Lo sbarco di mille migranti ad Augusta, una ragazzina con la febbre a 40, la disperata ricerca di un medico che non c'è e il messaggio di un collega poliziotto. Che rappresenta lo Stato. Ma non può sostituirlo.
Non è il solito messaggio di Roy. L’orario inconsueto e un testo chilometrico me lo fanno capire subito. Di solito non va oltre che fai, come stai, che si dice. Roy è un poliziotto, uno di quelli bravi e con una grandissima umanità. Lo mandano quasi sempre in missione a Lampedusa, Augusta. La realtà degli sbarchi dei disperati sulle coste italiane la conosce benissimo. Ne ha raccolti di cadaveri e ne ha salvato di vite. Solo che per lui salvare una vita fa parte del suo lavoro. Non riceverà medaglie e onorificenze di plastica, non farà mai comparsate in tv. Se si trova in quei posti e in determinati momenti non è mai per puro caso.
Leggo il messaggio di Roy tutto d’un fiato e mentre leggo lo immagino mentre digita con rabbia le parole sul suo smartphone. Aveva bisogno di vomitarla tutta la sua rabbia e ha deciso di affidare a me il suo sfogo. Io e Roy dell’emergenza sbarchi, delle rotte dell’immigrazione, della macchina dei soccorsi e di tutto il resto abbiamo parlato tantissime volte.
Stavolta mi ha scritto questo.
Venerdì scorso ero ad Augusta per il solito sbarco e ne sbarcano tanti. 1150 per l’esattezza. Di tutte le età. Sabato mattina mi viene incontro barcollando una ragazzina dal viso dolcissimo. Viene vicino al nostro furgone e cade a terra senza più alzarsi. Le corro incontro subito insieme ai colleghi. La metto subito all’ombra visto che alle 8 di mattina c’era già caldo da morire. Le tocco la fronte… scotta. Indossa una felpa. A fine giugno con una felpa. La prendo in braccio… pesa niente… nemmeno sento il peso e corro verso una tenda con brandine che so essere libera. La ripongo dolcemente sulla brandina ed esco cercando un dottore. Non c’e’ il dottore. 1150 migranti abbandonati su di uno spiazzo del porto commerciale di Augusta ed il dottore non si trova. Lo cerchiamo ed a cercarlo è anche il funzionario di turno. Non c’è e basta.
Prendo la mia radio portatile e chiamo la nave Bourbon Argos dei Medici Senza Frontiere che li ha portati chiedendo l’assistenza di almeno uno dei medici a bordo. Si chiamano medici per questo no? Aspetto e nel frattempo la spoglio togliendole la felpa e coprendole il seno che anche se ragazzina è già pronunciato. Prendo il mio foulard della divisa, lo bagno con una bottiglietta d’acqua e comincio a rinfrescarla. Parla inglese, viene dalla Nigeria, e mi risponde dicendo di chiamarsi Farah e di avere 17 anni.
Un visetto dolcissimo e parlava con fatica ma con una vocina gentilissima. La coccolo un po’… il medico non arriva. Nemmeno quello della nave ed è già passata mezzora. Mi incazzo ma non glielo faccio vedere. Gli occhi mi cominciano a bruciare perché a causa del caldo il gel dai capelli mi cola in viso. Ma questa è la scusa che dico ai colleghi. Il loro caposquadra sta piangendo e non voglio farlo vedere. Lascio a un collega il compito di vigilarla ed a piedi mi faccio quel mezzo chilometro di piazzale che separa la tenda dall’ormeggio sotto il sole cocente e l’asfalto che bolle. Arrivo sotto la nave e trovo un fighettino con maglietta sponsorizzata MSF.
E’ dell’equipaggio. Gli chiedo se parla italiano. Mi risponde di sì con un eloquente accento polentone. Gli chiedo di un medico e che lo voglio “subito”. Capisce… corre a chiamarne uno e mi dice che mi raggiunge. Torno nella tenda. Farah respira a fatica, le gorgoglia il petto. Nel frattempo arriva un giovane italiano. Mi dice di essere l’infermiere. “Cazzo! Un infermiere? Mi serve un dottore con tutto il rispetto per il tuo lavoro!”.
Scrolla le spalle e dicendomi che il dottore non c’è aggiunge “Sono solo!”. Porca troia! Sono solo anche io nell’immensità di questa tragedia che si chiama migrazione. Siamo solo noi. 10 poliziotti, un funzionario ed un infermiere. Una sparuta pattuglia di volontari di una associazione di protezione civile locale e 1150 esseri umani che abbisognano di ogni cosa. Mi continuano a bruciare gli occhi, lo guardo e gli chiedo di portarmi un termometro. La ragazzina cerca la mia mano e cerca di dirmi qualcosa. Continuano a bruciarmi gli occhi.
“Sei qui da sola?”, mi risponde di sì. Gli occhi mi bruciano. Salta fuori un termometro: 40! Porca paletta! 40 di temperatura e respira male. Che sia la malaria, mi chiedo, e continuo a rinfrescarla d’acqua con una tovaglia che il giovane infermiere mi porge. La accarezzo e le rinfresco la fronte. Piero (un collega) mi chiede se un succo di frutta può servire. “Sì Piero! Serve! Porgimelo”. In due secondi me ne arrivano una decina. Quelli di tutti i colleghi che li tirano fuori dalla “razione generi di conforto”. La aiuto a berlo.
“Piano – le dico – abbiamo tempo. Non c’è premura Farah”. Sorride e provo a ricambiarla. Mi bruciano ancora gli occhi. L’orologio gira ed io divento sempre più intollerante. Non posso permettermi di perdere le staffe. Non adesso, mi ripeto continuamente. Guardo fuori ed il cielo è terso… nitido e cerco Lui. Arriva una dottoressa. Gentile e professionale. La visita. Bronchite, mi dice. Controlla la saturazione d’ossigeno ed è ad 88%. Non va bene. E’ pericoloso. Molto per una ragazzina di 17 anni. Respira come il mio acquario in salotto. Fa fatica a parlare, accenna qualcosa, la tranquillizzo: va tutto bene Farah. Non riesco nemmeno a vederla bene perché gli occhi continuano a bruciarmi.
“Dobbiamo portarla in ospedale!”, mi ordina perentoriamente la dottoressa. «Sì. Subito. Sono d’accordo!». Mi giro verso il giovane infermiere e gli chiedo di contattare il 118 per un’ambulanza. Si allontana e torna poco dopo sconsolato. “Dobbiamo aspettare. L’ambulanza sta facendo un intervento”. Mi irrito e gli chiedo di chiamare per averne un’altra. Sconsolato abbassa gli occhi e mi risponde: “Maresciallo, in tutto il comprensorio di questo settore ne abbiamo solamente una”. Per una località che include alcuni comuni e con 1150 migranti sbarcati e “gettati” sulla banchina di un porto commerciale non c’e’ dottore e non c’e’ ambulanza? Mi asciugo la fronte, mi cola troppo gel negli occhi che continuano a bruciare. Mi sento ancora più solo e se mi permetti il paragone mi sento come il tenente Drogo del libro “Il deserto dei tartari”.
Devo subito pensare a qualche cosa… prendo il cellulare e chiamo la sala operativa. “Collega fammela arrivare anche da Katmandù!”. Così arriva un’ambulanza e la ragazzina, con tutta la flebo inserita dal buon infermiere su disposizione della dottoressa, finalmente va in ospedale. Quello di Augusta dove la ricoverano. Arriva con meno saturazione d’ossigeno di prima, saprò successivamente. Non riesco a sentirmi sollevato dall’evoluzione della faccenda. C’e’ una ragazzina di 17 anni in ospedale da sola con una bronchite e scarsa saturazione d’ossigeno ma quello che mi preme di più è che sta lì da sola. Sono un poliziotto da 28 anni e di schifo ne ho visto fin troppo. So come funzionano certe perversioni nei confronti dei soggetti più deboli e le ultime cronache mi angosciano.
Chiamo in ospedale e mi rassicurano: “Stai sereno. Ci sono qui delle volontarie che la assistono”. Va bene. Ci provo ma ho questo fastidioso bruciore agli occhi e non sono tranquillo. Ringrazio la dottoressa e mi fermo a parlare con il giovane infermiere. Parliamo… tanto… molto… mi racconta quello che da anni vedo con i miei occhi e sollevo da terra o dal mare con le mie braccia. Lo lascio sfogare. Mi dice che è solo… spesso. Lui è un infermiere e non può né deve prendere iniziative terapeutiche. Penso, tra me e me, che anche io sono solo e non posso prendere iniziative.
Continua a raccontarmi e ad un certo punto lo fermo. “Sono stanco”, gli annuncio. Risponde di comprendere e che se voglio posso sedermi nel suo container e riposare, perché devi sapere che l’infermeria è un container lasciato sotto il sole cocente, per rinfrescarmi.
“No amico mio. Sono stanco! Io non reggo più quello che vedo ogni giorno. Questa è la mia stanchezza. Io non ce la faccio più. Il mio mestiere è anche proteggere i più deboli e lo faccio volentieri e questo spettacolo indegno di un paese civile va contro i miei principi, contro il mio credo e la mia fede politica. Politica sì! Perché anche i poliziotti hanno le loro idee”.
Resta attonito. Non se l’aspettava. Continuo: “Io non voglio più vedere queste cose e più lo desidero più le vedo e allora basta incazzarsi e basta urlare. Mi rimbocco le maniche e che vadano a quel paese ordine e disciplina. Sono un essere umano, sono un uomo! Ma poi… mi stanco al punto che la rabbia non mi permette più di parlare e me ne resto in silenzio per questo. Per non farla riaffiorare tutte le volte che la mia rabbia e la mia indignazione salgono”. Sfilo una bottiglietta d’acqua dalla uniforme e prendo a berla. Lui mi porge un pacchetto di fazzoletti e mi dice “asciugati gli occhi. Il gel ti sta facendo piangere”. Maledetto gel! Non devo più metterlo in queste giornate di solitudine e abbandono.
Perdonami se sono stato lungo. Avevo bisogno di sfogarmi e questo argomento con te lo abbiamo preso in passato. Ho braccia forti e posso sollevare molti pesi e spalle larghe e posso reggere grandi pensieri. Devo però cambiare marca di gel. Anche adesso il gel mi cola negli occhi.
P.S.: Prima di rientrare da Augusta sono passato dall’ospedale. Farah sta meglio ed è seguita da una dolce signora di 60 anni che fa volontariato. Prima di uscire dalla stanza mi ha dato un bacio… ed io avevo di nuovo il gel tra i capelli.
Finisco di leggere tutto e gli scrivo: “Roy, io questa storia la DEVO raccontare..” E mi risponde: “Raccontala compare. Ne ho le palle piene. Non voglio essere la soluzione di un problema che altri causano. Io sono solo un poliziotto e rappresento lo Stato. Ma non posso sostituirlo”.
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