quelle che dicono quanto il San Raffaele sia stato generoso con il mondo politico, in modo tutt'altro che disinteressato. Tangenti, per capirci. E anche a quelle che raccontano di una contabilità parallela e di una diffusa prassi a gonfiare le fatture dei fornitori per creare una disponibilità extra. Il «nero», per essere chiari. Un mare di soldi che in trent'anni avrebbe alimentato conti esteri ben coperti, in parte per uso «istituzionale», in parte personale. In sostanza il tesoretto fuori confine di cui Cal e don Verzé avevano la combinazione e la disponibilità.
Illazioni? Cattiverie? Forse. E certo non aiuta a chiarire i dubbi la riservatezza maniacale con cui i bilanci della Fondazione vengono tenuti sotto chiave. Ma le voci adesso hanno le facce di «raffaelliani» vicini a Cal e a don Verzé. Escono timidamente allo scoperto e quelle operazioni dicono di conoscerle. Hanno paura e non fanno finta. Ovviamente chiedono di non essere identificati.

Operazione Auckland
Una delle nostri fonti insiste su «Assion nz», cerchia il nome sul foglio: «Vada a vedere quell'operazione». Il suicidio di Cal ha smosso l'omertà che circondava il San Raffaele. Si coglie un senso di ribellione verso la cappa di potere esercitata dal prete-manager.
«Sì, Assion, l'aereo - picchia l'indice sul foglio un altro ex fedelissimo -; in Nuova Zelanda con quella transazione è stata creata disponibilità per un uomo politico lombardo molto importante». Una mazzetta, insomma. Prove? Nessuna. Però in effetti le anomalie dell'affare sono molte.
L'operazione parte nel 2007. A farla è la Airviaggi controllata indirettamente dalla Fondazione Monte Tabor (al vertice del gruppo). «La controllante - si legge in un documento - ci ha finanziato l'acquisto dell'intero capitale di una società di aeronautica (Assion Aircraft & Yachting Chartering Service ltd di Auckland-New Zeland) titolare di un contratto di acquisto di un aeroplano Challenger CL604 in locazione finanziaria...». Da Milano a Auckland spediscono 8,5 milioni che aumentano inspiegabilmente a 12 milioni l'anno successivo. Però nel 2009 improvvisamente si scopre un buco da 11 milioni che la Fondazione deve coprire inviando altri soldi. Per la cronaca uno dei due amministratori della Assion è tale Reinhard Kurz delle Seychelles. Cioè un signore delle Seychelles amministra una finanziaria neozelandese utilizzata da una società italiana per acquistare un jet che va e viene da Milano.
Ultimo passaggio: Assion Aircraft viene chiusa il 28 aprile scorso. Non è un'operazione normale ma da qui a sostenere che è stata pagata una mazzetta ce ne passa.

Cassaforte a Vaduz?
E il tesoretto estero? Il deputato del Pdl Enrico Pianetta, secondo una delle fonti interne, avrebbe favorito in passato il flusso di fondi dall'Italia verso l'estero (soprattutto Brasile dove il San Raffaele ha molte attività). Ma prima di arrivare a destinazione quel patrimonio avrebbe fatto «sosta» in Svizzera, per poi ripartire più leggero. Illazioni anche queste? Forse. L'anno scorso parlò di cose simili ai pm di Palermo, sebbene in termini piuttosto confusi e generici, la pentita di un traffico di droga, Perla Genovesi, già assistente parlamentare di Pianetta quand'era senatore. Raccontava di finanziamenti a suo dire poco trasparenti procurati al San Raffaele dall'onorevole tramite la Commissione del Senato sui Diritti umani, da lui presieduta tra il 2001 e il 2006.
All'arcipelago estero apparterrebbero oggi fondazioni con funzione di casseforti occulte. Si fa il nome della Joseph Foundation di Vaduz in Liechtenstein che avrebbe in portafoglio, tra l'altro, proprietà e terreni a Gerusalemme.

http://www.corriere.it/cronache/11_luglio_21/san-raffaele-i-sospetti-sui%20conti-per-i-politici_8e74321a-b366-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml


L'ex assessore pdl Prosperini arrestato di nuovo per tangenti.


Era responsabile regionale del Turismo e dello sport. Finito in carcere nel 2009, aveva patteggiato una condanna a tre anni e cinque mesi. Indagati due dirigenti del Pirellone.


L'ex assessore regionale al Turismo e allo sport Piergianni Prosperini (Pdl, già Lega e An) è finito agli arresti domiciliari con le accuse di corruzione e false fatturazioni in relazione a tangenti ricevute per favorire un imprenditore in una gara d'appalto per la promozione di eventi in Valtellina. L'inchiesta è condotta dalla Procura di Milano. Con lui è finito ai domiciliari anche Luca Spagnolatti, ex assessore a Sondrio e già agli arresti domiciliari nell'ambito di un'altra inchiesta della Procura di Sondrio. Gli inquirenti avrebbero trovato prova di una tangente da 10mila euro legata alla promozione di alcuni eventi in Valtellina. Prosperini ha dimostrato una elevata capacità a delinquere e ha continuato a commettere reati anche quando sapeva già di essere indagato, si legge nell'ordinanza.


Il traffico di armi. Prosperini avrebbe anche cercato di vendere in Eritrea materiali di armamento: in particolare visori notturni per fucili di precisione. E' quanto emerge dall'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Andrea Ghinetti, che non ha accolto la richiesta di arresto avanzata dai pm Alfredo Robledo e Paolo Storari per il reato di traffico di materiale d'armamento. Secondo il gip non c'è la prova che i visori per i fucili siano arrivati effettivamente in Eritrea, ma soltanto che l'ex assessore abbia provato a trafficare in questi materiali. Dunque per Prosperini, che aveva un ruolo di fiduciario nei confronti del governo eritreo, resta aperto un procedimento penale a piede libero per queste ipotesi di reato. Il reato di false fatturazioni, invece, per il quale l'ex assessore è finito agli arresti, riguarda l'intermediazione nella compravendita di armamenti e pescherecci sempre nei confronti dell'Eritrea. Secondo l'accusa, l'ex assessore avrebbe messo in piedi un giro di false fatture, attraverso società cartiere, per farsi pagare in nero il suo ruolo di mediazione negli acquisti, evadendo così anche le tasse.

L'arresto nel 2009.
L'ex assessore era finito in carcere nel 2009 e aveva patteggiato una condanna a tre anni e cinque mesi per altre vicende di tangenti. Stando alla ricostruzione dell'accusa, Prosperini, quando era assessore al Turismo avrebbe incassato dei soldi per favorire eventi di promozione turistica nell'ambito della Bit (Borsa internazionale del turismo). L'arresto è stato disposto dal gip Andrea Ghinetti. Prosperini aveva patteggiato in passato per altre accuse la condanna a tre anni e cinque mesi di carcere.

L'orologio alla funzionaria del Pirellone. Nell'inchiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e del pm Paolo Storari sono indagati anche un attuale dirigente e un attuale funzionario dell'assessorato regionale lombardo al Turismo. In particolare è indagato per truffa aggravata il dirigente Roberto Lambicchi, a cui vengono contestati alcuni episodi di truffa del 2009 per i quali Prosperini era già stato arrestato. Il funzionario Isabella Molina, invece, è indagata per corruzione perché avrebbe ricevuto un orologio di lusso come ringraziamento per aver affidato a una società la realizzazione di alcune brochure per una manifestazione turistica. Anche in questo caso i pm avevano chiesto l'arresto, ma il gip interrogherà la funzionaria per valutare un'eventuale misura interdittiva.

Quando fu arrestato in diretta tv Prosperini legionario, ma la foto è taroccata Crociato e supereroe nei calendari.


Lo strappo finale. - di MASSIMO GIANNINI



CHIUSO nella trincea di Palazzo Grazioli, ormai trasformata in Palazzo d'Inverno, il premier incassa la sconfitta più amara. In tre anni di sfascismo politico e processuale, la Lega non lo aveva mai lasciato solo sul fronte della giustizia. Aveva coperto ogni sua legge-vergogna, ogni sua intemperanza verbale e costituzionale. Ma con il voto su Papa, il Carroccio consuma lo strappo finale. Il Cavaliere rimane davvero solo. Il moribondo governo Berlusconi-Bossi non esiste più. Resiste solo l'inverecondo sub-governo Berlusconi-Scilipoti.

Il primo dato politico forte, che emerge dal doppio voto segreto dei due rami del Parlamento, è esattamente questo. Il Cavaliere esce a pezzi dall'ordalia di Montecitorio, dove le camicie verdi del Senatur, dopo un penoso tira e molla durato una settimana, sparano "fuoco amico" contro l'avvocato pidiellino sotto accusa nell'inchiesta sulla P4.

Sono voti pesantissimi. Contraddicono clamorosamente gli appelli lanciati a più riprese dal premier e dalla sua claque. Svelano palesemente l'ormai insostenibile cortocircuito nel quale si avvita la strategia della Lega. La fedeltà personale di Bossi nei confronti di Berlusconi non può più coesistere con l'irriducibilità politica di una base che invoca ad alta voce mani libere. Al Grande Capo della tribù padana, stanco e debilitato, non basta più il carisma sacrale e autocratico per spiegare le ragioni di un'alleanza asimmetrica, dalla quale il Carroccio incassa ormai molti più perdite che profitti.

Esiste un "fattore monetine". La Lega, e l'intera opposizione, ha fiutato il clima che si respira nel Paese, attraversato da una vena antipolitica che (come avvenne ai tempi di Craxi davanti al Raphael) non avrebbe perdonato alla "Casta" l'ennesima guarentigia. In un'Italia bastonata dalla manovra di Tremonti e indignata per i privilegi della nomenklatura che quella stessa manovra ha risparmiato, il no all'arresto di Papa sarebbe stato intollerabile. O per lo meno lo sarebbe stato per i leghisti, che ai tempi di Tangentopoli, fomentati dagli elettori secessionisti delle valli alpine, agitavano i cappi nell'aula di Montecitorio.

La Lega è dunque tornata alle origini. Ma la frattura con il Pdl su Papa è in realtà solo un'altra tappa, in un'escalation di autonomizzazione che ormai abbraccia l'intero spettro dell'azione di governo: dai rifiuti di Napoli alle missioni all'estero.

L'unico a non aver compreso la fase, e a ostinarsi a riscrivere la storia a suo abuso e consumo, è il presidente del Consiglio. Urla alla luna, gridando il suo sdegno contro il giacobinismo delle toghe e contro "l'inaccettabile deriva delle manette" dalle quali la politica si deve difendere.

La sua ossessione lo tormenta. Lo costringe alle solite nefandezze, come il rilancio dell'inaccettabile legge-bavaglio sulle intercettazioni. Lo induce alle solite menzogne. In un Paese squassato dagli scandali (che vanno dalla Struttura delta alla P4, dalla collusione con la mafia alla corruzione della Guardia di Finanza) il problema non è l'azione penale della magistratura, ma il malaffare della politica. Stigmatizzare la prima, senza vedere il secondo, è un'operazione di pura disonestà intellettuale.

Esiste una "questione morale". La si può chiamare anche in un altro modo, per non scomodare una "formula" impegnativa come quella che coniò a suo tempo Enrico Berlinguer. Ma non la si può nascondere. Lacera il centrodestra, e investe anche il centrosinistra, come dimostrano le inchieste su Pronzato, su Morichini, ora anche su Penati.

Per questo ciò che è accaduto al Senato, con il voto segreto parallelo sulla richiesta d'arresto di Alberto Tedesco, deve far riflettere. Se è vero che a votare no, nel segreto dello scranno, è stata anche una parte dei senatori del Pd (in dissenso con la linea del partito concordata sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio) allora c'è davvero poco da esultare. Il Partito democratico deve far chiarezza al suo interno. In tutti i sensi. La trasparenza dei comportamenti, sia in Parlamento che fuori, è materia non negoziabile. E comunque non trattabile con le furbizie o le geometrie variabili tra un ramo e l'altro delle due Camere.

In una prospettiva post-berlusconiana, proprio il tema delle geometrie variabili fa emergere il secondo dato politico forte, dello show-down di ieri a Montecitorio. I voti delle opposizioni, sommati a quelli in libera uscita della Lega, hanno prodotto un risultato numerico significativo: 319. Più o meno la stessa "quota" con la quale il Cavaliere governa dal 14 dicembre dell'anno scorso, cioè da quando Fini ruppe il patto e Futuro e Libertà cambiò schieramento.

È nata un'altra maggioranza? Siamo ai primi vagiti di quell'"alleanza costituzionale" che, mettendo insieme Pd, Terzo Polo e Lega, potrebbe sostenere un governo di emergenza nazionale? È difficile capire se, oltre all'ipotesi aritmetica appena dimostrata, possa reggere alla prova anche l'ipotesi politica. Ed è altrettanto difficile capire oggi quale scenario sia migliore per il prossimo autunno, tra un governo di salute pubblica e le elezioni anticipate. L'unica cosa che non può reggere, con assoluta certezza, è il governo Berlusconi-Scilipoti. L'Italia, nel mirino della speculazione internazionale, non se lo può più permettere.



Un pomeriggio appesi alla radiolina poi esplode l'urlo: "Papa in galera". - di Francesca Paci.

Studenti e pensionati in piazza davanti alla Camera: «Stavolta le monetine non sono servite».

Non erano tantissimi gli "indignados" italiani che aspettavano il verdetto su Papa al di là delle transenne di piazza Montecitorio. Una trentina di persone al massimo, ma determinate a far sentire la propria rabbia come quelle che il 30 aprile 1993 si radunarono davanti all'hotel Raphael di Roma per contestare Bettino Craxi lanciandogli addosso simboliche monetine. Un testimone ideale che i cittadini esasperati di oggi raccolgono da quelli di ieri.

Alle 18,20 la radiolina intorno a cui sono tutti in ascolto annuncia che il voto sarà segreto. «Ci hanno fregato, adesso si aggiusteranno come vogliono» commenta sconsolata l'insegnate elementare Carla. Troppo presto però: dopo neppure un quarto d'ora l'urlo liberatorio di Daniele rivela che per il deputato del Pdl si sono aperte le porte della prigione.

«Ladro, ladro, in-ga-le-ra...» ripete Daniele Catanzaro, 24 anni, studente di giurisprudenza. E' venuto apposta: «Finalmente la Camera sbatte dietro le sbarre qualcuno. La gente è stufa, non è possibile che se io commetto un reato vengo arrestato e i politici no. Papa si difenderà e se è innocente sarò felice per lui ma oggi va bene così. Là dentro hanno capito che rischiano grosso, altro che lancio delle monetine...». Esce Landolfi ma si tiene lontano dalle transenne. Daniele aziona la sirena della polizia che ha portato per suonare la riscossa della giustizia: «Sono un elettore di centrosinistra ma sono furioso con tutta la classe politica. Da due anni poi non ci vedo più dalla rabbia. Sono disposto a votare chiunque in modo trasversale purchè sia una persona pulita. Ormai la pensiamo tutti così, mio fratello che non sa neppure se l'Italia sia una repubblica presidenziale mi ha detto stamattina di essere stufo. Tangentopoli non è servita a niente, prima si rubava per il partito e oggi invece si ruba per se stessi». Tangentopoli, già. Il pensionato Roberto Piperno, 65 anni, ex responsabile dell'etica aziendale in una grande società americana, c'era. «Lo spirito è quello del '92, dobbiamo ripartire da lì, il livello etico è troppo scaduto» afferma brandendo un cartello con scritto «Parolisi sì e Papa no? Non esasperateci». Roberto non è un esagitato, parla pacatamente e non si scalda: «I miei nipoti fanno di tutta l'erba un fascio, io no. Non sono tutti ladri ma ce ne sono diversi ed è ora di veder trionfare la giustizia. Non è bello vedere qualcuno arrestato ma se deve valere la presunzione di innocenza allora deve valere per tutti. Ho visto Murdoch interrogato a Londra e qui niente, i nostri politici si offendono anche se gli chiedi conto di ciò che fanno». E' ottimista però, e non solo per l'arresto di Papa: «Da tempo partecipo alle manifistezioni civili, prima eravamo solo pensionati ma ora ci sono molti giovani».

Il pensionato Piperno effettivamente è in minoranza. C'è Paolo Leccese, 26 anni, studente di filosofia, impiegato presso un centro per disabili e e coordinatore per Roma dei giovani dell'Idv: «Peccato che Tedesco si sia salvato. Dopo Tangentopoli le cose sono peggiorate, nel '92 si stimava che la corruzione ammontasse al corrispettivo 90 miliardi di euro oggi siamo passati a 900 miliardi di euro. All'epoca la malattia fu curata male e ce la ritroviamo rafforzata». C'è Giuseppe Bonprisco, 23 anni, studente di medicina: «Qualcosa sta cambiando, il vento è girato. Il cittadino informato non può essere truffato». C'è l'informatico ventisettenne Alberto che saluta gli altri dando loro appuntamento al prossimo arresto e c'è Danilo Bartolucci, 38 anni, disoccupato: «Lavoravo ai servizi per il verde pubblico, faccio parte di una categoria protetta perchè da piccolo ero sempre malato, mi hanno liquidato lo scorso ottobre con 452 euro di liquidazione e ora sono tornato a vivere dai miei genitori. Se penso che i parrucchieri di Montecitorio sembra guadagnino 133 mila euro l'anno...»

Addossato alle transenne c'è il tendone del «Presidio Sciopero della Fame a Oltranza». I cartelli appesi qua e là recitano: «Il nostro debito siete voi», «Voi siete i nostri dipendenti», «Riduzione dello stipendio ai parlamentarie amministratori pubblici del 50%, risparmio annuo di 12 miliardi». Gaetano Ferrieri, veneziano, consulente immobiliare, è qui dal 4 giugno. Beve succhi di frutta, integratori, prende proteine solubili, ha perso dieci chili: «In virtù dell'articolo 50 abbiamo presentato 3 petizioni molto tecniche alla Camera: per chiedere l'abbattimento dei costi della politica risparmiando 37 miliardi di euro, per modificare la legge elettorale con un comitato di cittadini che aiuti a scrivere le riforme risparmiando 17 miliardi di euro e perchè la camera si dimetta giacchè i deputati non sono scelti dal popolo ma dai politici». Una sessantina di persone lo sostengono dandogli il cambio a rotazione ma sulla pagina Facebook www.presidiomontecitorio.it ci sono già 450 mila visualizzazioni e 10 mila adesioni. L'obiettivo è una megamobilitazione: «L'idea è quella di Ghandi. Siamo stati ricevuti dal capo gabinetto di FIni che ci ha detto di portare in piazza 3 milioni di persone per ottenere ciò che vogliamo. Abbiamo convocato un sit in per il 23, 24 e 25 luglio qui davanti se ce ne fossero molte migliaia sarebbe già un successo». Gaetano è stato intervistato dalla Cnn e dalle tv di mezzo mondo ma non è riuscito a parlare con i suoi rappresentanti politici: «Non si ferma nessuno e non solo del governo. Di Pietro è passato tante volte, Prodi e la Bindi ridono dicendo che moriremo di fame, Barbato si è fatto una foto qui ma non ci ha parlato». In compenso è venuto a salutare il presidio Patrick Joseph Kennedy, potenza della globalizzazione comunicativa. Il web intanto rilancia la buona novella della giornata.


La fine di un'illusione. - di Luigi La Spina



Può sembrare un paradosso. In una giornata politica di fortissima tensione, con le aule parlamentari ribollenti di urla, litigi al limite dello scontro fisico, e sintetizzata persino da un pugno sul tavolo sferrato dal presidente del Consiglio, i veri protagonisti sono stati due: una assenza e un lungo silenzio. La prima è stata quella di Umberto Bossi. Il secondo è stato quello che ha accolto il sì della Camera all’arresto di un suo componente. L’assenza certificava l’impossibilità, da parte del leader della Lega, di mantenere quel patto con Berlusconi che ha varato la legislatura e ha sostenuto per tre anni il governo. Il silenzio esprimeva la sorpresa, lo sconcerto, il disorientamento, quasi il panico dei deputati che assistevano alla fine di quell’intesa senza che se ne potesse intravedere un’altra.

Come gli capita troppo spesso negli ultimi tempi, il presidente del Consiglio non aveva capito che gli umori del Paese avrebbero messo alle corde la resistenza del partito di Bossi. Così, i suoi pronostici ottimistici, fondati su un voto segreto che avrebbe dovuto mascherare il tradimento dei leghisti rispetto alle dichiarazioni ufficiali, si sono scontrati, ancora una volta, con una realtà che sembra ormai sfuggirgli.

Eppure, gli sarebbe bastato notare quella mancata presenza e il plateale spostamento di Maroni dai banchi del governo a quelli del suo gruppo alla Camera per comprendere che nella Lega si è chiusa una stagione e, con essa, forse anche una legislatura.

Occorreva un’occasione importante perché l’azionista di riferimento di questo governo, la Lega, mandasse questo segnale di distacco al suo amministratore delegato, Silvio Berlusconi. E la giornata alla Camera, ieri, è stata addirittura drammatica e dall’esito sconvolgente, perché da quasi trent’anni l’assemblea di Montecitorio non spediva un suo deputato dietro le sbarre di un carcere. Ma l’esito non era certo prevedibile per chi si fosse ostinato a seguire solo le liturgie del Palazzo, collaudate in anni di accordi trasversali, tra tutti i partiti, per difendere ad oltranza chiunque, tra quelle mura, fosse indagato anche con gravissime accuse. Bisognava intuire che la pressione dei cittadini contro una classe politica, apparsa inadeguata rispetto alla gravità dei problemi del Paese e indifferente di fronte ai sacrifici imposti, avrebbe sconvolto l’ordinario rito corporativo delle Camere e spezzato l’anello più sensibile della maggioranza, il partito della Lega.

Solo i prossimi mesi chiariranno se l’assenza di Bossi, ieri nell’aula di Montecitorio, abbia avuto anche un altro significato: quello del passaggio di testimone di una leadership così carismatica e, fino a poco tempo fa, del tutto indiscussa. Se sarà Maroni a ereditare la guida della Lega o se la lotta per la successione provocherà una guerra fratricida, con una conclusione, magari, del tutto sorprendente. Ma il motivo di fondo del cambio di rotta clamorosamente annunciato ieri è già abbastanza chiaro: è finita, nella Lega, l’illusione che, pur di conquistare il federalismo, valesse la pena sopportare il sempre più faticoso appoggio a Berlusconi, alle sue leggi ad personam, ai suoi stili di vita, ai suoi metodi di governo. Per una contraddizione evidente e molto concreta: da una parte, gli effetti positivi per il Nord del federalismo fiscale appaiono lontani e molto dubbi, man mano che i decreti attuativi vengono approvati; dall’altra, tutti i tagli e le manovre del governo finiscono per penalizzare soprattutto le risorse degli enti più vicini al territorio, Comuni e Regioni. Con il risultato, reso evidente del voto delle amministrative, di una rivolta degli elettori della Lega, costretti a subire riduzioni dei servizi locali, senza vedere vantaggi da un sogno federalista rivelatosi assai deludente.

E’ difficile prevedere se, in questa situazione di sbando parlamentare e governativo, la maggioranza numerica che sostiene Berlusconi, pur con la clamorosa eccezione del voto di ieri alla Camera, potrà resistere ancora. Certo il segnale lanciato dalla Lega, alla Camera, è molto forte. Ma più determinante per la sorte della legislatura sarà, forse, l’andamento dei mercati nelle prossime settimane. L’esito del vertice europeo, formalmente convocato per il salvataggio della Grecia, ma dedicato soprattutto alla difesa dell’euro, potrebbe aiutare anche il nostro governo, così traballante. Ma il logoramento politico di questi giorni, tra sconfitte parlamentari e dilagante sfiducia dei cittadini, non aiuta a offrire al mondo l’immagine di un’Italia pronta a superare una delle crisi più difficili della sua storia.

Verso il Disgelo.





Molti domandano, a volte anche in buona fede, come faranno i giornalisti che si sono accanitamente opposti a Berlusconi e al berlusconismo, e magari hanno fatto fortuna sull’antiberlusconismo, a campare quando la lunga agonia del suo tempo politico finira’. La domanda non è soltanto oziosa o polemica. Sarà effettivamente necessario un periodo di riaggiustamento, perchè questa lunga notte della ragione e del nulla che ha travolto l’Italia, limitando i danni e le tentazioni di regime grazie alla nostra appartenenza a una comunità di nazioni, è stata una droga per tutti, amici e nemici, e disintossicarsi dal bipolarismo – nel senso psichiatrico, non politico – non sarà facile. Dovremo rimparare a camminare, come fa chi esce da un’ ingessatura e lascia le stampelle. Ma come il mondo esisteva prima di SB, così continuerà a esistere dopo SB anche nell’ informazione. Capisco che nei suoi sostenitori onesti (non parlo dei sicari o dei sicofanti, quelli troveranno altri padroni da servire, essendo servi) come nei suoi avversari il pensiero di un’ Italia che non abbia più un Berlusconi da venerare o da detestare, da adulare o da maledire, da difendere o da attaccare, produca un senso di vertigine e di vuoto dopo quasi vent’anni, testimoniato dalla famosa e angosciata frase: “Chi potrebbe prendere il suo posto?”. Nessuno potrà prendere il suo posto, per fortuna e speriamo per un lungo periodo, nel quale, se vorremo davvero disintossicarsi, dovremo tutti riprenderci le nostre responsabilità di giornalisti, di imprenditori, di politici, di cittadini, senza attribuire ogni colpa a lui e senza aspettarci, come ancora tragicamente fanno alcune “ultime raffiche”, che lui sfoderi l’arma segreta per risorgere e uscire dalle rovine della cancelleria nella quale si e’ asserragliato con i suoi fidi. C’e’ un intera generazione di ventenni che non ha mai conosciuto un’Italia sulla quale non incombesse Lui, dall’ opposizione o dal governo, nelle polemiche, nelle tv, nei giornali, nei nuovi media, giovani che non riescono a concepire, a immaginare, una nazione senza SB. Sarà duro e sarà bello ricominciare a vivere nell’ Era del, Dopo Berlusconi, e non mancheranno argomenti, avversari, battaglie, opinioni. Anzi. Non vedo l’ora che cominci.



Il disfacimento di Berlusconi. - di Luca Telese


Dopo il voto della Camera a favore dell'arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa, il premier batte il pugno sul tavolo e grida: "Sono impazziti, vergogna". Il sospetto del tradimento di Bossi lo turba. Così finisce un ventennio di consenso al Cavaliere.

“Sono impazziti, è una vergogna!”, grida Silvio Berlusconi, e batte il pugno sul banco e si incazza, e corre inseguito da due ali di ministri nei meandri di Montecitorio, verso la stanzetta del presidente del Consiglio, sguardi attoniti passi di minuetto, la faccia stupefatta di Michela Brambilla e quella costernata di Andrea Ronchi dietro di lui, e rumori di tacchi, forse anche così finisce un’era. Questi sono impazziti: il paese che si congeda dal ventennio di consenso al Cavaliere, i parlamentari che sfuggono al controllo dei capibastone, un blocco di ghiaccio che si scioglie per colpa di un dito.

GIÀ, IL DITO. Il dito indice della Creazione, ma anche quello del voto elettronico. Nel primo pomeriggio questo dito lo roteava Tonino Di Pietro, in pieno Transatlantico, come se fosse un’arma. “Vedi? Se voti con l’indice attaccato alla buca dei tasti di voto, si vede solo quello. E se hai dentro la buca un solo dito, non puoi andare sul tasto del no!”. Intorno deputati, giornalisti, le portavoci del gruppo dell’Italia dei Valori. Di Pietro sorride alla sua capoufficio stampa, Fabiola Paterniti. “Sai che faccio io? Mentre voto mi scatto una foto con il telefonino e poi lo mettiamo sul blog!”.

Esce dall’aula elettrizzato dal dito anche Dario Franceschini, capogruppo del Pd. Per un giorno intero tutti dicevano che il suo gruppo sarebbe crollato, sotto il peso dei franchi tiratori, protetti dallo scudo del voto segreto. È accaduto esattamente il contrario. E adesso Franceschini, mentre corre verso la sala stampa con passo garibaldino sorride: “Se non ci fosse stato il dito la Lega non sarebbe crollata”. Cioè? “Ha avuto un peso di deterrenza, no? Mi pare chiaro. L’idea che il nostro voto fosse trasparente, ha impedito la sommersione di chi voleva votare a favore. Ed è questo che ha spaccato la Lega. Se Papa si salvava, era chiaro che si trattava di loro”. Già, la Lega. Quanto conta quel colpo d’occhio dall’alto della tribuna, la feroce sintesi dei simboli. Umberto Bossi non c’era. E tra i banchi svettava Bobo Maroni, questa volta più vicino ai suoi che al governo. I “Maroniti”, ormai tutti li chiamano così, sono stati quelli che seguendo il grande ventre della base popolare del Carroccio hanno spinto in ogni modo sul sì. Prima in commissione, poi in aula.

Più di tutti vale il racconto di Anna Rossomanno, deputata piemontese del Pd, che ha seguito il caso Papa nel dettaglio. “Vedi, già in quei giorni del voto c’erano segnali importanti e stupefacenti, su come stava montando la marea nella Lega”. Ovvero? “Due colleghi del partito di Bossi mi hanno fatto vedere i loro telefonini: mentre noi discutevamo di Papa, erano tempestati di messaggini di militanti che li azzannavano. ‘Mica manderete libero quello lì’”. Quello lì. Papa, “il terrone”. Pier Luigi Bersanirilascia interviste sulla rampa del giardino: “È finito il vincolo di maggioranza”. Ci deve essere un mondo che scompare e il sipario di un’epoca che si avvicina all’ultimo atto, anche nella reazione a catena che si potrebbe innescare. Sì a Papa e Sì anche a Milanese, ma poi perché dire No, allora, per i reati del Ministro Saverio Romano? La grande montagna dell’emiciclo pidiellino rumoreggiava cori e insulti – “Vergogna!” – contro quelli che chiedevano l’arresto, e sommergevano letteralmente di improperi Rita Bernardini che diceva: “Il 40 per cento degli italiani sono in carcere per la custodia cautelare. Ma non abbiamo fatto nulla per loro. Quindi, noi Radicali, riteniamo di dover votare…”. E parte il grido: “Buffona!”. La Bernardini non si scompone: “Votare sì”. Torna a battere sullo stesso tasto, Benedetto Della Vedova di Futuro e libertà: “Il vostro rigore garantista , onorevole Paniz, non l’ho ascoltato quando in gioco c’era la libertà dei poveracci”.

Ci deve essere un mondo che finisce nell’ira con cui Silvio Berlusconi in serata, dopo il voto insegue Bossi, con il sospetto del tradimento che gli scava dentro. “Chiarirò con lui. Questo è un gioco allo sfascio, così finisce anche la Lega”. In fondo anche il Senatùr è chiuso dentro un paradosso feroce: o è sospettato di aver fatto un gioco delle parti con Maroni. Oppure è sospettato di non controllare più lui il gruppo parlamentare del partito (e forse nemmeno più il partito). Forse c’è un’epoca che finisce nella regolare sfida a duello che si inscena in Transatlantico fra il casiniano Angelo Cera e il pidiellinoVincenzo D’Anna: “Se vuoi usciamo di fuori e la regoliamo come dico io”, grida il deputato dell’Udc. E D’Anna, sarcastico: “Allora facciamo così. Quando arriva l’autorizzazione su Cesa ci divertiamo!!”.

FORSE il mondo che finisce lo puoi leggere anche nelle parole di Roberto Castelli, uomo forte del Carroccio che dice: “Berlusconi è arrabbiato? Mi dispiace perché domani io gli darò un altro dispiacere votando contro la missione”. E come mai l’arringa di Maurizio Paniz questa volta non fa presa? Come mai tutti dicono che l’Udc potrebbe smarcarsi invece non accade nulla? Quando il voto si celebra Rosy Bindi corre via dall’aula, con le lacrime agli occhi: “Piange per Papa?”. E lei: “No. Per quel poveraccio mi dispiace. Ma sto piangendo di gioia perché il voto di oggi è una grande prova per questo paese, un segnale che la politica può cambiare”. Le lacrime della Bindi, e l’ira di Berlusconi. Forse anche così passa un’epoca. Berlusconi ha perso molte battaglie, in questi mesi. Ma è la prima volta che vediamo la sua rabbia indiretta, la sua impotenza, il suo pugno che batte sul tavolo. Forse è la prima volta che vediamo il Cavaliere rappresentare la sua debolezza in diretta televisiva, sotto l’occhio delle telecamere. Una debolezza che potrebbe costargli cara.





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