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martedì 14 ottobre 2025

GLI ALVEARI D'ARGILLA DI AL-KHARFI: API, SOPRAVVIVENZA E INNOVAZIONE NEL DESERTO.

 

Sulle aride colline a sud di Taif, in Arabia Saudita, le rovine di un antico insediamento, noto come Al-Kharfi, nascondono una straordinaria testimonianza della resilienza umana: 1200 arnie costruite con argilla e fango e scavati nella roccia o costruiti su terrazze, molti dei quali ancora in piedi, ma in rovina. Queste strutture silenziose raccontano di un popolo che ha sfruttato il potere delle api per sopravvivere e prosperare in un ambiente desertico ostile.

Il sito di Al-Kharfi si trova nel governatorato di Maysan, a sud di Taif, arroccato su alture scarsamente piovose. Gli alveari sono raggruppati lungo pareti rocciose e pendii, disposti in file, a volte una sopra l'altra, su terreni irregolari. L'architettura è semplice ma efficace: cavità cilindriche e prismi rettangolari in argilla, fango e roccia, spesso incassati nel pendio per sfruttare l'ombreggiatura e l'isolamento naturali.

Studiosi ed esploratori locali conoscono da tempo questi alveari, talvolta chiamati "case del miele" nei resoconti regionali. Ma negli ultimi anni hanno attirato sempre più attenzione come testimonianze archeologiche delle economie del deserto e dell'apicoltura nell'antichità.

Perché costruire così tanti alveari? In un paesaggio in cui la crescita delle piante è limitata e le precipitazioni irregolari, le api offrono una risorsa unica: e i servizi di impollinazione che sostengono la flora selvatica. Per una comunità che vive al limite della sussistenza, questi prodotti potrebbero avere un valore enorme: miele, cera, propoli.

Gli alveari in argilla manterrebbero temperature interne relativamente stabili (importanti per lo sviluppo della covata), proteggerebbero dai venti del deserto e ridurrebbero lo stress dovuto alle temperature estreme. La loro posizione vicino a valli o wadi (flussi d'acqua stagionali) e su pareti rocciose ombreggiate suggerisce un'attenta scelta dei microclimi.

L'apicoltura nella Penisola Arabica ha una lunga tradizione etnografica: ancora oggi, nelle regioni montuose, si utilizzano alveari fatti di argilla o tronchi cavi. Il complesso di Al-Kharfi rappresenta probabilmente una fase iniziale di questa tradizione.

Il miele è più di un semplice dolcificante. Nelle società preindustriali, fungeva da medicinale (antisettico, medicazione per ferite, digestivo), conservante, fermentabile (nell'idromele o in altre bevande) e talvolta come fonte di calorie trasportabili. In periodi di siccità o scarsità, il miele poteva integrare o stabilizzare la dieta.

Con oltre mille alveari, Al-Kharfi potrebbe essere stato un centro regionale per la produzione di miele, producendo eccedenze non solo per il consumo locale, ma probabilmente anche per il commercio con le vicine oasi, le rotte carovaniere o gli insediamenti urbani ai margini delle pianure e degli altipiani.

Le dimensioni del complesso alveare implicano lavoro organizzato, trasferimento di conoscenze, gestione stagionale e coordinamento. Qualcuno doveva occuparsi della manutenzione degli alveari, ispezionare gli sciami, raccogliere in sicurezza, conservare la cera e distribuire il prodotto. Ciò suggerisce ruoli sociali (specialisti, apicoltori) che vanno oltre la semplice agricoltura di sussistenza o la pastorizia.

Inoltre, la presenza di così tanti alveari è indice di una pianificazione a lungo termine e di una memoria ecologica: le persone sapevano quali pendii utilizzare, come proteggere le api nelle stagioni più difficili e come integrare l'apicoltura nelle loro strategie di sostentamento più ampie.

Indica economie miste: non puramente pastorali o agricole, ma che hanno integrato gli insetti come parte del mix di risorse. Nelle frontiere desertiche, la flessibilità è spesso il margine tra collasso e sopravvivenza.

Le nostre conoscenze sono frammentarie. Mancano resoconti di scavo dettagliati, dati cronologici e ricostruzioni paleoambientali relative ad Al-Kharfi. Rimangono alcuni interrogativi:

Quando esattamente venivano utilizzati questi alveari (secolo, millennio)?

Servivano solo la comunità locale o facevano parte di reti commerciali più ampie?

In che modo le fluttuazioni climatiche (siccità, variabilità delle precipitazioni) hanno influenzato la produttività e la sopravvivenza dell'alveare?

In che misura le api erano specie selvatiche locali o popolazioni selvatiche indotte?

Alcuni dei riferimenti pubblicati sono fonti popolari o secondarie; è difficile trovare pubblicazioni archeologiche rigorose con dati stratigrafici.

Pertanto, sebbene la narrazione di “resilienza e ingegnosità” sia avvincente, gli studiosi devono procedere con cautela quando avanzano affermazioni radicali.

Gli alveari di argilla di Al-Kharfi ci ricordano come gli esseri umani non si limitino a sopportare passivamente ambienti ostili, ma li plasmano attivamente, favorendo la vita anche dove le condizioni sono implacabili. Questi alveari rappresentano un ponte tra ecologia selvaggia e cultura umana: le api vivono ai margini e gli esseri umani estendono il loro dominio imparando l'ecologia delle api, i microclimi e il comportamento degli insetti.

In una prospettiva globale, questi antichi complessi di alveari sono simili ad altre pratiche di nicchia (raccolta del ghiaccio, saline, pesca in grotta, agricoltura terrazzata) in territori estremi. Ci costringono a rivalutare il significato di "marginale": ciò che appare sterile può nascondere sistemi di conoscenza depositati nel corso delle generazioni.

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