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lunedì 4 luglio 2016

Orrore indescrivibile: Chomsky sulla nuova fase della guerra al terrore. - Noam Chomsky e C. J. Polychroniou

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[di Noam Chomsky] «L’ondata di terrorismo anti-occidentale è l’altra faccia della medaglia del terrorismo occidentale. In pochi anni, gli USA sono riusciti a diffondere il terrore jihadista da una piccola area dell’Afghanistan al mondo intero». Intervista a Noam Chomsky.
di Noam Chomsky e C. J. Polychroniou 

La guerra al terrore ha ora assunto la forma di una campagna bellica globale totale. Nel frattempo, le cause reali della nascita e della diffusione di organizzazioni omicide come l’ISIS rimangono opportunamente ignorate.
In seguito al massacro di Parigi in novembre i maggiori paesi occidentali come Francia e Germania si stanno unendo agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo islamico fondamentalista. Anche la Russia si è affrettata ad entrare nel club, dato che ha le sue proprie paure sulla diffusione del fondamentalismo islamico. Di fatto la Russia sta combattendo la sua personale “guerra al terrore” fin dalla fine del crollo dello Stato sovietico. Allo stesso tempo, degli stretti alleati degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, stanno fornendo sostegno diretto o indiretto all’ISIS, ma anche questa realtà viene opportunamente ignorata dalle forze occidentali che combattono il terrorismo internazionale. Soltanto la Russia ha osato di recente etichettare la Turchia  “complice del terrorismo,” dopo che quel paese ha abbattuto un aereo da guerra russo per aver presumibilmente violato lo spazio aereo turco. (Per la cronaca, gli aerei da caccia turchi hanno violato per anni lo spazio aereo greco con grande frequenza: 2.244 volte soltanto nel 2014).
Ha un senso la “guerra al terrore”? È una politica efficace? E in che cosa è diversa l’attuale fase della “guerra al terrore” dalle due precedenti fasi che si sono svolte durante le amministrazioni di Ronald Reagan e George W. Bush, rispettivamente? Inoltre, chi trae realmente vantaggio dalla “guerra al terrore”? E quale è il collegamento tra il complesso militare-industriale degli Stati Uniti e le guerre? Il celebre critico della politica estera statunitense Noam Chomsky ha offerto la sua opinione  a Truthout su questi argomenti in un’intervista esclusiva con C. J. Polychroniou.

Grazie, Noam, per questa intervista. Vorrei cominciare sentendo che cosa pensi dei più recenti sviluppi della guerra contro il terrorismo che è una politica risalente agli anni di Reagan, successivamente trasformata in pseudo-crociata da George W. Bush, con un costo incalcolabile di vite umane innocenti ed implicazioni molto profonde per la legge internazionale e la pace mondiale. La guerra al terrorismo sta apparentemente entrando in una fase nuova e forse più pericolosa, dato che altri paesi si sono buttati nella mischia con agende politiche e interessi differenti rispetto a quelli degli Stati Uniti e di alcuni dei loro alleati. Primo, sei d’accordo con la succitata valutazione sull’evoluzione della guerra contro il terrorismo e, se sì, quali saranno le probabili conseguenze economiche, sociali e politiche di una guerra permanente al terrore per le società occidentali in particolare?

Le due fasi della “guerra al terrore” sono molto diverse, eccetto che per un aspetto fondamentale. La guerra di Reagan si trasformò molto rapidamente in una serie di guerre terroristiche che ebbero conseguenze orribili per l’America Centrale, l’Africa meridionale ed il Medio Oriente. L’America Centrale, il suo obiettivo più diretto, deve ancora riprendersi, una delle principali ragioni dell’attuale crisi di profughi. Lo stesso si può dire della seconda fase, iniziata da George W. Bush vent’anni dopo, nel 2001. L’aggressione diretta degli Stati Uniti ha devastato vaste aree ed il terrorismo di Stato statunitense ha assunto nuove forme, in particolare la “campagna globale di omicidi” per mezzo dei droni lanciata da Obama, che segna un nuovo record negli annali del terrorismo e che, come altre azioni simili, probabilmente genera nuovi terroristi più in fretta di quanto uccida le persone sospette.
L’obiettivo della guerra di Bush era al-Qaeda. Una martellata dopo l’altra – Afghanistan, Iraq, Libia e oltre – è riuscito a diffondere il terrore jihadista da una piccola area tribale dell’Afghanistan a praticamente il mondo intero, dall’Africa Occidentale fino all’Asia sudorientale (attraverso il Levante). Uno dei grandi trionfi politici della storia. Nel frattempo, al-Qaeda è stata sostituita da elementi molto più feroci e distruttivi. Attualmente, l’ISIS (“Stato Islamico”) detiene il record in fatto di brutalità, ma altri “pretendenti” al titolo non sono molto addietro. La dinamica, che risale a molti anni fa, è ben descritta in un’importante opera dell’analista militare Andrew Cockburn, nel suo libro Kill Chain. Esso documenta come, quando si uccide un leader senza occuparsi delle radici e delle cause del fenomeno, questo solitamente viene sostituito molto rapidamente da qualcuno di più giovane, più competente e più violento.
Una conseguenza di questi “successi” è che una larga fetta dell’opinione pubblica mondiale considera  gli Stati Uniti come la maggior minaccia alla pace nel mondo. Molto addietro, al secondo posto, c’è il Pakistan, posizione presumibilmente ingrandita dal voto in India. Ulteriori successi del genere potrebbero rischiano di far esplodere una guerra di vasta scala col “mondo musulmano”, mentre le società occidentali si assoggettano a politiche sempre più repressive e a ulteriori erosioni dei diritti civili in patria, realizzando i sogni perversi di Osama bin Laden ieri e dell’ISIS oggi.

Nella discussione politica che ruota attorno alla “guerra al terrore”, la differenza tra le operazioni dichiarate e quelle segrete non è certo sparita. Nel frattempo l’identificazione dei gruppi terroristici e la scelta degli attori o degli Stati che appoggiano il terrorismo sembra essere totalmente arbitraria, al punto da sollevare il dubbio se la “guerra al terrore” sia veramente una guerra contro il terrorismo o se non sia piuttosto una copertura per giustificare delle politiche di conquista globale. Per esempio, mentre al-Qaeda e l’ISIS sono organizzazioni innegabilmente terroriste e assassine, il fatto che alleati degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita ed il Qatar e perfino nazioni che sono membri della NATO, come la Turchia, abbiano di fatto appoggiato l’ISIS, è o ignorato o seriamente minimizzato sia dai decisori politici statunitensi che dai media convenzionali. Ha dei commenti da fare su questo argomento?

Lo stesso si poteva dire delle versioni di Reagan e di Bush della “guerra al terrore”. Per Reagan è stato il pretesto per intervenire in America Centrale per quella che il vescovo del Salvador, Arturo Rivera y Damas, succeduto all’arcivescovo Oscar Romero, che fu assassinato, definì «una guerra di sterminio e genocidio contro una popolazione civile indifesa». In Honduras e in Guatemala è stato anche peggio. Il Nicaragua è l’unico paese che disponeva un esercito che lo difese dai terroristi di Reagan; negli altri paesi le forze di sicurezza erano i terroristi.
In Sudafrica, la “guerra al terrore” fornì il pretesto per appoggiare i crimini razzisti sudafricani in patria e nella regione, con un costo orrendo in termini di vite umane. Dopotutto, dovevamo difendere la civiltà da «uno dei più famigerati gruppi terroristici» del mondo, il Congresso nazionale africano di Nelson Mandela. Lui stesso rimase sulla lista americana dei terroristi fino al 2008. In Medio Oriente, l’idea della “guerra al terrore” ha giustificato l’appoggio all’invasione omicida del Libano da parte di Israele e molto altro. Con Bush, ha fornito il pretesto per invadere l’Iraq. E continua così.
L’orrore che si sta verificando oggi in Siria è al di là di ogni descrizione. Le principali forze di terra che si oppongono all’ISIS sembra che siano i curdi, proprio come in Iraq, dove sono sulla lista statunitense dei terroristi. In entrambi i paesi, sono l’obiettivo primario dell’assalto del nostro alleato, la Turchia, che sta appoggiando anche il gruppo affiliato di al-Qaeda in Siria, il Fronte al-Nusra, che sembra poco diverso dall’ISIS, sebbene siano in guerra per il territorio. L’appoggio turco per al-Nusra è così estremo che quando il Pentagono inviò varie dozzine di combattenti che aveva addestrato sembra che la Turchia abbia allertato al Nusra, che li ha istantaneamente sterminati. Al-Nusra e Ahrar ash-Sham, suo stretto alleato, sono appoggiati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, alleati degli Stati Uniti, e, a quanto pare, continuano a ricevere armi dalla CIA. Si dice che abbiano usato missili anti-carro forniti dalla CIA per infliggere gravi sconfitte all’esercito di Assad, probabilmente spingendo i russi a intervenire. La Turchia sembra che continui a permettere ai jihadisti di affluire in Siria attraverso il confine turco.
L’Arabia Saudita in particolare è stata un’importante sostenitrice del movimenti estremisti jihadisti per anni, anche al fine di diffondere le sue radicali dottrine wahhabite islamiste attraverso le scuole coraniche e le moschee. Con non poca giustizia, Patrick Cockburn descrive la “wahhabizzazione” dell’islam sunnita come uno degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca. L’Arabia Saudita e gli Emirati hanno enormi forze militari moderne, ma sono a malapena impegnati nella guerra contro l’ISIS. Sono invece impegnati in Yemen, dove stanno creando una considerevole catastrofe umanitaria e molto probabilmente, come prima, generando terroristi futuri che diventeranno gli obiettivi di domani nella nostra “guerra al terrore.” Nel frattempo, la regione e la sua gente continuano ad essere devastati.
Per la Siria pare che l’unica speranza siano i negoziati tra i vari elementi coinvolti, escluso l’ISIS. Tra questi ci sono persone veramente orribili, come il presidente siriano Bashar al-Assad, che non commetteranno volentieri un suicidio politico e dunque dovranno essere coinvolte nei negoziati se si vuole fermare la spirale verso il suicidio nazionale. Su questo fronte si è fatto qualche piccolo passa avanti a Vienna. Ci sono altre cose che si possono fare sul terreno, ma uno spostamento verso la diplomazia è essenziale.

Il ruolo della Turchia nella cosiddetta guerra globale contro il terrorismo deve essere considerato come uno degli atti più ipocriti nei moderni annali della diplomazia. Putin non ha  moderato le parole in seguito all’abbattimento dell’aereo da caccia russo, etichettando la Turchia “complice dei terroristi”. Il petrolio è il motivo per il quale gli Sati Uniti ed i loro alleati occidentali consapevolmente ignorano l’appoggio di certe nazioni del Golfo alle organizzazioni terroristiche come l’ISIS, ma qual è il motivo per cui gli Stati Uniti evitano di contestare l’appoggio della Turchia al terrorismo fondamentalista islamico? 

La Turchia è sempre stata un importante alleato della NATO, di grande importanza geostrategica. Nel corso di tutti gli anni ’90, quando la Turchia stava compiendo alcune delle peggiori atrocità nella sua guerra contro la popolazione curda, divenne la massima beneficiaria di armi statunitensi (al di fuori di Israele ed Egitto, una categoria a parte). Di tanto in tanto il rapporto si è fatto teso, soprattutto nel 2003, quando il governo adottò la posizione del 95 per cento della popolazione e si rifiutò di partecipare all’attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq. La Turchia fu aspramente condannata per non essere riuscita a comprendere il significato di “democrazia”. Paul Wolfowitz, che i media salutarono come “l’idealista principale” dell’amministrazione Bush, rimproverò le forze armate turche per aver permesso al governo di perseguire questo corso sconvolgente, e chiese che si scusassero. In generale, però, i due paesi hanno mantenuto rapporti piuttosto stretti. Di recente, gli Stati Uniti e la Turchia hanno raggiunto un accordo sulla guerra contro l’ISIS: la Turchia ha garantito l’accesso alle basi turche vicine alla Siria, e in cambio ha promesso di attaccare l’ISIS – ma invece ha attaccato i suoi nemici curdi.

Mentre questa potrebbe non essere un’opinione gradita a molte persone, la Russia, al contrario degli Stati Uniti, sembra “misurata” quando si tratta dell’uso della forza. Supponendo che tu sia d’accordo con questa ipotesi, perché pensi che le cose stanno così?

Sono la parte più debole. Non hanno 800 basi militari in giro per il mondo, non potrebbero verosimilmente intervenire dovunque nel modo in cui gli Stati Uniti lo hanno fatto nel corso dei decenni o architettare qualcosa di simile alla “campagna globale di omicidi” di Obama. Lo stesso è avvenuto durante tutta la Guerra Fredda. Poterono usare la forza militare vicino ai loro confini, ma non poterono intraprendere nulla di simile alle guerre in Indocina, per esempio.

La Francia sembra essere diventata un obiettivo preferito dei terroristi fondamentalisti islamici. Qual è la spiegazione di questo?

In realtà sono molti di più gli africani uccisi dal terrorismo islamico. Boko Haram è infatti classificato più in alto rispetto all’ISIS come organizzazione terroristica globale. In Europa la Francia è stata l’obiettivo principale in gran parte per motivi che risalgono alla guerra di Algeria.

Il terrorismo fondamentalista islamico del genere promosso dall’ISIS è stato condannato da organizzazioni come Hamas ed Hezbollah. Che cosa differenzia l’ISIS da altre cosiddette organizzazioni terroriste, e che cosa vuole realmente l’ISIS?

Dobbiamo stare attenti a ciò che chiamiamo “organizzazioni terroriste”. I partigiani anti-nazisti usarono il terrore. E lo ha usato anche l’esercito di George Washington a tal punto che una gran parte della popolazione scappò per la paura del suo terrore – per non parlare della comunità indigena, secondo la quale Washington era «il distruttore di città». È difficile trovare un movimento nazionale di liberazione che non abbia usato il terrore. Hezbollah e Hamas si sono formate in reazione all’occupazione e all’aggressione di Israele. Ma qualsiasi criterio usiamo, l’ISIS è una cosa molto diversa. Sta cercando di ritagliarsi un territorio che governerà e di istituire un califfato islamico. È molto diverso dagli altri movimenti.

In seguito al massacro di Parigi del novembre 2015, durante una conferenza stampa congiunta con il presidente francese Hollande, Obama ha dichiarato che «l’ISIS deve essere distrutta». Pensa che sia possibile farlo? Se sì, come? Se no, perché no? 

Naturalmente l’Occidente ha la capacità di massacrare tutti nelle zone controllate dall’ISIS, ma anche questo non distruggerebbe l’ISIS – o qualunque altro movimento brutale che si dovesse sviluppare al suo posto seconda la dinamica che ho citato prima. Uno scopo dell’ISIS è di trascinare i “crociati” in una guerra con tutti i musulmani. Possiamo contribuire a questa catastrofe, oppure possiamo tentare di affrontare le radici del problema e di contribuire a creare le condizioni in cui la mostruosità dell’ISIS possa essere sconfitta da forze interne alla regione.
L’intervento straniero nella regione è stata una maledizione per molto tempo ed è probabile che continui ad esserlo. Ci sono proposte sensate su come procedere su questa linea, per esempio quella fatta da William Polk, un raffinato studioso di Medio Oriente. Tale proposta ha un considerevole appoggio da parte chi ha studiato da vicino le ragioni dell’attrattiva dell’ISIS, come per esempio l’antropologo Scott Atran. Sfortunatamente, le possibilità che i loro consigli siano ascoltati sono scarse.

L’economia politica bellica statunitense sembra essere strutturata in modo tale da apparire quasi inevitabile, una cosa di cui il presidente Dwight Eisenhower sembrava essere consapevole quando ci avvertì, nel suo discorso di commiato, dei pericoli del complesso militare-industriale. Secondo te cosa ci vorrà per far allontanare gli Stati Uniti dallo sciovinismo militaristico?

È vero che certi settori dell’economia traggono vantaggio dallo “sciovinismo militaristico”, ma non penso che questa sia la causa principale. Ci sono considerazioni internazionali geostrategiche ed economiche di grande importanza. I benefici economici – che rappresentano solo un fattore – furono molto dibattuti sui giornali di economia all’inizio del dopoguerra. Si capì che le massicce spese fatte dal governo avevano salvato il paese dalla depressione e c’era grande preoccupazione che se le spesa pubblica fosse stata ridotta il paese sarebbe ricaduto nella depressione. Un articolo molto interessante pubblicato sulla rivista Business Week il 12 febbraio 1949 notava che la spesa sociale avrebbe potuto avere lo stesso effetto espansivo della spesa militare, ma che «c’è una grandissima differenza tra le politiche espansive in campo sociale e quelle in campo militare». Le seconde «non alterano realmente la strutture dell’economia», mentre la spesa per i sussidi pubblici e le opere pubbliche «altera davvero l’economia. Crea nuovi canali propri. Crea nuove istituzioni. Redistribuisce il reddito». Le spese militari non coinvolgono quasi per niente i cittadini, mentre la spese sociali  sì, e hanno un effetto democratizzante. Per ragioni analoghe a queste, si preferiscono molto di più le spese militari.

A proposito del legame tra cultura politica statunitense e militarismo, pensi che l’apparente declino della supremazia americana nell’arena globale renderà i futuri presidenti più o meno guerrafondai? 

Gli Stati Uniti raggiunsero il picco del loro potere dopo la seconda guerra mondiale, ma il declino arrivò molto presto con la “perdita della Cina” (quando la Cina divenne comunista) e in seguito con una rinascita delle potenze industriali ed il corso agonizzante della decolonizzazione e, in anni più recenti, con altre forme di diversificazione del potere. Ci sono vari modi in cui si può reagire a questo fenomeno. Uno è quella del trionfalismo e dell’aggressività in stile Bush. Un altro è quello della reticenza ad usare le truppe di terra, che è lo stile di Obama. Esistono numerosi altri modi. L’umore popolare non è di scarsa importanza ed è un aspetto sul quale possiamo sperare di avere influenza.

La sinistra dovrebbe appoggiare Ben Sanders quando si affilia al gruppo parlamentare del Partito Democratico?

Penso di sì. La sua campagna ha avuto un effetto salutare. Ha sollevato importanti problemi che sono altrimenti evitati e ha spostato leggermente i democratici in una direzione più progressista. Le probabilità che possa essere eletto nel nostro sistema elettorale dominato dai soldi non sono molto alte, e se lo fosse sarebbe estremamente difficile per lui effettuare un qualunque cambio di politica. I repubblicani non spariranno, e grazie ai brogli e ad altre tattiche è probabile che finiranno per controllare almeno la Camera, come hanno fatto per alcuni anni con una minoranza di voti, ed è probabile che faranno la voce grossa anche nel Senato. Si può contare sul fatto che i repubblicani bloccheranno qualunque passo che vada verso una direzione più progressista (o razionale). È importante riconoscere che non sono più un partito politico normale.
Perfino i piccoli passi mossi da Obama in una direzione più progressista sono stati per lo più bloccati, anche se in quel caso possono aver giocato un ruolo anche altri fattori, come il razzismo. In generale, però, nell’improbabile caso che Sanders venga eletto, le sue mani sarebbero legate, a meno che non si sviluppino dei movimenti popolari, creando un’onda che Sanders potrebbe cavalcare e che potrebbe (e dovrebbe) spingerlo più in là di dove andrebbe altrimenti.
Questo ci porta, credo, alla parte più importante della candidatura di Sanders. Ha mobilitato un enorme numero di persone. Se quelle forze possono essere sostenute anche dopo le elezioni, invece di farle affievolire una volta che lo spettacolo è finito, potrebbero diventare il tipo di forza popolare di cui il paese ha bisogno per affrontare le sfide che verranno.
Le suddette osservazioni si riferiscono alla politica interna, le aree su cui Sanders si è concentrato maggiormente. Le sue concezioni e proposte di politica estera mi sembrano, invece, piuttosto convenzionalmente liberaldemocratiche.

Un’ultima domanda. Che cosa diresti a coloro che sostengono l’idea che porre fine alla “guerra al terrore” è ingenuo e sbagliato?

Semplice: perché? E, soprattutto, perché pensate che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a dare un contributo importante al terrorismo globale, mascherato da “guerra al terrore”?

Pubblicato su Truthout il 3 dicembre 2015. 

mercoledì 21 novembre 2012

E la chiamano «guerra». - Noam Chomsky



Noam Chomsky: l'operazione militare israeliana contro Gaza non è una guerra, ma la fase finale della campagna di pulizia etnica dei palestinesi

Editoriale pubblicato su Il Manifesto, 21 novembre 2012

L'incursione e i bombardamenti su Gaza non puntano a distruggere Hamas. Non hanno il fine di fermare il fuoco di razzi su Israele, non puntano a instaurare la pace.

La decisione israeliana di far piovere morte e distruzione su Gaza, di usare armamenti letali degni di un moderno campo di battaglia su una popolazione civile largamente indifesa, è la fase finale di una pluridecennale campagna per fare pulizia etnica dei palestinesi.

Israele usa sofisticati jet da attacco e navi da guerra per bombardare campi profughi densamente popolati, scuole, abitazioni, moschee e slum; per attaccare una popolazione che non ha aviazione né contraerea, armamenti pesanti, unità di artiglieria, blindati (...). E la chiama guerra. Ma non è guerra, è un assassinio.

Quando gli israeliani nei territori occupati dicono che si devono difendere, si difendono nel senso che ogni esercito occupante deve difendersi dalla popolazione che sta schiacciando. Non puoi difenderti, quando stai occupando militarmente la terra di qualcun altro.

Questa non è difesa. Chiamatela come volete, ma non è difesa.


http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=41763&typeb=0