martedì 12 aprile 2016

Regeni a Londra lavorò per un’azienda d’intelligence. - Alessandra Rizzo




È stata fondata da un ex funzionario Usa implicato nel Watergate.

La storia di Giulio Regeni porta stranamente alla porta di un vecchio scandalo, quello di Nixon. Mentre viveva in Gran Bretagna, lo studente friulano aveva lavorato per un anno presso un’azienda d’intelligence fondata da un ex funzionario americano implicato nello scandalo Watergate. Oggi, i suoi ex colleghi e amici presso la compagnia, la Oxford Analytica, sono tra i promotori di una petizione che chiede al governo britannico di fare pressione sulle autorità egiziane che indagano sulla vicenda. «Giulio era un collega fantastico, socievole, divertente. Ci manca molto», ricorda Ram Mashru, altro giovane talento che con Giulio divideva la stanza presso la Oxford Analytica. «Era estremamente cauto nel condurre il suo lavoro – aggiunge - Certo, c’è sempre la possibilità che abbia attirato l’attenzione di qualche gruppo pericoloso, ma da quanto sappiamo Giulio non si comportava in maniera avventata o negligente».  

Oxford Analytica è un ulteriore tassello nella storia di Giulio, un altro pezzo dei dieci anni trascorsi dal ricercatore di Cambridge nel Regno Unito, e potrebbe, forse, fornire qualche dettaglio per spiegare la sua morte. Il gruppo analizza tendenze politiche ed economiche su scala globale per enti privati, agenzie e ben cinquanta governi, una specie di privatizzazione di altissimo livello della raccolta di intelligence. Ha uffici, oltre che a Oxford, a New York, Washington e Parigi, e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence”, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche. 


Dal settembre 2013 al settembre 2014, Giulio ha lavorato alla produzione del “Daily Brief”, una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d’elite. E’ uno dei prodotti di punta del gruppo, modellato sui briefing che Kissinger preparava per Nixon. Già, perché la storia del fondatore di Oxford Analytica, David Young, passa anche per uno dei capitoli più sinistri della storia USA. Young era, nella Casa Bianca di Nixon, tra i dirigenti dei cosiddetti “idraulici”, il gruppo che doveva “tappare” le fughe di notizie e di cui facevano parte anche G. Gordon Liddy e Howard Hunt, entrambi finiti dietro le sbarre per il Watergate. Dopo lo scandalo, Young lasciò l’America per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali ad Oxford (leggenda vuole che la sua tesi fosse tenuta sotto chiave perché conteneva informazioni riservate), e nel 1975 fondò la Oxford Analytica. Nel cui board figurano anche John Negroponte, ex direttore della United States Intelligence Community e Sir Colin McColl, ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese. Mashru spiega che i rapporti speciali del gruppo, che tipicamente comportano da uno a sei mesi di lavoro, restano confidenziali. Certamente l’azienda sta tenendo un basso profilo. Ha mandato un messaggio in forma privata alla famiglia di Giulio, e per il resto è «no comment».  

Da Cambridge si fa vivo il professore Glen Rangwala, con cui Regeni avrebbe dovuto collaborare per un corso non appena rientrato dall’Egitto. Rangwala smentisce l’ipotesi che dall’Università qualcuno possa aver passato i report del ragazzo agli 007: «Per nessun motivo al mondo gli accademici di Cambridge diffondono le ricerche degli studenti ai servizi segreti».  

I suoi ex colleghi e amici stanno tentando un’azione pubblica, con la petizione che chiede al governo britannico di assicurare una “credibile” indagine sulla morte di Giulio La petizione ha raccolto finora circa 4,500 firme, ma ce ne vogliono dieci mila per forzare una risposta del governo. Il quale, per ora tace. “L’indagine è nelle mani delle autorità egiziane”, dicono. 

CAIRO-ROMA: COME TAGLIARSI LE PALLE E VIVERE FELICI. - Fulvio Grimaldi

alsisis

“Poi gli uomini di Stato inventeranno basse bugie e daranno la colpa alla nazione sotto attacco e tutti saranno soddisfatti di queste falsità che placano la coscienza e le ripeteranno diligentemente e rifiuteranno di prendere in considerazione qualsiasi refutazione. E così si convinceranno un po’ per volta che l’aggressione è giusta e ringrazieranno il Signore per il buon sonno di cui godono grazie a questo processo di grottesco auto-inganno.” (Mark Twain)

E così, dopo la Jugoslavia delle nostre più belle vacanze e di una speranza di non finire mangiati vivi dal Moloch finanzcapitalista e dalle sue guerre infinite; dopo l’Iraq che ci comprava le navi, che faceva lavorare alla grande la Saipem e ci forniva ottimo petrolio; dopo la Libia che ci accendeva i fornelli, le lampadine, i caloriferi, ci rendeva amica l’Africa, e salvava dalla bancarotta le nostre migliori aziende; dopo la Siria, di cui eravamo il terzo partner commerciale; dopo l’Iran per ora non ancora ricuperato al ruolo di nostro secondo fornitore di idrocarburi e primo acquirente di prodotti, ci siamo giocati anche l’Egitto insieme al quale avremmo dato scacco matto a tutti i concorrenti mediterranei ed europei. E avremmo evitato di impelagarci in una guerra in Libia.

A Parigi, Londra, Washington, Tel Aviv, Ankara, dove fino a ieri si infilavano spilli nella coppia di pupazzetti Al Sisi-Renzi e se ne bruciavano le effigi con le formule di rito, in tutti i comandi Nato, dal comandante in capo all’ultimo maresciallo di fureria, da quando si è saputo dell’esito dell’incontro inquirenti egiziani-inquirenti romani e del ritiro del nostro ambasciatore al Cairo, sono in corso baccanali a base di caviale e champagne. Il che non impedisce che si elevino inni ai Fratelli Musulmani, ai loro operativi bombaroli e alla liberazione dell’uomo nel nome della Sharìa. 
Prossime mosse: Egitto fuori dalle palle in Libia, sanzioni UE e poi ONU, rivoluzione colorata, attacco finale all’ultimo Stato nazionale arabo non normalizzato da squartare. Idrocarburi e Canale affidati a chi di dovere. Italia con i pantaloni alle caviglie e il tatuaggio “Enrico Mattei” sradicato. Tutto questo sempre che Al Sisi non si ravveda tempestivamente, si disponga prontamente a mettere in quarantena l'ENI rispetto al giacimento Zhor e non la sostituisca con la British Petroleum (BP), che del resto è già sul posto ed ha già incominciato a firmare contratti con il Cairo.

Nuova vita al Fratello Morsi

Nella sua cella, Mohamed Morsi si affaccia alle sbarre e annusa, insieme allo stimolante odor di tritolo che i suoi adepti vanno spargendo per Sinai ed Egitto, tutta un’arietta fresca e benefica in arrivo da oltremare. Un’arietta che sembra annunciargli una nuova primavera islamica, quella che aveva rallegrato il paese e i suoi sponsor regionali e intercontinentali quando il 13% di un popolo storicamente laico gli aveva consentito di applicare la sharìa a volenti e nolenti, spazzare via le sinistre laiche oppositrici, incartare le donne, bruciare le chiese cristiane e sparare sugli scioperanti. 
Fino a quando non gli arrivò tra capo e collo un day after da 20 milioni di egiziani che firmarono la sua detronazione, si strapparono il velo, mandarono a farsi fottere gli sponsor del Qatar ed euro-atlantici e decisero che un militare al governo era meglio di un fanatico baciapile islamista a cui della nazione Egitto, di faraoni, Tolomei, Nasser e riscatto socialista e antimperialista arabo non era mai fregato niente perché in testa aveva soltanto la brodaglia dell’Umma, buona per tutti, transnazionale come le corporation. Quella che i suoi padrini, un po’ con le buone, Fratelli Musulmani in jalabija, un po’ con le cattive, jihadisti in mimetica, avevano programmato come base culturale per le loro rinnovate scorrerie neocoloniali.

Ma come si permette questo Al Sisi
Per un po’ questo Abdel Fatah Al Sisi, per quanto sospetto per i suoi riferimenti a Nasser, e alla rinascita araba, i suoi giri di valzer con Putin, lo siamo stati a guardare. Vediamo che succede. Hai visto mai che ci fa rivivere i fasti del nostro vecchio bastardo Mubaraq. Intanto  se la vedesse con i Fratelli metamorfizzati in califfi e con i loro quotidiani eccidi di poliziotti e civili dal Mar Rosso alla diga di Assuan. 
Ci si può sempre mettere con chi vince, purchè bastardo nostro. Ma, presto, il generale aveva incominciato a uscire dal seminato, ad alzare un po’ troppo la testa, a far ricomparire un Egitto protagonista geostrategico in Africa e Medioriente, quanto e più dei fidati clientes del Golfo, fastidiosamente laico, attore nordafricano e mediorientale, capace di far ombra a Israele e che twittava con Teheran. E allora c’eravamo dati da fare per cosa, annientando  grossi stati arabi laici come Iraq, Libia, Siria, Yemen?  Cos’era questa fregola di raddoppiare il Canale di Suez per aumentare le entrate e affrontare la crisi economica? Quale consulente di Wall Street o dell’FMI glielo aveva detto? Come si permetteva, assieme alla solita impertinente ENI, di scoprire e sfruttare il più grande giacimento di gas del Mediterraneo? Quello che al tempo stesso toglieva il primato energetico a Israele e Turchia, con il loro di giacimenti di gas marino e con i loro barili di petrolio rubato in Iraq e Siria da curdi e Isis. 850 miliardi di metri cubi di gas che ne potevano annullare il debito e, quindi, la dipendenza da FMI e BM. Senza che né Total, né Shell, né Chevron, né Exxon glielo avessero permesso.

Toglietemi tutto, ma non la Libia!
Ma il vaso già tracimante di molte gocce se ne uscì in getto raggelante nel momento in cui l’Egitto di Al Sisi prospettò una soluzione interna, cioè inter-araba, al caos creativo provocato in Libia dagli specialisti occidentali del regime change. Con un ulteriore vantaggio per l’Italia che intravvedeva la possibilità di risparmiarsi la grottesca spedizione coloniale dei 5000 armigeri della Pinotti, disapprovata dallì’opinione pubblica, ma per la quale Renzi soffriva il fiato sul collo degli americani. 
E non solo Al Sisi la prospettò, ma si mise ad attuarla collaborando con quel governo libico di Tobruk che la “comunità internazionale” aveva fatto il madornale errore di riconoscere perché legittimato da un minimo di procedure democratiche. Oltrechè dalla sua laicità, che pur si doveva fingere di sostenere. Ma quando, con l’aiuto dell’Egitto, a dispetto della costernazione occidentale, il generale ex-gheddafiano Khalifa Haftar riuscì a cacciare gli islamisti da Bengasi, minacciava di sventare il consolidato progetto di tripartizione della Libia, di mettere in difficoltà il mercenariato Isis, fatto arrivare apposta dalla Turchia per giustificare il nuovo intervento salvifico Nato, e di esautorare del tutto la carta islamista di riserva installata a Tripoli, la misura si colmava e accadevano alcune cose.
A precipizio partirono per la Libia, forze speciali Nato. 
Messi all’angolo dall’Egitto che resta, bene o male, lo Stato più in grado di determinare i rapporti di forza nella regione, e ora di più grazie al nuovo potere energetico, i turchi accelerarono l’invio di traghetti pieni di tagliagole, gli attentati terroristici in Egitto divennero frenetici e presero a incidere pesantemente sulla seconda voce della sua economia, il turismo (pensate al volo russo abbattuto), e in Tripolitania entrarono in fibrillazione il regime islamista e le varie bande terroristiche più o meno collegate. E successe Sabratha e i quattro ostaggi italiani di cui due fatti ammazzare, due riconsegnati vivi e due corpi su cui traccheggiare per finalizzare la trattativa. Avvertimento non solo all’Italia. Tanto è vero che, da lì a poco, comparve all’orizzonte il gommone con sopra Fayez al Serraj, bottegaio promosso capo di governo  da un ONU ligia ai dettami di chi conta (Usa, Nato, Turchia, Israele, Golfo). 
Un po’ di melina lì per lì, ma poi tutto un accorrere sotto le bandiere di colui che, per conto di chi conta, avrebbe finalmente dato legittimità alla richiesta di intervento militare occidentale in Libia. Con tanti saluti ad Haftar e alla soluzione arabo-egiziana che, per una volta nei secoli, non contemplava il bastone di maresciallo in mano a un Graziani, o a un qualsiasi interferente dell’eterna banda coloniale.

Se non ci fosse stato Regeni, se lo sarebbero dovuto inventare
Ed è in questo frangente che capita l’accidente, perfettamente a fagiolo, tanto da risultare a ogni evidenza pianificato, il ragazzo Regeni. Tutti a giurare sulle sue integerrime qualità di onesto e brillante ricercatore, bravo scolaro, ottimo studente, figliolo esemplare, sodale di sindacati indipendenti. Ma ancora oggi, né una madre che si sente in diritto di accomunare, novella giudice Jackson di Norimberga, nella bruttissima sorte del figlio un po’ tutti i giovani egiziani, né le cavallette mediatiche calate sul terreno per fare piazza pulita di ogni dubbio rispetto alla colpa di Al Sisi o, quanto meno del sistema da lui pinochettianamente governato, ha scoperto nel curriculum minuto per minuto di Regeni un dato biografico, etico e politico, in controtendenza rispetto all’immagine consacrata. Trattasi dell’annata dal giovane recentemente impiegata al servizio di Oxford Analytica, la società privata di spionaggio diretta da un megaspione e un serial killer, specialisti entrambi di False Flag: l’ex-capo dell’intelligence britannica, Sir Colin McColl, e John Negroponte, inventore e gestore di squadroni della morte in Centroamerica e Iraq, uno che sulle mani ha il sangue di qualche centinaio di migliaia di innocenti ammazzati.

Multinazionale degli affari sporchi, ha uffici a Oxford, New York, Washington e Parigi e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche". Dal settembre 2013 al settembre 2014, Regeni ha lavorato alla produzione del daily brief, "una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d'elite". Il fondatore del gruppo è David Young, uno dei dirigenti degli "idraulici" finiti dietro le sbarre per il Watergate..Bella gente, insomma, integra.


Al di sopra di ogni sospetto. Tanto che, uscite queste notizie su Il Giornale e mai smentite, nessun ricercatore, indagatore, commentatore, analista, esperto, biografo di Regeni, se ne è mai interessato. Che rilievo potrebbe mai avere il fatto che il ragazzo fatto ammazzare dall’immondo regime egiziano sia stato collaboratore di un’agenzia di spionaggio, abbia scritto spiate a vantaggio di “clienti d’élite”, agli ordini e su mandato di un serialkiller amerikano, di un ex-capo spione di Sua Maestà e di un delinquente condannato per il complotto del Watergate?

Sono settimane che ci stressano a reti e destre e pseudo sinistre unificate sul povero ragazzo trucidato dagli infami del Cairo. Perorazioni, anatemi, invenzioni fantasmagoriche di dati e fatti, illazioni gonfiate a certezze ontologiche, latrati per chiedere giustizia e che trasudano una protervia razzista da far invidia agli Uebermenschen nazisti o sionisti. Al  confronto l’accanimento sugli assassini di Calipari, punito per aver liberato la Sgrena ma, soprattutto, per aver scoperto chi davvero in Iraq rapiva giornalisti scomodi, o quello sui trogloditi che si divertivano sul Cermis a trinciare cavi di funivia e fare stragi, o quello sulle punizioni da infliggere - e sulle oscene grazie napolitanesche e mattarelliane concesse - ai rapitori Cia di Abu Omar, è stata un timido sussurro, un discretoflautus vocis. Vi torna la simmetria? E’ che, una volta, dall’altra parte c’era un Al Sisi qualsiasi, un parvenu del Terzo mondo che si permette di pretendere trattamenti alla pari; l’altra volta invece, il padrone. Il quale detta la musica in entrambi i casi.

Taffazzi, eroe nazionale

Presuntuosi come solo i cretini, noi che abbiamo alle spalle una palude in cui sono scomparsi più misteri di quanti siano potuti accadere in Egitto da Cleopatra in qua, dall’Egitto pretendiamo che ci fornisca un colpevole certo e inconfutabile. Che in ogni caso deve portare ad Al Sisi. Presuntuosi e cretini, sorvoliamo su un elemento logico che è tanto granitico quanto è di carta velina l’ossimoro congettura certa, o probabile certezza, nel quale si pavoneggiano i nostri inquirenti da strapazzo. Logica paradossale di un regime che rapisce, tortura e fa fuori un soggetto sgradito, in grado di compromettere non solo i rapporti con un grosso partner politico e commerciale, ma addirittura di minare le basi dello Stato, e poi lo fa ritrovare nel fosso in modo che stormi di beccamorti mediatici se ne cibino e poi defechino sul governo. Sarebbe un regime più imbecille e taffazziano di quello romano che dai Fratelli Musulmani e loro mandanti (magari londinesi) si è fatto fregare un bottino economico che gli avrebbe permesso di rinunciare, alla faccia di Bruxelles, a ogni flessibilità di bilancio.

Entra in campo il rivoluzionario civile. Nientemeno
Riflessione che potrebbe spuntare anche tra i neuroni di un Antonio Ingroia, non fosse che quei neuroni sono annegati in un vortice di livore come dal bravo PM della trattativa Stato-Mafia non ci si sarebbe aspettato. Con ben tre interventi sul FQ, di una virulenza da tifoso atalantino e di un nonsense giuridico che hanno sconcertato perfino colleghi magistrati come Spataro e Tinti, Ingroia ha cercato di risorgere come araba fenice dalla polvere del suo insano progetto politico, rampognando l’universo mondo per non aver ancora fatto a pezzi Al Sisi. 
Dimentico anche solo della prima lezione di giurisprudenza, ha ipotizzato che inquirenti italiani vadano, loro, a condurre l’inchiesta  in Egitto, sbattendosene della sovranità altrui e, in mancanza, che ci pensassero le Nazioni Unite (magari spedendo i caschi blu?), o il Tribunale Penale dell’Aja. Già, proprio quello del famigerato procuratore Ocampo che, in tutto il suo mandato, ha mandato sotto processo solo imputati di pelle scura, sorvolando sui Blair, Bush, segretari Nato vari, golpisti nazisti e compagnia del genere. Al tempo della creatura ingroiana affetta da nanismo, “Rivoluzione civile”, m’era scappato qualche dubbio sulla sincerità del progetto, che non sembrava puntare ad altro che a sgambettare la corsa in avanti dei 5 Stelle. Ora le cannonate ad Al Sisi, completamente prive di razionalità giuridica, o sono lo sfogo nevrotico di uno che ha sbroccato, o sono peggio.

Agli inquirenti egiziani hanno rimproverato di non aver portato sufficienti tabulati, video, celle telefoniche. Chissà se costoro abbiano fatto presente ai loro colleghi romani di essere ancora in attesa di esaminare l’elemento principale di tutta l’inchiesta: il computer di Regeni. Computer che i suoi famigliari hanno sottratto agli inquirenti legittimi  portandoselo via dall’abitazione del ragazzo al Cairo. Ma, guardate, qui è tutto un gioco degli specchi, un ciurlare nel manico, la recita di un copione scritto dal solito regista. Per i nostri inquirenti, per la muta di ululanti che gli sta alle calcagna, per la lobby sion-atlantica-Fratellanza Musulmana, gli egiziani sarebbero stati credibili solo se avessero portato la foto di Al Sisi che strappa le unghie a Regeni. 


Ronzino di razza, il manifesto
Il “manifesto”, per fortuna sempre più irrilevante e umoristicamente tenuto in vita dalla combinazione tra il titoletto “quotidiano comunista” e i paginoni pubblicitari dell’ENI (in simultanea con le scelleratezze ENI in Basilicata), ENEL, Telecom e altri malfattori seriali e magari anche dai ripetuti soffietti a Mario Draghi e dalla coltivazione di mortaretti di distrazione di massa come SEL o Tsipras, è il ronzino che tira la carretta degli attrezzi. Agli incendiari delle guerre di spartizione degli Stati nazionali fornisce la benzina dei diritti umani, in ispecie GLBT, il supporto alla satanizzazione di ogni leader indigeribile per l’Occidente e l’avallo a ogni False Flag, anche la più sbrindellata. 
Spiace constatare come un Michele Giorgio, puntuale e inconfutabile su ogni cosa israelo-palestiniese, appena supera, anche solo con lo sguardo, i confini del suo campo, la faccia abbondantemente fuori dal vaso. Succede con l’Egitto, come era successo con la Libia. Obnubilazione da diritto-umanesimo alla Kipling.

Pensate che, nei suoi inserti di spocchia culturale a guida lobby, il quotidiano cripto-Nato è stato capace di inneggiare a Charlie Hebdo prendendo a pretesto una raccapricciante mostra delle peggiori copertine di questa pubblicazione-bazooka del nazi-sion-imperialismo, punta di lancia pseudo-satirica e autenticamente necrofaga dello “scontro di civiltà”.

Dove la ributtante rivista rappresenta il culto della prima parte della definizione e la negazione della seconda. La mostra è accompagnata da un libro-spot con introduzione, indovinate di chi? Ma di Erri De Luca, di chi sennò? Lo stesso De Luca che avevamo visto dare l’imprimatur ai manifestanti detti pro-Regeni, pretoriani a chiacchiere dello scontro di civiltà. I recensori della turpe impresa hanno avuto il coraggio di mettere sullo stesso piano della “satira anti-oscurantista” le penne-killer di Charlie Hebdo e Momos, la dea greca dello scherno e della satira, amica di Dionisio. Come paragonare una vedova nera a un uccello del paradiso.
Mentre le orde di unni mediatici si scaraventavano sull’Egitto di Al Sisi, per le pessime ragioni di cui sopra, inanellando nefandezza immaginaria e speculativa a nefandezza,  un silenzio complice sta avvolgendo nell’oblìo la più terrificante ondata di terrorismo che un paese non in guerra abbia conosciuto.

Quanto il mercenariato imperiale combina sporadicamente in Occidente, ultimamente in Francia e in Belgio, è robetta rispetto agli ininterrotti massacri con cui i Fratelli musulmani, travestiti da Isis e affini, uccidono migliaia di cittadini e, insieme, la sicurezza economica di 80 milioni di cittadini. Un armageddon di cui si tace.

Anzi, delle misure di contrasto e repressione che il governo è costretto a prendere in difesa della società, contro questo terrorismo senza precedenti e senza confronti, si nega la causa e le si attribuiscono a una presunta guerra del regime alla propria popolazione.

Se è vero, come è vero, che Isis e Al Qaida sono le forze armate di un imperialismo che non vuole scendere in campo in prima persona, oppure che deve presentare all’opinione pubblica una ragione per giustificare la sua discesa in campo in prima persona, è altrettanto vero che a pieno titolo sono Isis e Al Qaida anche coloro che producono un’informazione come quella che si sta occupando dell’Egitto. Consapevoli o inconsapevoli, sono terroristi quanto quelli.


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16432

lunedì 11 aprile 2016

Referendum trivelle, il presidente della Consulta: “Bisogna andare a votare. Solo così si è buoni cittadini”.

Referendum trivelle, il presidente della Consulta: “Bisogna andare a votare. Solo così si è buoni cittadini”

Grossi, che guida la Corte costituzionale, a favore della partecipazione alla consultazione del 17 aprile: "Partecipare significa essere buoni cittadini, poi ognuno è libero di farlo nel modo in cui ritiene giusto". Il ministro dell'Ambiente Galletti: "Andrò e voterò no". Ginefra Pd: "Anche Mattarella faccia un appello per la partecipazione". Grillo: "Scegliere il sì sulla fiducia".

A votare bisogna andare sempre, anche ai referendum il cui esito è deciso dal quorum. Partecipare alle consultazioni, recarsi alle urne “significa essere pienamente cittadini, fa parte della carta d’identità del buon cittadino“. E’ una sintesi di una lezione di democrazia l’intervento del presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi a sei giorni dal referendum sulle trivelle del 17 aprileSecondo Grossi, giurista fiorentino nominato da Giorgio Napolitano, alla consultazione “si deve votare: ogni cittadino è libero di farlo nel modo in cui ritiene giusto. Ma credo si debba partecipare al voto”. Tutto questo mentre il Partito democratico ha dato l’indicazione di astenersi dal voto, vari componenti di governo hanno invocato l’astensione e lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato di “posizione sacrosanta e legittima”. “Non riconoscerlo – aveva aggiunto una settimana fa il capo del governo – è sbagliato e profondamente ingiusto.
Galletti: “Andrò a votare e voterò no”
E ora la polemica politica sulla partecipazione al voto continua perché ancora oggi, a inizio giornata, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti (componente di governo in quota Udc e titolare della delega che si trova al centro di questo referendum) non aveva ancora sciolto la riserva tra il non voto e il “no” parlando di referendum “strumentale”. Poi Galletti ha cambiato idea: “Andrò a votare e sosterrò le buone ragioni del No” ha detto. “Ho sempre ritenuto tutte pienamente legittime le posizioni in campo nel referendum sulle trivellazioni, compresa quella di chi sceglierà l’astensione puntando al mancato raggiungimento del quorum. Poiché da più parti mi viene chiesto cosa farò domenica, la mia risposta è che andrò a votare e sosterrò le buone ragioni del No”. In precedenza Galletti aveva spiegato che la consultazione è su “un argomento molto limitato”.
Ginefra (Pd): “Anche Mattarella faccia appello”
Da qui era partito l’attacco di alcuni parlamentari del Pd, come il pugliese Dario Ginefra: “Ho sempre trovato le posizioni del ministro Galletti sui generis ed estranee a quella che dovrebbe essere la condotta di un ministro dell’Ambiente, ma sul Referendum di domenica prossima credo abbia toccato il fondo. Affermare che ‘il referendum è su un argomento molto limitato’ è come dire che se ci fosse in Italia una sola centrale nucleare operativa, lui riterrebbe un eventuale referendum abrogativo del nucleare superfluo e strumentale”. In un’intervista alla Stampauscita oggi il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano era tornato sulla scelta di Renzi: “Mi provoca un grande dolore. Lo stesso governo che nella riforma costituzionale ha abbassato il quorum sul referendum fa campagna per far mancare il quorum”. E Ginefra “chiama” da lontano il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Ora mi aspetto che anche il presidente Mattarella non faccia venir meno il suo appello al voto”.
Grillo: “Votare sì sulla fiducia”
Invita a votare sì “sulla fiducia” il leader del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo: “Siamo all’assurdo, non si capisce nulla. L’unica cosa è andare a votare sì sulla fiducia, senza neanche sapere”. “Oggi – continua – o guardi in faccia una persona e ti fidi o nulla, perché in campagna elettorale diciamo tutti le stesse cose” ma i Cinquestelle sono “un’altra cosa, il vero cambiamento anche se la questione dell’energia è culturale, dobbiamo chiederci che tipo di società vogliamo”. Grillo invia anche un messaggio al Quirinale. Mattarella, dice, “sull’energia dovrebbe prendere una posizione“. “Bisogna che ogni tanto prenda una posizione. Sull’energia è una questione di civiltà e quindi dovrebbe prendere una posizione. E sicuramente lo farà”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/11/referendum-trivelle-il-presidente-della-consulta-bisogna-andare-a-votare/2625553/

Che gran persona il presidente della Consulta Grossi, è rincuorante sapere che ci sono persone come lui.

domenica 10 aprile 2016

Inchiesta petrolio, Gemelli intercettato. "Quelli della Total ce li abbiamo". - Nini Femiani



Il compagno della Guidi esultava al telefono dopo il convegno con ministri e petrolieri. Al via gli interrogatori. 
Napoli, 4 aprile 2016 - PER L’INTERA mattinata fa capolino solo qualche carabiniere del Noe che entra ed esce dal palazzo di via Nazario Sauro. L’attesa si spezza dopo le dichiarazioni del premier Renzi rimbalzate dal programma In mezz’ora: negli uffici della procura si accende qualche luce e trapela una dichiarazione: «I pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Potenza non pensavano di ascoltare il presidente del Consiglio». Perciò, saranno solo il ministro Maria Elena Boschi e l’ex titolare del Mise, Federica Guidi, a essere ascoltate domani o mercoledì durante la trasferta dei pm lucani. Entrambe non indagate, saranno sentite come persone informate sui fatti.
Alla GUIDI, in particolare, sarà chiesto di spiegare il senso di alcune intercettazioni. Non solo quella, ormai nota, dell’emendamento alla legge di Stabilità 2015 e del perché lo abbia annunciato in anteprima al convivente, Gianluca Gemelli. Si parlerà anche di un convegno, l’11 novembre a Roma, della Fondazione ItalianiEuropei, al quale la titolare del Mise partecipò con il ministro dell’Ambiente Galletti e con i vertici della Total. Come sia andato quell’incontro per la Total, lo spiega Gemelli al suo socio Salvatore Lantieri qualche giorno dopo: «...C’erano questi qua di Total...sì, minchia...sì, lui... lui, quello del capo delle relazioni esterne... minchia compare... ringraziamenti, alliccamenti che non ti dico... quelli che li abbiamo...ce li abbiamo...».
In quei giorni sembra essere scoppiato un feeling tra il Mise e i petrolieri francesi, tanto che il dirigente Total Giuseppe Cobianchi riferisce a Gemelli: «A parte la Basilicata, lei sa che c’è una parte importante del progetto che si sviluppa a Taranto... e lì la situazione è anche abbastanza complessa diciamo, quindi stiamo cercando...vediamo, speriamo bene...so che anche a livello centrale con i ministeri, insomma i colleghi di Roma hanno contatti continui, frequenti, quindi mi auguro che quello che viene dichiarato a livello governativo possa trovare applicazione insomma...». Con chi avvengono queste «frequentazioni»? Chiederanno i pm alla Guidi. Chi garantiva le coperture politiche al «livello centrale» che tratta con Total?
DEFINITO, per il momento, il versante politico, l’inchiesta si allarga e si stratifica in più filoni. Oggi, intanto, scattano gli interrogatori di garanzia per i sei arrestati ai domiciliari (cinque dipendenti Eni più l’ex sindaco Pd di Corleto Perticara) mentre i magistrati dell’accusa sono intenzionati a presentare appello contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gianluca Gemelli, compagno di Federica Guidi, indagato con l’accusa di corruzione e traffico di influenze per la vicenda dell’affidamento di appalti e consulenze nel giacimento Total di ‘Tempa Rossa’.
Oltre ai filoni già aperti con gli arresti – quello dei conferimenti di rifiuti «taroccati» e illeciti da parte dell’Eni di Viaggiano e quelli del traffico di influenze e della corruzione per il giacimento Total di ‘Tempa Rossa’ – c’è un nuovo versante che si sta spalancando, agitando lo spettro del disastro ambientale. Saranno effettuate dai carabinieri dei Noe diffuse indagini epidemiologiche in diverse zone lucane per capire se l’immissione di rifiuti non trattati nelle cavità geologiche o nell’atmosfera abbia creato problemi alla salute.
COLLATERALE, sebbene lontano dalla Lucania, è infine la tranche che interessa l’attività dell’autorità portuale di Augusta, in Sicilia, centro di azione di diverse compagnie petrolifere. In tal caso l’indagato «eccellente» è il capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi.

Gemelli, le intercettazioni: "Borsellino andrebbe eliminata" - Emanuele Lauria e Marco Mensurati

Gemelli, le intercettazioni: "Borsellino andrebbe eliminata"

La frase riportata in un rapporto della Questura di Potenza, in una conversazione con Alberto Cozzo. La figlia del giudice ucciso dalla mafia: "Meschinità"

ROMA. "La Borsellino, gli altri come lei, andrebbero eliminati ". Così parla Gianluca Gemelli, l'imprenditore di Augusta accusato di aver sfruttato la sua relazione con l'ex ministro Federica Guidi per ottenere vantaggi nei propri affari. È il 5 maggio del 2015 e Gemelli è al telefono con Alberto Cozzo, commissario dell'autorità portuale di Augusta. Cozzo è preoccupato per un'interrogazione parlamentare di Claudio Fava, esponente di Sinistra italiana e vicepresidente della commissione Antimafia, sull'attività dell'Authority. Teme che quell'atto possa minacciarne la riconferma in una carica in scadenza.

I due, secondo gli investigatori, hanno un obiettivo comune: quello di mantenere un assetto, al vertice dell'ente, che possa consentire a Gemelli di perseguire i propri interessi in uno dei porti industriali più grandi del Mediterraneo. Quell'atto parlamentare di Fava è indigesto, anche perché Cozzo sottolinea che i fatti denunciati - un appalto sospetto - risalgono a un periodo precedente al suo insediamento.

Quando Gemelli domanda a quale corrente appartenesse Fava, figlio di un giornalista ucciso da Cosa nostra, Cozzo risponde: "Fava è amico della Chinnici, sono tutti questi dell'Antimafia, il giro quello è...". E Gemelli, non sapendo di essere intercettato, aggiunge: "Ah minchia, l'Antimafia praticamente, perché questi qua... guarda quelli che utilizzano i cognomi dei martiri per fare carriera, fanno ancora più schifo degli altri... lei, la Borsellino, questa è gente che proprio andrebbe eliminata... però dicono sono bravissime persone... e va bè, se lo dite voi...".

"Andrebbe eliminata", dice proprio così Gemelli, riferendosi a Lucia Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino (ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992) ed ex assessore regionale alla Salute nell'Isola. Una frase, quella riportata in un rapporto della Questura di Potenza, che conferma come la Borsellino non fosse particolarmente amata dalle lobby siciliane. Ma che rimarca, in particolare, l'insofferenza di Gemelli e della sua combriccola nei confronti dei parenti delle vittime di mafia che fanno politica. Un'insofferenza espressa con parole agghiaccianti. La Borsellino replica seccamente: "Non intendo commentare queste meschinità - afferma la figlia del giudice assassinato - non competendo a me valutare le motivazioni per cui accadono. Io lavoro con i valori che mi appartengono. Se ciò dà fastidio io e la mia famiglia ce ne faremo una ragione".

giovedì 7 aprile 2016

LE MERAVIGLIOSE CASCATE DEL MULINO DOVE RILASSARSI A COSTO ZERO. - Dominella Trunfio

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Le Cascate del Mulino di Saturnia sono uno dei luoghi più belli della Maremma toscana, un piccolo regno creatosi grazie alle acque sulfuree termali, che hanno scavato naturalmente la roccia di travertino.
Le Cascate del Mulino di Saturnia sembrano delle piccole piscine che si riempiono continuamente, sono aperte tutto il giorno e anche di notte (anche in inverno) e sono completamente gratuite.
Lontano dallo stress e dal rumore cittadino, alle Cascate del Mulino è possibile immergersi completamente nella natura ma non solo. Oltre a godere di uno spettacolo mozzafiato, le terme libere sono un toccasana per la salute, poiché le acque solfuree che escono dalla sorgente naturale a una temperatura di 37 gradi centigradi, hanno molteplici benefici sugli apparati respiratorio, articolare e circolatorio. Anche a livello dermatologico svolgono una funzione antiossidante e di esfoliante naturale.
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Durante tutto l’anno, le vasche sono piene di visitatori, soprattutto nei weekend primaverili poiché quella di Saturnia è una delle località termali più famose al mondo
Viste da lontano, le Cascate del mulino di Saturnia sembrano un dipinto, il nome è legato a una leggenda. Si narra che le fonti termali siano nate a seguito di un fulmine lanciato da Giove, adirato contro il padre Saturno.
Secondo la mitologia greco-romano, infatti, Saturno tiranno detronizzato dall’Olimpo dal suo stesso figlio, aveva vagato per tutta la penisola prima di fermarsi nella Maremma. E proprio qui Giove aveva scagliato la sua ira contro il padre.
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Petrolio Basilicata, gip: “Malori per fughe di gas, Eni li taceva per evitare il blocco”. - Thomas Mackinson

Petrolio Basilicata, gip: “Malori per fughe di gas, Eni li taceva per evitare il blocco”

"Non riuscivo a respirare, mi girava la testa e avvertivo una sensazione di nausea e smarrimento". E' una delle testimonianze agli atti dell'inchiesta della Procura di Potenza sull'impianto di Viggiano. Secondo l'accusa, però, i funzionari indagati non aprivano neppure le procedure d'infortunio sul lavoro per evitare allarmi. La telefonata: "La moral suasion non ha funzionato, il dipendente ha aperto la pratica".


“Sono stata investita da un forte odore di gas, non riuscivo a respirare, mi girava la testa e avvertivo una sensazione di nausea e smarrimento”. Durante la corsa verso il 118 la signora Franca vomitava e respirava a fatica. Un’altra lavoratrice viene soccorsa, messa sotto flebo e con maschera d’ossigeno, sempre per una fuga di acido solfidrico. Ne avrà per diversi giorni ma per i responsabili del Centro Oli di Viggiano indagati dalla Procura di Potenza erano solo malori occasionali, tanto che nessuna procedura per infortunio veniva aperta. “L’atteggiamento che il management Eni ha dimostrato in dette occasioni – scrive il gip – era orientato a una preordinata e accanita pervicacia nel nascondere la reale entità del problema ambientale e i rischi connessi alla salute dei lavoratori”.
E’ partita anche da qui, dal cuore dello stabilimento Cova di Viggiano e a indagini ancora aperte, la pista che porta ora i magistrati ad acquisire le cartelle cliniche della popolazione in tutta la Basilicata, con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti. L’intento è verificare con dati clinici quanto fossero dannose per la salute le reiezioni nei pozzi dei liquami tossici smaltiti come acque di produzione e le emissioni in eccesso alle prescrizioni di legge che venivano sistematicamente nascoste. In particolare quelle di anidride solforosa (H2S), sostanza tossica ad ampio spettro, che viene prodotta nel processo di estrazione e raffinazione del petrolio tramite combustione.
Un veleno insidioso, annotano i magistrati: concentrazioni modeste vengono avvertite dalla popolazione sotto forma di odore di uova marce e possono causare problemi neurologici, debolezza, svenimenti. Ad alte concentrazioni può essere anche letale ma non viene avvertito, perché le particelle paralizzano il senso dell’olfatto. La H2S entra nel corpo per inalazione, attraverso il cibo e l’acqua contaminati, attraverso la pelle provocando infiammazioni alla cornea, congiuntiviti, tosse. I processi di cicatrizzazione della pelle si rallentano, le dermatiti non passano. Le concentrazioni più alte possono portare alla perdita di coscienza e alla morte.
Ecco il senso di quello che vanno cercando i magistrati: la conferma dell’ipotesi di disastro ambientale con quelle più gravi legate alla compromissione della salute. Alcuni elementi, per la verità, sono stati già acquisiti e hanno messo in luce ancora una volta la spregiudicatezza dell’atteggiamento dei dirigenti dell’impianto Eni. I magistrati di Potenza ricostruiscono quattro episodi in cui altrettanti lavoratori del Centro Oli, nel 2014 e dunque in piena fase di indagine, si sentono male proprio a causa delle fuoriuscite di H2S dallo stabilimento lucano. Anche se la compagnia insiste la “qualità dell’aria ottima” e certificata.
I pm mettono in risalto un dato sconcertante, poi ripreso dal gip nell’ordinanza: in caso di malore del personale che prestava opera negli impianti i dirigenti si spendevano molto perché fossero ben seguiti, ma non per le loro condizioni di salute: “Nell’ambito degli incidenti legati all’inalazione di ammina o H2S”, scrivono i magistrati “si è appurato come l’unico intento degli indagati fosse quello di celare la causa del malore di cui erano stati vittima i lavoratori, evitando addirittura di aprire la procedura per infortunio sul lavoro”. Il ricatto, manco a dirlo, era il lavoro. “La moral suasion non ha funzionato. Il lavoratore ha aperto l’infortunio”, si legge nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta tra i titolari di una ditta di manutenzione e i responsabili del settore “salute e sicurezza” dell’Eni. Poi il referente della ditta, per compiacere i vertici di Eni, non procederà ad aprire la pratica, “consapevole che i vertici non gradiscono veder aumentare le statistiche degli infortuni all’interno dei loro impianti”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/07/petrolio-basilicata-pm-malori-per-fughe-di-gas-eni-li-taceva-per-evitare-il-blocco/2609773/

Io intravedo tutte le motivazioni necessarie per formulare un'accusa di crimini contro l'umanità nei confronti dei responsabili dei disastri ambientali e delle relative conseguenze dagli stessi derivanti, tra le quali l'aumento delle mortalità per tumori.

Dietro i “Banana Pampers” si vede troppo Soros. - Maurizio Blondet



Di rivelazioni e scandali ne avremo per mesi, vista la mole dei dati trafugati.  Intanto, uno degli effetti dei Panama Papers  – e probabilmente degli scopi per cui sono stati diffusi – lo ha  definito benissimo l’ottimo blogger Nuke the Wales:  è parte della “guerra che gli americani attraverso i loro servizi segreti e l’influenza su alcuni organismi sovranazionali chiave (Ocse) hanno fatto contro i così detti “paradisi fiscali”  altrui;  una battaglia altamente morale – come sempre – che libera dai concorrenti i paradisi fiscali che stanno impetuosamente crescendo in Usa.  “Gli stati americani del Delaware, Wyoming e Nevada sono da decenni all’opera come paradisi nel segreto on-shore, si sono specializzati nella creazione di società di comodo per chiunque desidera nascondere i beni d’oltremare.”



Venite qui  a riciclare!
Il Delaware ha attuato leggi che lo rendono la miglior giurisdizione per la formazione di società. Offre la migliore protezione per chi non vuole rivelare la propria identità come beneficiario di una società e promuove elevati livelli di segreto bancario: non rivela i dettagli sui conti societari. Consente inoltre alle aziende di ri-domiciliarsi entro i propri confini, infatti questo stato ospita circa il 50% delle imprese quotate degli USA.
“Lo scorso settembre 2015, Andrew Penney (amministratore delegato di Rothschild Wealth Management & Trust, con sede a Londra, e con filiali a Milano, Zurigo e Hong Kong, gestisce circa 23 miliardi $ per 7.000 clienti) ha tenuto una conferenza in cui spiegava come si può evitare di pagare le tasse e come può aiutare i clienti a spostare le loro fortune negli USA, tenendo tutto nascosto ai rispettivi governi di provenienza”.



Dal blog di Nuke the Wales
L’altro vistoso tentativo dell’operazione, sporcare la reputazione di Vladimir Putin, condotta con immenso zelo dai media non solo anglo-americani, sembra abbia fatto relativamente cilecca. Qui   la valutazione è di Limes, non particolarmente filo-Putin:  “Putin ha due miliardi di dollari a Panama, dicevano i primi lanci d’agenzia. Qualche ora dopo erano “ambienti riconducibili a Putin” ad averli. Poi sono i suoi amici e conoscenti. Non lui o suo figlio, o suo padre o suo cognato. (…) Questa perenne necessità di dimostrare che Putin è il coacervo di ogni vizio e colpa dice molto dell’insicurezza delle nostre ragioni più che delle fragilità (pur notevoli) del suo regime”.

Il Cremlino ha risposto (sui media niente)

Come ha spiegato l’addetto stampa di Putin, Dmitri Peskov, era già da qualche giorno che riceveva da giornalisti esteri “richieste untuosamente gentili, in forma di domande  sul presidente personalmente, oltre a tentativi di contattare la sua famiglia, di parlare dei suoi amici d’infanzia, di affari –  Kovalchuk, Rotenberg [due uomini d’affari già colpiti da sanzioni americane, il primo  detto ‘il banchiere personale di Putin, ndr.] di certe ditte offshore  con gente d’affari che Putin non ha mai visto.  Tutto questo è molto ripetitivo, con variazioni a cui seguiva un’altra ripetizione”.

Lo ICIJ, il gigantesco Consorzio Internazionale di Giornalisti Investigativi che ha messo a punto il colossale trafugamento di dati panamensi, già nel 2013 aveva cercato di coinvolgere la moglie del vice-primo ministro, Igor Shuvalov, insieme con il milionario Gennady Timchenko in una storia  di conti segreti alle Isole Vergini Britanniche. Nel 2015,  lo ICIJ ha ‘rivelato’ che il suddetto Timchenko era caduto sotto sanzioni Usa in quanto cliente della banca HSBC, multata dalle autorità americane.  Adesso, ha aggiunto Peskov,   simultaneamente all’azione dello ICIJ, “una nota agenzia di stama internazionale sta preparando una pubblicazione basata su  certe asserzioni dello Organized Crime and Corruption Reporting Project, che sono rimasticature di rapporti di Putin con uomini d’affari, di  uomini d’affari che ottengono da lui contratti pubblici, di uomini d’affari che si arricchiscono a spese di Putin…”. La nota agenzia ha presentato una lista di domande a cui chiede a Putin di rispondere. 
Domande, Peskov ha esemplificato, del tipo: “E’  vero che il suo patrimonio ammonta a 40 miliardi di dollari? Che possiede queste villone o quei mega-yachts?  Dicono inoltre che Putin mantiene un intimo rapporto con Sergei Roldugin (il violoncellista, che è anche azionista della banca Russia),  rapporto che consisterebbe  in una frode presidenziale. Domande che insinuano che Putin è associato in qualche modo agli affari o a certe aziende –   Continuiamo a ripetere no, no, no. Adesso il Kremlino non risponde più.  Ci son modi legali per difendere la dignità e l’onore del presidente”.

Spunta la Open Society Foundation

Abbiamo visto che Peskov cita lo Organized Crime and Corruption Reporting Project;  altro nome con cui si presenta il superconsorzio di “indipendenti” giornalisti anti-corruzione, ICIJ.  Il quale a sua volta è una emanazione di una ONG denominata  Non-Governmental Organization Center for Public Integrity; una grossa entità “non-profit”,  quella che paga i giornalisti dediti alle opere di moralizzazione, ed è finanziata dalle solite fondazioni di celebri miliardari americani, alcune delle quali note per essere succursali della Cia  e/o  del Partito Democratico: Ford Foundation, Rockefeller Foundation, Carnegie Endowment, e un’altra mezza dozzina di meno note. Ma soprattutto dalla Open Society Foundation   le celebre fondazione  di Georges Soros, e dalla Sunlight Foundation, che è sempre di Soros.



Chi aiuta il Consortium? Anche lo USAID

Infatti, come hanno rilevato i russi  spulciando i loro archivi, questo ICIJ si è illustrato  nel 1996 per una campagna demolitrice contro il giornalista (paleo)conservatore Patrick Buchanan,  fortemente anti-neocon,   che s’era candidato alle elezioni presidenziali, e che Soros odiava  e riuscì infine a costringere al ritiro.  Il Consorzio è stato anche l’arma di punta nella  quasi decennale offensiva di Soros contro 
i fratelli Koch, miliardari ebrei come lui ma non “liberal”; in questa battaglia senza esclusione di colpi (passata alla storia come Luxembourg Papers) i giornalisti morali di Soros sono stati anche condannati per distorsione dei fatti ed altre violazioni del diritto. Similmente, a  gennaio del 2015, quando Soros cominciò la sua speculazione contro il franco svizzero,   i suoi “giornalisti indipendenti” si lanciarono in una inchiesta sul tema: “Come le banche svizzere riciclano il denaro sporco”. Un bell’ausilio all’attacco speculativo, che forzò la Banca Centrale elvetica a sganciare il franco dall’euro, rivalutandolo rovinosamente (scommettiamo che Soros era long sul Franco? )
Una volta intravisto lo zampino di Soros, i  bersagli dei Panama Papers – o Banana Pampers, come già li descrive qualcuno – si spiegano. Per esempio, all’inizio nessun nome americano, e poi – date le domande nate nei media- ah sì, sono 441 , ma nessun politico.  Per la Francia, grande campagna mediatica il maggiordomo di Jean Marie Le Pen, il tesoro del Front National.  Niente invece sulle “600 ditte israeliane e i circa 850 azionisti israeliani elencati come detentori di  conti offshore, fra cui la Banca Leumi e la Banca Hapoalim” (le più grosse di Sion), su cui il fisco israeliano ha aperto un’indagine.

Il modus operandi

I dati vengono selezionati. Lo ha ammesso Le Monde, che fa’ parte del Consorzio (stranamente né il New York Times né il Wall Street Journal sono della partita: strano davvero, una frattura in quel mondo).  In un articolo dal titolo: “Perché le Monde non pubblica integralmente i dati dei Panama Papers” spiega: “2600 gigaottetti di dati personali inclusi nel database non saranno mai pubblicati, perché contengono “dati privatissimi”; come indirizzi, fotocopie di passaporti corrispondenze private, bollette della luce”. E oltretutto, “il fatto di  possedere una società offshore non è in sé illegale”: bontà sua,  l’organo ufficioso del Grand Orient riconosce che la globalizzazione consiste appunto nella “libera circolazione” dei capitali.
Verranno pubblicati invece i dati delle “215 mila strutture offshore”, ossia le 215000  società, “con per ciascuna la data di creazione, di scioglimento, l’identità degli azionisti dichiarati”.
Verranno pubblicate “a maggio dallo ICIJ”.
Attenzione a questa frasetta: Le Monde ammette di non avere in mano i dati  con cui, per esempio, ha accusato il maggiordomo (sic) di Le Pen di avere un conto alla Mossack-Fonseca, per conto del padrone.  Il giornale francese dipende dallo ICIJ, che  li compulsa, seleziona, e li pubblicherà “a maggio”. Quanto all’identità degli azionisti dichiarati, è un dettaglio divertente: gli azionisti dichiarati sono dei prestanome,  come è ovvio  in questo tipo di società.  Dunque la soffiata sul maggiordomo del F N  gli è stata soffiata, e il giornale  l’’ha strombazzata senza aver visto la documentazione. Sicuro che poi  “i dati” che saranno diffusi “a maggio” confermeranno l’accusa?
Cosa valgono le accuse di Le Monde, senza i documenti? La risposta dell’organo del Grand Orient è molto significativa: “Per noi è importante condurre l’inchiesta (…) e interrogare le personalità messe in causa in modo da dar loro l’occasione di spiegarsi”
Capito? E’ esattamente la stessa tattica  descritta da Peskov: i giornalisti stranieri arrivano e melliflui “interrogano” Putin “per dargli l’occasione di spiegarsi: è vero che lei possiede 40 miliardi? Che è suo quel  certo  mega-yacht?”.
Le Monde farà lo stesso. E’ un genere di domande esemplificato da questa: “Da quanto tempo lei ha smesso di picchiare sua moglie?”.  Quando il poveretto nega: “Mai ho picchiato mia moglie!”, i giornali hanno il titolo già fatto: “Il politico X: non ho mai picchiato mia moglie”. L’articolo spiega: sì, effettivamente ha smesso, o così dice.
E la reputazione della vittima è rovinata.  Sono tecniche che noi giornalisti conosciamo bene.
Oltretutto,  visto che lo ICIJ e i suoi associati le usano con tanta dovizia, viene un sospetto: che  non abbiano in mano quasi nulla  di concreto. Il che è logico:  hanno i nomi di persone, che non sono che dei prestanome. E la Mossack-Fonseca   s’è rifiutata di validare i documenti, perché le sono stati sottratti con la frode.
Per esempio, stringi stringi, i soli nomi russi che hanno in mano sono due (dicesi 2): il celebre violoncellista Sergei Roldughin, e il miliardario ebreo Arkadi Rotenberg. Che – dicono – sono “intimi di Putin”,  quindi….Diamo a Putin l’occasione di spiegarsi.  Diamo alla Famiglia Le Pen l’occasione di spiegarsi. Mica li accusiamo (non avendo le prove  in mano), mica siamo scemi.
Il resto viene a poco a poco, accuratamente selezionato dai giornalisti di Soros, mossi dal più puro moralismo. Il polverone  può giovare alla candidata Hillary  Clinton, braccata dall’FBI per certe sue mail dove racconta che ha invaso la Libia per rendere più sicuro Israele, e sta per perdere le elezioni presidenziali.

La minaccia di Obama, ossia ISIS

In queste settimane, la disinformazione Made in Usa ha raggiunto vertici di virtuosismo  eccezionale. Per esempio  sulla Siria: i media – anche la nostra 7 del noto Mentana – hanno esaltato la notizia seguente: i maggiorenti della setta alawita (quella della famiglia Assad) hanno chiesto ad Assad di dimettersi,  per agevolare la transizione. Basta una breve verifica per apprendere che è un falso Made in Usa. Un  altro sciame di “notizie”  dà impressione che Obama   si  sia messo d’accordo con  Putin sulla Siria, che i due  se la intendano perfettamente  sulla tregua in corso e sulla transizione. La verità è l’esatto contrario:  il Pentagono ha ricominciato un nuovo addestramento di gruppi jihadisti, e  li hanno riarmati con missili Usa, pagati dai sauditi e inoltrati dalla Turchia.  Così rinfrancati, i jihadisti hanno violato la tregua e ripreso i combattimenti, abbattendo anche un caccia siriano e usando anche gas iprite contro una base aerea.



le nuove armi americane
La realtà –  nascosta dai media – è che mai le reazioni fra Mosca e Washington sono state ostili come in questi giorni, mai così prossime alla guerra calda. Lo dimostra,fra gli altri, il fatto che al “Vertice sulla Sicurezza Nucleare” organizzato a fine marzo da Obama, il cui scopo sarebbe appunto far avanzare la non-proliferazione  e far calare il rischio atomico,  Putin s’è rifiutato di partecipare e la Russia, la seconda potenza nucleare,  non è stata invitata. In questo contesto, va inteso il cosiddetto “l’allarme” di Obama alla conclusione del vertice sulla “sicurezza”  sul fatto che ISIS, Al Qaeda possano dotarsi di un’arma nucleare, perché “non c’è dubbio che questi pazzi la utilizzerebbero per uccidere quanti più innocenti possibile”.  A chi è chiaro che Obama (coi sauditi) ri-arma ISIS e Al Qaeda, è anche chiaro cosa significa questa previsione: è una minaccia che l’America ha diretto, specificamente, contro gli europei, gli alleati; se non si accodano alla  ostilità contro Mosca, il terrorismo islamico gli farà vedere ben altri attentati, oltre quelli di Parigi e Bruxelles.
Ma i media sono pieni di informazioni verissime sui Banana Pampers.

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