domenica 2 giugno 2019

Il discorso del premier. - Marco Travaglio



Care concittadine e concittadini, forse è l’ultima volta che vi parlo da presidente del Consiglio. Il che non sarebbe una tragedia né per voi, sopravvissuti a 28 premier prima di me, né per me che, diversamente dai politici italiani, un mestiere a cui tornare ce l’ho. Ma vi parlo proprio perché spero che non sia l’ultima. Il mio strano governo, nato un anno fa dal contratto fra due partiti diversi e perlopiù incompatibili, che però erano gli unici disposti a formarne uno e in grado di fare maggioranza, ha realizzato alcune cose buone e commesso altrettanti errori (più qualche orrore). A differenza di altri, molto peggiori del nostro, ha goduto di pessima stampa, più a causa dei suoi meriti (imperdonabili dall’establishment) che dei suoi demeriti (graditissimi all’establishment). Ora però, dopo le Europee, siamo a un bivio molto chiaro. Se dovessi giudicare dai consensi alla mia persona e al mio governo, oltre il 50%, dovrei essere soddisfatto. Invece non lo sono per nulla. Il voto di domenica ha umiliato il partito di maggioranza relativa, che ha dimezzato i voti, ed esaltato l’altro contraente, che li ha quasi raddoppiati. Ma il mio unico faro è il Parlamento, dove i 5Stelle hanno il doppio dei seggi della Lega: le regole della democrazia parlamentare sono queste e non c’è voto europeo che possa scardinarle.
I due leader non si parlano più da due mesi. E non riescono a uscire dalla campagna elettorale. Ma ora dovranno farlo, volenti o nolenti. A meno che non vogliano le elezioni anticipate, nel qual caso dovranno dirlo subito a me e spiegarlo a voi. Il governo, specie se ha pretese di “cambiamento”, non può tirare a campare e in ogni caso non sono disponibile a farlo. Ora, appena finirò con voi, convocherò Di Maio e Salvini e chiederò loro di mettere sul tavolo, una volta per tutte, o la carta delle elezioni o la lista delle cose che vogliono fare con tanto di cronoprogramma di qui a fine anno. A cominciare dalla legge di Bilancio. Mi regolerò così. Non accetterò richieste di rimpasto non condivise da entrambi gli alleati, né proposte di un partner che esulino dal Contratto o non siano concordate con l’altro e con me. Chi esce dagli accordi sottoscritti un anno fa o da eventuali nuove intese apre ufficialmente la crisi e se ne assume la responsabilità e le conseguenze. Chi va in giro a sparare fuori dal seminato, a mortificare gli alleati, a spacciarsi per il premier, ad annunciare norme mai discusse, a ficcanasare nei ministeri altrui ne risponderà al sottoscritto. Tanto per essere chiari: sul Tav vale il Contratto che impone di “ridiscutere integralmente” l’opera.
Tantopiù dopo la devastante analisi costi-benefici del governo (non del M5S); dunque se anche Macron confermerà l’intenzione di farlo, contesteremo l’inadempienza francese sui fondi mai stanziati e le opere rinviate al 2038; ergo Telt deve rimandare le gare fino al 2038 e, se non lo farà, ne sostituiremo i vertici perché lo faccia.
Io non ho un partito alle spalle: ma la mia onestà, la mia integrità, la mia dignità e la mia parola sono un patrimonio sufficiente, che intendo conservare e utilizzare fino in fondo. Se mi tiro indietro, il governo cade e io dirò a tutti di chi è stata la colpa. In questo momento, le elezioni anticipate sono l’opzione più probabile: ai 5Stelle può convenire un periodo di opposizione, per potersi riorganizzare e tentare di recuperare l’identità e i voti perduti; alla Lega può convenire passare subito all’incasso, nella speranza di ripetere il boom delle Europee, il che – se accadesse – li porterebbe alla maggioranza assoluta delle Camere con i soli voti di FdI, senza bisogno di quelli di FI. Sulla carta, fra Salvini e Di Maio, il più interessato alle urne è Salvini, perché parte dal 34% e più passa il tempo più rischia di scendere; e, se il governo dura anche solo fino a Natale, sarà la Lega a pagare il maggior prezzo di una legge finanziaria di sacrifici. Di Maio parte dal 17 e ha bisogno di tempo per risalire la china; ma, per guadagnare quel tempo, deve restare al governo e rischia di perdere altri pezzi di identità e di elettorato, specialmente se Salvini continuerà a comportarsi da padrone. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: senza i voti in Parlamento dei 5 Stelle, la Lega – che finora non ha portato a casa quasi nulla, se non sul piano mediatico – non può approvare la legge che più sta a cuore ai suoi elettori: la Flat Tax, che poi è uno sgravio fiscale al ceto medio tutt’altro che flat. E sfidare gli elettori senza avergli dato nulla sulle tasse, in un’elezione non più europea ma politica, con una crisi di governo prima della legge di Bilancio che vedrebbe i mercati scatenarsi contro l’Italia per tutta l’estate, lo spread volare alle stelle e le paure degli italiani spostarsi dal tema migranti al tema soldi, sarebbe un rischio molto forte per le speranze egemoniche di Salvini. Che dovrebbe tornare a imbarcare anche quel che resta di Berlusconi, rischiando di perdere i voti di chi non vuole rivedere il vecchio e malfamato centrodestra.
Dall’altra parte i 5Stelle, dimezzati alle Europee ma sempre maggioritari in Parlamento, potranno smettere di portare la croce, passarla sulle spalle dei leghisti e riservarsi un atteggiamento meno responsabile e più corsaro sulle norme più lontane dal loro Dna. Anche tentando di approvare proprie leggi con altre maggioranze in Parlamento, aprendo il dialogo a sinistra. Per questo dobbiamo mettere le carte in tavola per decidere se salutarci subito o restare insieme un altro po’. Pensando solo all’interesse degli italiani, che potrebbero punire chi apre crisi al buio per futili motivi e premiare chi lavora e non parla a vanvera. A presto, spero. In caso contrario, vi auguro di non dovermi mai rimpiangere.
“Il discorso del premier” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 2 giugno 2019

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