giovedì 21 luglio 2011

Lo strappo finale. - di MASSIMO GIANNINI



CHIUSO nella trincea di Palazzo Grazioli, ormai trasformata in Palazzo d'Inverno, il premier incassa la sconfitta più amara. In tre anni di sfascismo politico e processuale, la Lega non lo aveva mai lasciato solo sul fronte della giustizia. Aveva coperto ogni sua legge-vergogna, ogni sua intemperanza verbale e costituzionale. Ma con il voto su Papa, il Carroccio consuma lo strappo finale. Il Cavaliere rimane davvero solo. Il moribondo governo Berlusconi-Bossi non esiste più. Resiste solo l'inverecondo sub-governo Berlusconi-Scilipoti.

Il primo dato politico forte, che emerge dal doppio voto segreto dei due rami del Parlamento, è esattamente questo. Il Cavaliere esce a pezzi dall'ordalia di Montecitorio, dove le camicie verdi del Senatur, dopo un penoso tira e molla durato una settimana, sparano "fuoco amico" contro l'avvocato pidiellino sotto accusa nell'inchiesta sulla P4.

Sono voti pesantissimi. Contraddicono clamorosamente gli appelli lanciati a più riprese dal premier e dalla sua claque. Svelano palesemente l'ormai insostenibile cortocircuito nel quale si avvita la strategia della Lega. La fedeltà personale di Bossi nei confronti di Berlusconi non può più coesistere con l'irriducibilità politica di una base che invoca ad alta voce mani libere. Al Grande Capo della tribù padana, stanco e debilitato, non basta più il carisma sacrale e autocratico per spiegare le ragioni di un'alleanza asimmetrica, dalla quale il Carroccio incassa ormai molti più perdite che profitti.

Esiste un "fattore monetine". La Lega, e l'intera opposizione, ha fiutato il clima che si respira nel Paese, attraversato da una vena antipolitica che (come avvenne ai tempi di Craxi davanti al Raphael) non avrebbe perdonato alla "Casta" l'ennesima guarentigia. In un'Italia bastonata dalla manovra di Tremonti e indignata per i privilegi della nomenklatura che quella stessa manovra ha risparmiato, il no all'arresto di Papa sarebbe stato intollerabile. O per lo meno lo sarebbe stato per i leghisti, che ai tempi di Tangentopoli, fomentati dagli elettori secessionisti delle valli alpine, agitavano i cappi nell'aula di Montecitorio.

La Lega è dunque tornata alle origini. Ma la frattura con il Pdl su Papa è in realtà solo un'altra tappa, in un'escalation di autonomizzazione che ormai abbraccia l'intero spettro dell'azione di governo: dai rifiuti di Napoli alle missioni all'estero.

L'unico a non aver compreso la fase, e a ostinarsi a riscrivere la storia a suo abuso e consumo, è il presidente del Consiglio. Urla alla luna, gridando il suo sdegno contro il giacobinismo delle toghe e contro "l'inaccettabile deriva delle manette" dalle quali la politica si deve difendere.

La sua ossessione lo tormenta. Lo costringe alle solite nefandezze, come il rilancio dell'inaccettabile legge-bavaglio sulle intercettazioni. Lo induce alle solite menzogne. In un Paese squassato dagli scandali (che vanno dalla Struttura delta alla P4, dalla collusione con la mafia alla corruzione della Guardia di Finanza) il problema non è l'azione penale della magistratura, ma il malaffare della politica. Stigmatizzare la prima, senza vedere il secondo, è un'operazione di pura disonestà intellettuale.

Esiste una "questione morale". La si può chiamare anche in un altro modo, per non scomodare una "formula" impegnativa come quella che coniò a suo tempo Enrico Berlinguer. Ma non la si può nascondere. Lacera il centrodestra, e investe anche il centrosinistra, come dimostrano le inchieste su Pronzato, su Morichini, ora anche su Penati.

Per questo ciò che è accaduto al Senato, con il voto segreto parallelo sulla richiesta d'arresto di Alberto Tedesco, deve far riflettere. Se è vero che a votare no, nel segreto dello scranno, è stata anche una parte dei senatori del Pd (in dissenso con la linea del partito concordata sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio) allora c'è davvero poco da esultare. Il Partito democratico deve far chiarezza al suo interno. In tutti i sensi. La trasparenza dei comportamenti, sia in Parlamento che fuori, è materia non negoziabile. E comunque non trattabile con le furbizie o le geometrie variabili tra un ramo e l'altro delle due Camere.

In una prospettiva post-berlusconiana, proprio il tema delle geometrie variabili fa emergere il secondo dato politico forte, dello show-down di ieri a Montecitorio. I voti delle opposizioni, sommati a quelli in libera uscita della Lega, hanno prodotto un risultato numerico significativo: 319. Più o meno la stessa "quota" con la quale il Cavaliere governa dal 14 dicembre dell'anno scorso, cioè da quando Fini ruppe il patto e Futuro e Libertà cambiò schieramento.

È nata un'altra maggioranza? Siamo ai primi vagiti di quell'"alleanza costituzionale" che, mettendo insieme Pd, Terzo Polo e Lega, potrebbe sostenere un governo di emergenza nazionale? È difficile capire se, oltre all'ipotesi aritmetica appena dimostrata, possa reggere alla prova anche l'ipotesi politica. Ed è altrettanto difficile capire oggi quale scenario sia migliore per il prossimo autunno, tra un governo di salute pubblica e le elezioni anticipate. L'unica cosa che non può reggere, con assoluta certezza, è il governo Berlusconi-Scilipoti. L'Italia, nel mirino della speculazione internazionale, non se lo può più permettere.



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