sabato 17 ottobre 2020

Terapie intensive e tamponi: “Ecco i ritardi delle Regioni”. - Marco Palombi

 

Sanità - Le accuse di Arcuri e Boccia ai “governatori”.

Ieri il governo e il Commissario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, hanno deciso di togliersi i guanti, per così dire. Messi di nuovo sotto accusa per i mille problemi di gestione della seconda ondata di Covid-19, hanno di fatto puntato il dito sulle Regioni, che – com’è noto – hanno la gestione del sistema sanitario, tanto più che è ripartita la sarabanda delle fughe in avanti locali (dalla chiusura delle scuole di Vincenzo De Luca all’Alto Adige che non accetta l’ultimo Dpcm). “Massima disponibilità e massima trasparenza, chi ha bisogno di aiuto lo dica, ma questo va fatto prima di intervenire su lavoro e scuola. In questi mesi sono stati distribuiti ventilatori polmonari ovunque: dove sono finiti?”, è il virgolettato che il ministro Francesco Boccia ha lasciato trapelare del suo intervento in Conferenza Stato-Regioni.

I posti letto. L’accusa del titolare degli Affari regionali si basa su una tabella coi dati aggiornati a mercoledì che Il Fatto ha potuto visionare. A febbraio, i posti letto in terapia intensiva erano 5.179, mercoledì erano 6.628, ma il piano Covid approvato a fine primavera prevedeva che quei letti a ottobre fossero 8.679. E qui veniamo ai ventilatori: secondo i dati del governo ne sono stati distribuiti alle Regioni 3.109 da terapia intensiva, consentendo alle Regioni di portare il totale dei letti fin dall’estate a 8.288. Chiosa l’ufficio del commissario: “Mancano all’appello 1.660 posti letto nelle terapie intensive”. Non solo: “Il commissario dispone di ulteriori 1.300 ventilatori di terapia intensiva che ha fatto produrre in questi mesi in preparazione di eventuali ulteriori fabbisogni”. Insomma, i letti potrebbero già essere oltre 9.500, tremila in più degli attuali, se le Regioni si fossero attrezzate. Qualche esempio: la Campania ha incrementato in questi mesi i suoi letti di terapia intensiva di 98 unità, ma ha ricevuto (peraltro invocandoli a gran voce) 281 ventilatori; la Lombardia ha 133 posti in più avendo ottenuto da Roma 382 ventilatori; le Marche 14 letti in più e 163 ventilatori; la Calabria 6 letti e 136 ventilatori.

Sub-intensive. Lo stesso discorso si può fare sulle terapie sub-intensive, peraltro in questa fase particolarmente sollecitate: oggi sono 14mila, ma durante l’emergenza di marzo-aprile si arrivò a 35mila posti letto ed esiste già la dotazione sufficiente a tornare a quei livelli. Scrive la struttura commissariale: “Abbiamo distribuito 1.427 ventilatori per le sub-intensive oltre a 59.545 fra caschi, visiere e altri dispositivi sanitari”. Arcuri ha persino scritto alle Regioni per formalizzare in un atto la domanda di Boccia: che fine hanno fatto le attrezzature che vi ho spedito?

Gli ospedali Covid. La ristrutturazione della rete ospedaliera doveva servire per gestire la seconda ondata. Problema: in larga parte d’Italia non è neanche partita. A maggio, nel decreto Rilancio, sono stati stanziati 1,65 miliardi per aumentare i posti letto e ristrutturare i Pronto soccorso in funzione dell’emergenza: il testo dava la possibilità alle Regioni di iniziare subito i lavori e farsi poi rimborsare a piè di lista, l’unico impegno era presentare entro luglio un piano dettagliato degli interventi. Solo pochi governatori si sono portati avanti (Emilia Romagna, Veneto), gli altri hanno fatto arrivare a fine luglio i loro “piani”, che però – dice il commissario – erano “poco più che fogli excel”. Il Fatto ne ha letti alcuni e definirli “fogli excel” non è un’esagerazione: in uno l’intervento era non fantasiosamente descritto come “realizzazione di posti letto in TI”, poi c’erano i soldi che servivano tra lavori e macchinari (quali?) e tanti saluti. La cosa più inquietante è che la durata dei progetti superava, a volte, i tre anni. Il risultato è che c’è voluto tutto agosto per riscriverli in modo da poter fare le gare che si stanno concludendo solo ora: si tratta di 1.044 interventi totali e se tutto va bene si partirà davvero a novembre (ma, per capirci, una delle 11 Regioni che hanno deciso di fare da sole non ha ancora inviato il cronoprogramma dei lavori).

Tamponi. È uno dei buchi neri della “convivenza col virus”. L’84% di quelli realizzati sono stati distribuiti alle Regioni dal commissario, che – dice Arcuri – “in questo momento una disponibilità sufficiente per continuare a somministrare oltre 120mila tamponi al giorno”. Problema: la rete di distribuzione/analisi dei test spesso non funziona, solo che quella è competenza degli enti locali. A breve arriveranno se non altro i test rapidi antigenici: la commissione tecnica ha “promosso” le proposte di 7 aziende per complessivi 19,95 milioni di test. L’obiettivo è portare a 200mila il numero dei tamponi giornalieri. Giovedì, peraltro, la struttura commissariale ha scritto ai governatori per sapere “di quale disponibilità ulteriore di tamponi e reagenti hanno bisogno”: a ieri sera non era giunta una sola risposta.

Assunzioni. Anche sul personale necessario a far funzionare tutta questa macchina (terapie intensive, tracciamento, medicina territoriale), le Regioni sono in ritardo secondo il governo. Al 9 ottobre al ministero della Salute risultavano effettuate 33.857 assunzioni: 6.958 medici, 15.618 infermieri, 7.248 operatori socio-sanitari. Si tratta di contratti a termine che costano circa 1 miliardo: le Regioni però, grazie ai decreti anti-crisi, sono in totale deroga sulle assunzioni e se, come pure sostengono, manca il personale, allora possono e devono assumerlo. A questo proposito, va ricordato che un paio di decenni di tagli al Servizio sanitario nazionale si sono scaricati certo sulle strutture (i posti letto che ora mancano), ma anche e soprattutto sul personale, che ha perso 42.800 unità tra 2010 e 2018.

(foto ANSA)

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