Avrebbero risparmiato persino sulla manutenzione “spicciola” del Ponte Morandi, per poter poi fare tanta costosa manutenzione straordinaria. Che, contrariamente a quella ordinaria, si può far molto pesare per rincarare i pedaggi. Bisogna arrivare a pagina 84 (sulle 88 complessive di testo principale) della relazione della commissione ispettiva ministeriale sul crollo del Ponte Morandi per leggere quella che forse è l’accusa più grave mossa finora dal Governo ad Autostrade per l’Italia (Aspi) dopo la tragedia del 14 agosto.
Un’accusa alla quale la società controllata dai Benetton non pare aver replicato esplicitamente nel comunicato seguito alla pubblicazione della relazione sul sito del ministero, ma che andrebbe comunque dimostrata fino in fondo dalla Procura di Genova per essere utilizzata ai fini del processo ai responsabili del disastro. Andrebbe infatti accertato che i vertici di Aspi hanno consapevolmente scelto questa politica proprio per ottenere quella «massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali» di cui parla la relazione ministeriale.
Ma di sicuro su quest’accusa farà leva il Governo per andare avanti con la procedura di «caducazione» della concessione di Aspi, avviata già il 16 agosto. Un iter che, come quel giorno chiarì il premier Giuseppe Conte, non attenderà l’esito del processo. Ma di sicuro durerà molto e forse addirittura di più, considerato che poi probabilmente Aspi si opporrà alle decisioni governative, con ricorsi al Tar e/o al Tribunale civile.
Meno manutenzione, più corrosione.
Per argomentare la loro accusa, i commissari ministeriali parlano di «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria». Come la mancata pulizia degli scarichi dell’acqua piovana, «segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale».E già nel 1981 il progettista del viadotto, Riccardo Morandi, aveva rilevato infiltrazioni d’acqua nei «cassoni» - cioè all’interno degli impalcati (parti orizzontali di cemento sui cui si trova l’asfalto) che sono sostenuti dai piloni - che avevano innescato processi di corrosione.
Un particolare importante, nella ricostruzione che fanno i commissari: secondo loro, le cause più probabili all’origine del crollo sarebbero proprio cedimenti negli impalcati cassonati e non negli stralli (le grandi “bacchette” di calcestruzzo che scendono oblique dall’estremità superiore delle «antenne», i tre piloni più alti del viadotto per completare il sostegno dei cassoni, che poggiano su «cavalletti» posti in corrispondenza di questi piloni), su cui invece pare si concentrino soprattutto i periti nominati dalla Procura di Genova.
La minimizzazione degli interventi è denunciata dalla relazione ministeriale anche per le condizioni di usura degli impalcati tampone (le parti orizzontali di cemento che stanno sospese, con gli estremi appoggiati sugli impalcati a cassone). Durante le normali ispezioni periodiche, era emerso che alcuni cavi metallici di armatura delle travi (le parti longitudinali che compongono la parte bassa degli impalcati tampone) erano rotti. Secondo i commissari, si sarebbe potuto ipotizzare con «alta probabilità» che la rottura dei cavi riguardasse tutti e 10 gli impalcati tampone da cui è costituito il viadotto.
Eppure «Aspi aveva effettuato interventi di rinforzo solo su tre di questi», mentre i rimanenti - quelli della parte ovest verso Savona non toccata dal crollo, dove non ci sono le pile alte con gli stralli ma i periti della Procura in effetti hanno riscontrato quasi subito un «degrado rilevante e diffuso» - non era stato ancora «previsto alcun intervento, per ragioni ignote a questa Commissione».
Sottovalutazioni e ritardi.
In generale, i commissari si soffermano molto su problemi riscontrati nelle ispezioni periodiche su varie parti del viadotto. Soprattutto per evidenziare la sottovalutazione nel classificarli (con voti) e il ritardo con cui sono stati sanati (quando lo sono stati), anche quando la gravità riconosciuta dagli stessi ispettori avrebbe comportato interventi in somma urgenza (secondo il manuale sulla manutenzione programmata predisposto proprio da Aspi).
Proprio i ritardi avrebbero contribuito a degradare il ponte sempre più. La relazione ministeriale sembra suggerire che l’intento del gestore fosse quello di arrivare alla fine a massimizzare i costi della manutenzione straordinaria da far riconoscere ai fini dei rincari del pedaggio, ma invece nel caso del Ponte Morandi l’effetto dei ritardi, unito alla sottovalutazione dei rischi potenziali, è stato il crollo.
Guerra di cifre sui costi.
In altre parole, non si sarebbe fatto in tempo a spendere i soldi che ormai erano divenuti necessari per mantenere aperto il viadotto. La relazione ministeriale vuole dimostrarlo anche evidenziando che dal 2005 a oggi (cioè dopo il primo quinquennio di gestione Aspi) per gli interventi non strutturali sul Ponte Morandi si sono spesi 8,7 milioni, per quelli strutturali appena 440mila euro (circa 23mila l’anno). Prendendo in considerazione la vita del viadotto dal 1982 in poi, appena il 2% dei costi per interventi strutturali è stato sostenuto da Aspi: il 98% era stato a carico della precedente gestione, quella statale dell’Iri.
Aspi nel suo comunicato di ieri obietta che non avrebbe dovuto spendere nulla di più: il grosso dei costi per interventi strutturali sarebbe stato dovuto alla necessità di correggere i difetti di costruzione del Ponte Morandi (su cui non a caso l’amministratore delegato Giovanni Castellucci ha battuto fin dalle sue prime dichiarazioni dopo il crollo), venuti fuori già durante la gestione Iri.
Ma i commissari scrivono che la spesa di Aspi si è mantenuta bassa «nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado». Quindi anche per il gestore privato ci sarebbe stato da spendere.
L’autodifesa del ministero.
La minimizzazione, secondo i commissari, non riguardava solo le decisioni di effettuare lavori, ma anche il modo in cui il progetto di rinforzo («retrofitting») degli stralli del viadotto che stava per essere attuato era stato presentato al ministero delle Infrastrutture. L’operazione era stata definita solo come un mero ripristino conservativo dell’opera.
Ciò avrebbe tratto in inganno gli organi ministeriali dalla cui approvazione era passato il progetto, inducendoli a non far intervenire il Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Ciò avrebbe comportato un’approvazione “meno accurata”, a causa della quale ora tra gli attuali indagati per il crollo ci sono anche membri del Comitato tecnico amministrativo dell’ufficio territoriale del ministero, il Provveditorato alle opere pubbliche.
Dunque, un’accusa pesante come la minimizzazione di interventi e problemi per massimizzare i profitti serve anche al ministero per allontanare da sé sospetti che, nelle prime settimane dell’inchiesta penale sulla vicenda, si erano fatte sempre più imbarazzanti.
Il modo di operare di Autostrade.
In ogni caso, il tono complessivo della relazione sembra suggerire che la noncuranza facesse parte del modo di Aspi di gestire la propria rete, pari a metà delle autostrade italiane: dal fatto che gli utenti sarebbero stati utilizzati come inconsapevoli cavie alla mancata preoccupazione per le incertezze dei metodi adottati per valutare il degrado del viadotto (aspetto già emerso almeno riguardo agli stralli fin dalle prime battute dell’inchiesta della Procura), fino alle risposte dei dirigenti di Aspi sentiti dai commissari.
D’altra parte, la relazione non li cita, ma gli episodi importanti emersi nella gestione della rete di Aspi che potrebbero confermare il sospetto di noncuranza si sono moltiplicati in questo decennio e sono di certo noti ai commissari. Dal degrado accertato delle barriere che avrebbe concorso a far precipitare un bus dal viadotto Acqualonga dell’A16 presso Avellino il 28 luglio 2013 (altri 40 morti, sentenza di primo grado attesa per il prossimo dicembre con imputati anche dirigenti di Aspi tra cui l’amministratore delegato, Giovanni Castellucci) alla mancata manutenzione degli impianti antincendio del delicatissimo tratto urbano bolognese dell’A14 (vi morì bruciata una ragazza a giugno 2013). Dai sequestri del 2014 sull’Autosole delle vecchie barriere del tratto appenninico dell’A1 presso Firenze (lasciate sui viadotti per anni in attesa dei lavori di ampliamento del tratto a sud della nuova Variante di valico) e a fine 2013 del cavalcavia dello svincolo di Ferentino (costruito male da un’impresa in odor di camorra che si era aggiudicata vari lavori di Aspi) al crollo di un portale segnaletico (di quella stessa impresa) a Santa Maria Capua Vetere nel 2011. Fino al crollo di un cavalcavia dell’A14 a Camerano (Ancona) il 9 marzo 2017 con due morti, nell’ambito dei lavori per la terza corsia che avrebbero richiesto massima attenzione perché si svolgevano a traffico aperto.
Ma di sicuro su quest’accusa farà leva il Governo per andare avanti con la procedura di «caducazione» della concessione di Aspi, avviata già il 16 agosto. Un iter che, come quel giorno chiarì il premier Giuseppe Conte, non attenderà l’esito del processo. Ma di sicuro durerà molto e forse addirittura di più, considerato che poi probabilmente Aspi si opporrà alle decisioni governative, con ricorsi al Tar e/o al Tribunale civile.
Meno manutenzione, più corrosione.
Per argomentare la loro accusa, i commissari ministeriali parlano di «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria». Come la mancata pulizia degli scarichi dell’acqua piovana, «segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale».E già nel 1981 il progettista del viadotto, Riccardo Morandi, aveva rilevato infiltrazioni d’acqua nei «cassoni» - cioè all’interno degli impalcati (parti orizzontali di cemento sui cui si trova l’asfalto) che sono sostenuti dai piloni - che avevano innescato processi di corrosione.
Un particolare importante, nella ricostruzione che fanno i commissari: secondo loro, le cause più probabili all’origine del crollo sarebbero proprio cedimenti negli impalcati cassonati e non negli stralli (le grandi “bacchette” di calcestruzzo che scendono oblique dall’estremità superiore delle «antenne», i tre piloni più alti del viadotto per completare il sostegno dei cassoni, che poggiano su «cavalletti» posti in corrispondenza di questi piloni), su cui invece pare si concentrino soprattutto i periti nominati dalla Procura di Genova.
La minimizzazione degli interventi è denunciata dalla relazione ministeriale anche per le condizioni di usura degli impalcati tampone (le parti orizzontali di cemento che stanno sospese, con gli estremi appoggiati sugli impalcati a cassone). Durante le normali ispezioni periodiche, era emerso che alcuni cavi metallici di armatura delle travi (le parti longitudinali che compongono la parte bassa degli impalcati tampone) erano rotti. Secondo i commissari, si sarebbe potuto ipotizzare con «alta probabilità» che la rottura dei cavi riguardasse tutti e 10 gli impalcati tampone da cui è costituito il viadotto.
Eppure «Aspi aveva effettuato interventi di rinforzo solo su tre di questi», mentre i rimanenti - quelli della parte ovest verso Savona non toccata dal crollo, dove non ci sono le pile alte con gli stralli ma i periti della Procura in effetti hanno riscontrato quasi subito un «degrado rilevante e diffuso» - non era stato ancora «previsto alcun intervento, per ragioni ignote a questa Commissione».
Sottovalutazioni e ritardi.
In generale, i commissari si soffermano molto su problemi riscontrati nelle ispezioni periodiche su varie parti del viadotto. Soprattutto per evidenziare la sottovalutazione nel classificarli (con voti) e il ritardo con cui sono stati sanati (quando lo sono stati), anche quando la gravità riconosciuta dagli stessi ispettori avrebbe comportato interventi in somma urgenza (secondo il manuale sulla manutenzione programmata predisposto proprio da Aspi).
Proprio i ritardi avrebbero contribuito a degradare il ponte sempre più. La relazione ministeriale sembra suggerire che l’intento del gestore fosse quello di arrivare alla fine a massimizzare i costi della manutenzione straordinaria da far riconoscere ai fini dei rincari del pedaggio, ma invece nel caso del Ponte Morandi l’effetto dei ritardi, unito alla sottovalutazione dei rischi potenziali, è stato il crollo.
Guerra di cifre sui costi.
In altre parole, non si sarebbe fatto in tempo a spendere i soldi che ormai erano divenuti necessari per mantenere aperto il viadotto. La relazione ministeriale vuole dimostrarlo anche evidenziando che dal 2005 a oggi (cioè dopo il primo quinquennio di gestione Aspi) per gli interventi non strutturali sul Ponte Morandi si sono spesi 8,7 milioni, per quelli strutturali appena 440mila euro (circa 23mila l’anno). Prendendo in considerazione la vita del viadotto dal 1982 in poi, appena il 2% dei costi per interventi strutturali è stato sostenuto da Aspi: il 98% era stato a carico della precedente gestione, quella statale dell’Iri.
Aspi nel suo comunicato di ieri obietta che non avrebbe dovuto spendere nulla di più: il grosso dei costi per interventi strutturali sarebbe stato dovuto alla necessità di correggere i difetti di costruzione del Ponte Morandi (su cui non a caso l’amministratore delegato Giovanni Castellucci ha battuto fin dalle sue prime dichiarazioni dopo il crollo), venuti fuori già durante la gestione Iri.
Ma i commissari scrivono che la spesa di Aspi si è mantenuta bassa «nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado». Quindi anche per il gestore privato ci sarebbe stato da spendere.
L’autodifesa del ministero.
La minimizzazione, secondo i commissari, non riguardava solo le decisioni di effettuare lavori, ma anche il modo in cui il progetto di rinforzo («retrofitting») degli stralli del viadotto che stava per essere attuato era stato presentato al ministero delle Infrastrutture. L’operazione era stata definita solo come un mero ripristino conservativo dell’opera.
Ciò avrebbe tratto in inganno gli organi ministeriali dalla cui approvazione era passato il progetto, inducendoli a non far intervenire il Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Ciò avrebbe comportato un’approvazione “meno accurata”, a causa della quale ora tra gli attuali indagati per il crollo ci sono anche membri del Comitato tecnico amministrativo dell’ufficio territoriale del ministero, il Provveditorato alle opere pubbliche.
Dunque, un’accusa pesante come la minimizzazione di interventi e problemi per massimizzare i profitti serve anche al ministero per allontanare da sé sospetti che, nelle prime settimane dell’inchiesta penale sulla vicenda, si erano fatte sempre più imbarazzanti.
Il modo di operare di Autostrade.
In ogni caso, il tono complessivo della relazione sembra suggerire che la noncuranza facesse parte del modo di Aspi di gestire la propria rete, pari a metà delle autostrade italiane: dal fatto che gli utenti sarebbero stati utilizzati come inconsapevoli cavie alla mancata preoccupazione per le incertezze dei metodi adottati per valutare il degrado del viadotto (aspetto già emerso almeno riguardo agli stralli fin dalle prime battute dell’inchiesta della Procura), fino alle risposte dei dirigenti di Aspi sentiti dai commissari.
D’altra parte, la relazione non li cita, ma gli episodi importanti emersi nella gestione della rete di Aspi che potrebbero confermare il sospetto di noncuranza si sono moltiplicati in questo decennio e sono di certo noti ai commissari. Dal degrado accertato delle barriere che avrebbe concorso a far precipitare un bus dal viadotto Acqualonga dell’A16 presso Avellino il 28 luglio 2013 (altri 40 morti, sentenza di primo grado attesa per il prossimo dicembre con imputati anche dirigenti di Aspi tra cui l’amministratore delegato, Giovanni Castellucci) alla mancata manutenzione degli impianti antincendio del delicatissimo tratto urbano bolognese dell’A14 (vi morì bruciata una ragazza a giugno 2013). Dai sequestri del 2014 sull’Autosole delle vecchie barriere del tratto appenninico dell’A1 presso Firenze (lasciate sui viadotti per anni in attesa dei lavori di ampliamento del tratto a sud della nuova Variante di valico) e a fine 2013 del cavalcavia dello svincolo di Ferentino (costruito male da un’impresa in odor di camorra che si era aggiudicata vari lavori di Aspi) al crollo di un portale segnaletico (di quella stessa impresa) a Santa Maria Capua Vetere nel 2011. Fino al crollo di un cavalcavia dell’A14 a Camerano (Ancona) il 9 marzo 2017 con due morti, nell’ambito dei lavori per la terza corsia che avrebbero richiesto massima attenzione perché si svolgevano a traffico aperto.