lunedì 10 ottobre 2011

Siamo tutti prigionieri del Cavaliere. - di Marcello Sorgi






Incredibile quanto si vuole, la situazione è questa: a diciott’anni dalla scomparsa della Dc, le sorti del governo, ogni giorno di più, dipendono da un gruppetto di democristiani, che vorrebbero democristianizzare Berlusconi.

Per chi ha ancora memoria della Balena bianca, la domenica di ieri ha avuto uno strano effetto déjà-vu: riuniti a Saint-Vincent, grosso modo nello stesso periodo e nello stesso luogo in cui si riunivano sempre i seguaci della corrente di Donat-Cattin, i nuovi Dc hanno cercato in tutti i modi di convincere il democristianissimo e contrarissimo segretario del Pdl Alfano che il Cavaliere deve trovare il coraggio di dimettersi, aprire la crisi, e magari ricandidarsi alla guida di un Berlusconi-bis per il fine legislatura. Che poi le probabilità per il premier di succedere a se stesso siano minime e le possibilità di aprire un negoziato sui posti e sul programma inesistenti, i Dc non lo danno per inteso.

Per loro infatti la crisi non sarebbe che una delle tante, decine e decine, vissute ai bei tempi della Prima Repubblica. E che alla fine Berlusconi possa essere sostituito da un altro presidente del Consiglio, la logica conseguenza di una normale alternanza e del rispetto della Costituzione.

Con quest’obiettivo, da giorni, il governatore della Lombardia Formigoni e gli ex-ministri Scajola e Pisanu, per citare i più attivi, rilasciano interviste a tutto spiano per illustrare il loro programma: ai primi posti, la cancellazione del cuore della manovra economica d’agosto, quei tagli agli enti locali e ai ministeri che, seppure insufficienti, costituiscono almeno un tentativo di adesione alle richieste sollecitate e inviateci dalla Banca centrale europea. E in prospettiva, una perfetta restaurazione dei metodi e delle regole di venti, trenta e quarant’anni fa, a cominciare dalla legge elettorale proporzionale che dovrebbe restituire ai partiti (agli attuali partiti!), togliendolo ai cittadini, il diritto di scegliersi i governi.

Ora, intendiamoci, se non fossimo di questi tempi, con l’Italia in bilico su un destino che i pessimisti, le cui file continuano ad infoltirsi, preconizzano simile a quello della Grecia, anche l’idea di una restaurazione non dovrebbe essere respinta pregiudizialmente. Che la Prima Repubblica, pur versando da tempo in una crisi senza rimedio, sia finita più per intervento della magistratura che non per effetto della sua malattia, è un fatto. E altrettanto che la Seconda, a quasi due decenni dalla cosiddetta «rivoluzione italiana», sia rimasta un’incompiuta, a causa, o per colpa, in gran parte di Berlusconi, ma anche dei governi di centrosinistra, che hanno perso per strada la spinta propulsiva per realizzare le riforme. Esiste ovviamente la necessità di riprendere il cammino virtuoso della modernizzazione. Ma ad essere sinceri, va detto, non è questo il momento.

A diciotto mesi dalla fine della legislatura e nel bel mezzo di un’emergenza di dimensioni mondiali, quel che ci si aspetta dal governo è di affrontare i problemi che abbiamo di fronte con urgenza, senza divagare né tergiversare. Sincerità per sincerità, non è detto che l’ultralogorato governo in carica possa farcela. Ma è assai più improbabile che possa riuscirci un nuovo governo che nascerebbe ammesso che il parto sia possibile sulla base del pensionamento forzato del premier e di una maggioranza raccogliticcia almeno quanto quella attuale.

Per questo, conoscendo la caratteristica prudenza e ambiguità dei democristiani, al fondo non si capisce a cosa puntino le loro manovre. Finora l’unico effetto è di ricordarci, dimostrandocelo fino all’asfissia, che siamo - e purtroppo restiamo - prigionieri di Berlusconi. E se riusciranno davvero a far cadere il governo, di portarci alle elezioni in un clima, se possibile, ancora più confuso.



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