martedì 2 aprile 2019

Agricoltura, il primo eco-diserbante è italiano: “Tutto è nato per salvare le api”. - Silvia Bia

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Si tratta di un composto a base di scarti di malvasia, lana e olio d’oliva scoperto da un team di ricercatori e imprese capitanato da Daniela Ducato, responsabile della filiera “Edizero Architecture for peace”. L’idea, maturata dopo anni di sperimentazioni e ricerche, è nata da un’esigenza molto concreta: salvare le api che morivano a causa degli agenti chimici dei diserbanti tradizionali.

Niente additivi chimici, glifosati e sostanze che avvelenano l’ambiente. Dall’Italia, e in particolare dalla Sardegna, arriva il primo eco-diserbante che promette di sostituire i tradizionali preparati sintetici considerati nocivi per coltivazioni, animali e anche per l’uomo. Il segreto? Un composto a base di scarti di malvasia, lana e olio d’oliva scoperto da un team di ricercatori e imprese capitanato da Daniela Ducato, responsabile della filiera “Edizero Architecture for peace”, che da anni lavora nel campo della bioedilizia e dell’agricoltura con innovazioni a zero impatto sull’ambiente che vanno dall’isolamento termico alle tinture o ai filtri marini.
“Nella realtà di tutti i giorni siamo sedotti da tutto quello che è chimico, ma le soluzioni alternative ci sono e possono dare risultati anche migliori, è soltanto una questione culturale” spiega Daniela Ducato, che con i suoi progetti è stata premiata recentemente in India tra i rappresentanti delle dieci migliori realtà più innovative al mondo. Il problema, chiarisce, “è che non ci rendiamo conto del pericolo delle sostanze che vengono utilizzate con tranquillità per esempio per il trattamento del verde urbano, e che invece nascondono seri rischi per gli animali domestici come cani e gatti, ma anche per i bambini che frequentano i parchi, o per noi stessi che mangiamo determinati prodotti”.
“Non ci rendiamo conto del pericolo delle sostanze usate per il trattamento del verde urbano. Nascondono seri rischi per gli animali domestici e per i bambini”
Una delle ultime trovate della squadra di lavoro messa insieme dall’innovatrice sarda è stato proprio l’eco-diserbante Natural Weed Control, un diserbante completamente naturale prodotto all’interno della filiera Ortolana, primo al mondo nel suo genere e già sperimentato con successo dall’Italia agli Stati Uniti. “Con Ortolana eravamo già impegnati nel campo degli agritessili, in cui utilizziamo prodotti tessili per il risparmio idrico e la rigenerazione del suolo – racconta Ducato – Volevamo fare un passo in più per creare qualcosa di naturale che potesse contribuire alle coltivazioni senza nuocere agli addetti ai lavori e ai consumatori finali, ma soprattutto che potesse essere messo in commercio e risultare competitivo sul mercato”.

Nel caso del bio-diserbante di Ortolana, tutto è cominciato dalle api. L’idea infatti, maturata dopo anni di sperimentazioni e ricerche, è nata da un’esigenza molto concreta: salvare le api che morivano a causa degli agenti chimici dei diserbanti tradizionali e salvaguardare allo stesso tempo l’agricoltura dagli effetti nocivi delle sostanze. “In Sardegna ci sono moltissimi apicoltori che chiedevano aiuto in quel senso, l’input è arrivato dall’associazione nazionale Città del Miele – racconta l’ideatrice del progetto –. Le api e le farfalle sono le prime a risentire delle conseguenze sui trattamenti del terreno, ma hanno la funzione importantissima di impollinare. Volevamo qualcosa che potesse risolvere il problema senza danneggiare l’equilibrio della natura”.
“Le api e le farfalle sono le prime a risentire delle conseguenze sui trattamenti del terreno, ma hanno la funzione importantissima di impollinare”
risultati hanno richiesto ricerche, studi e confronti con altre realtà che hanno collaborato alla realizzazione del prodotto finale, grazie anche alla sinergia creata da Coldiretti tra i vari attori in campo. Si è arrivati così a un mix virtuoso: dall’ingrediente della Malvasia di Bosa delle cantine Silattari alle macchine dell’azienda Cavalli&Cavalli, fino a Marco Cau, il laboratorio Agritettura e naturalmente alla linea Ortolana, che si occupa di agritessili e di produzioni agricole bio.

Fulcro dell’eco-diserbante è la lana di pecora, a cui si aggiungono scarti di olio d’oliva e altri ingredienti come le eccedenze delle lavorazioni vitivinicole e gli estratti dalla pulizia delle arnie, tra cui propoli o miele. Tutti elementi di scarto insomma, in grado di creare insieme un diserbante al cento per cento naturale che svolge la sua funzione non grazie agli agenti chimici, ma attraverso il vapore e il calore.
“Mettendo insieme questi elementi la pianta intrappola il calore e si secca già dopo due giorni dal trattamento. Inoltre le altre sostanze– chiarisce Ducato – favoriscono un effetto prolungato senza creare problemi al suolo o alterare il suo ph”. A seconda della composizione, il bio-diserbante può essere sfruttato per la protezione di orti, vigneti, frutteti e per il trattamento del verde urbano. E tutto, senza inquinare e con la massima sicurezza di dei consumatori e degli agricoltori, che possono utilizzarlo senza mascherine o protezioni, in quanto tutti gli elementi sono naturali. “Non possiamo permetterci di essere uguali agli altri – continua Ducato – la nostra ‘chimica verde’ deve avere migliori prestazioni di quella tradizionale”.
“Non possiamo permetterci di essere uguali agli altri la nostra ‘chimica verde’ deve avere migliori prestazioni di quella tradizionale”
Le performance del nuovo prodotto ideato dal team di impresericercatori hanno già ricevuto apprezzamenti non solo in Italia, ma anche in Francia e perfino negli Stati Uniti. L’eco-diserbante è stato utilizzato con successo per debellare le erbacce che crescevano incontrastate nelle aree urbane di Cagliari: “Il Comune ha provato di tutto, alla fine hanno chiamato noi e sono stati soddisfatti”.

Ma Sardegna e Italia non sono i soli a fare uso del primo diserbante bio al mondo. In Francia i viticoltori, ancora prima di quelli italiani, hanno già fatto incetta del prodotto e negli Usa l’eco-diserbante è impiegato da Gea Group, leader nella coltivazione di piante farmaceutiche, tra cui la pervinca del Madagascar, che serve per la cura della leucemia. Per ora i macchinari modificati ad hoc per il prodotto sono tre, ma il mercato è destinato a crescere insieme agli impieghi del diserbante, come dimostra l’interesse dimostrato in tutto il mondo per l’innovazione. Uno dei prossimi passi sarà quello dell’utilizzo pensato per le famiglie, magari per la coltivazione di piccoli orti casalinghi. Ma è solo l’inizio. “Nel settore c’è ancora molto da fare – conclude Ducato – Noi abbiamo avuto il ruolo di apripista e non ci tiriamo indietro, siamo fiduciosi che si possa andare sempre più avanti in questa direzione”.

lunedì 1 aprile 2019

COME PARLARE SEMPRE MALE DEI 5 STELLE E VIVERE FELICI (SOPRATTUTTO IN TIVÙ). - Andrea Scanzi

L'immagine può contenere: testo

Ti hanno invitato a un dibattito? A cena si parla del governo? Al bar non ti danno il cappuccino se prima non dici come la pensi su Paola Taverna? Niente paura: corri in edicola e acquista “Come parlare sempre male dei 5 Stelle anche se in realtà stai parlando di filosofia teoretica”. Autori vari, EdizioniCarofiglio Umile, costo 180 euro (però ben spese). E’ un libro irrinunciabile, che parte dall’unico assioma della politica attuale: i 5 Stelle hanno torto anche quando hanno ragione. Oppure, se preferite, “i grillini ci hanno la rogna”. E’ un po’ la versione nostrana del noto paradosso di Edward Lorenz: "Può, il batter d'ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?". Oggi la frase è diventata così: “Può un ruttino di Mario Giarrusso provocare la Terza Guerra Mondiale?”. La risposta è “sì”, perché l’unica certezza nella vita è che i 5 Stelle sono il Male e il Pd il Bene. Ce lo ha ricordato due giorni fa a Otto e mezzo anche Alessandro De Angelis, autoproclamatosi “quirinalista” per mancanza di prove, che mentre si parlava di quel troiaio del Congresso delle Famiglie di Verona (su cui la pensa come i 5 Stelle, ma non può dirlo), ha buttato la palla in tribuna dicendo che “però il M5S ha appoggiato il Dl Salvini e la legge sulla legittima difesa, quindi sta uccidendo i diritti”. Tutte cose che in quel momento non c’entravano nulla, e dunque per De Angelis andavano benissimo. Raggiungere il talento dei “sermonisti” catodici oggi di moda non è facile, ma il libro vi aiuterà a muovervi nell’agorà politica con esempi concreti. Eccone tre.

Sessismo e Toninelli. I 5 Stelle si stanno battendo per aumentare le pene sul femminicidio, varare una legge ad hoc sul revenge porn e contrastare i troppi Gandolfini. Però non si può dire, perché i grillini sono - per antonomasia – omofobi e sessisti: garantiscono Cirinnà e Costantino della Gherardesca. Quindi, se qualche odioso Travaglio vi sta ricordando alcune mosse in apparenza condivisibili dei 5 Stelle, voi non fidatevi. E spostate subito a caso il tema del dibattito. Tipo: “Sì, però diciotto anni fa mi han detto che Toninelli guardò il culo di un ragazza mentre faceva la fila per comprare due etti di migliaccio in una macelleria di Crema, quindi è sessista. C’era anche Severgnini che può confermare”. Se lo direte, non mancherà una Marianna Aprile ad applaudirvi, per aggiungere poi che (testuale) “i 5 Stelle hanno un’idea ancillare della donna”.

Povertà e Di Maio. Non conta nulla che i 5 Stelle abbiano varato Decreto Dignità, reddito di cittadinanza e (si spera) salario minimo, tutte cose che se le avesse fatte Zingaretti oggi Giannini lo paragonerebbe come minimo a Bordiga. Non conta: i grillini restano – per antonomasia – fascisti e schiavisti. Quindi, anche qui, dovete spostare l’attenzione. Per esempio: “Queste sono armi di distrazioni di massa della propaganda grillina. La verità è che Di Maio, quando faceva il bibitaro, una volta rubò una Zigulì allo stadio ed è stato proprio il mancato gettito di quell’acquisto a provocare la crisi mondiale”. Se poi aggiungerete che a 17 anni Di Maio trafugò pure un UniPosca in una tabaccheria di Afragola “ed è per questo che oggi mancano le coperture”, Giannini vi erigerà una statua equestre.

Corruzione e Bonafede. La Spazzacorrotti è (più o meno) quella legge che milioni di elettori avrebbero voluto dal centrosinistra nell’infinito lasso di tempo intercorso tra il 1994 e il 2018, ma anche questo non si può dire. Quindi confutate tutto, possibilmente senza argomenti. Tipo: “La deriva giacobino-grillina è un pericolo per le libertà faticosamente conseguite col sangue dei nostri avi”. Pausa. Poi (con l’aria di un Augias che ti rivela il senso della vita): “Mio nonno era partigiano con Pertini. Fu proprio Sandro, durante i lunghi anni della prigionia, a dirgli che il problema del Paese non era il fascismo bensì Bonafede. Che non era ancora nato, ma già rompeva i coglioni”.
Cosa aspettate? Comprate il libro e, nel dubbio, date sempre la colpa ai 5 Stelle: i tanti Zucconi, nel senso di Vittorio (ma forse non solo), ve ne saranno grati.

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venerdì 29 marzo 2019

“Il partito sbagliato” - Marco Travaglio

Quando si analizza il calo dei 5Stelle nei sondaggi e nelle urne, si parla sempre dell’alleanza con la Lega, degli errori, delle gaffe, degli scandali. Tutto vero. Ma non si parla mai del trattamento speciale, ad movimentum, che riserva loro la stampa. Che sarà anche meno letta di un tempo, ma rimane il principale produttore di contenuti, poi ripresi e irradiati da tv, radio e siti web. Da dieci anni, cioè da quando nacquero, i 5Stelle sono l’obiettivo unico del tiro al bersaglio concentrico da destra, dal centro e da sinistra. Una caccia all’uomo che dipende dal loro essere contro tutti. Ma anche dalla loro refrattarietà e incompatibilità con tutti i poteri che regnano sulla politica e sull’informazione al seguito.  Così lo sputtanamento è a senso unico. E chi, come noi, si sforza di trattare tutti allo stesso modo a parità di notizie, passa pure per simpatizzante di questo o di quello. Perché, quando c’è di mezzo un 5Stelle, tutte le categorie di pensiero e le prassi consolidate non valgono più, anzi vengono ribaltate. Anche sui fatti meno importanti. Appena eletto segretario Pd, Nicola Zingaretti ha sbagliato un congiuntivo: fosse stato Toninelli o Di Maio, sarebbe stato sbeffeggiato con appositi video e articoli. Invece Repubblica, che non si perde un errore pentastellato, ha ripreso la frase di Zinga, ma gli ha corretto il congiuntivo: non sia mai che qualche lettore possa dubitare della sua infallibilità. 
Lo stesso gioco sporco investe le scelte politiche: c’è chi ha sempre ragione e chi ha sempre torto. Gli stessi giornali (tutti) che nel 2012 avevano plaudito al No del governo Monti alle Olimpiadi di Roma 2020, quattro anni dopo hanno massacrato la sindaca Raggi per il no a Roma 2024. Gli stessi giornali che per 25 anni avevano chiesto il blocco della prescrizione addirittura al rinvio a giudizio, hanno massacrato il ministro Bonafede perché l’ha bloccata alla sentenza di primo grado. Ma i doppiopesisti danno il meglio di sé sugli scandali giudiziari. Sono dieci anni che tentano di dimostrare che i 5Stelle rubano come gli altri (come se questa fosse una consolazione per noi o un alibi per gli altri). Purtroppo per loro, fino alla scorsa settimana, nessun M5S era mai stato arrestato o inquisito per corruzione o reati simili (le inchieste sulle giunte 5Stelle riguardano bilanci fallimentari ereditati dai predecessori, storie di nomine, l’alluvione a Livorno, la tragedia di piazza San Carlo a Torino, dirigenti comunali imputati per fatti di anni prima). Figurarsi il tripudio quando finalmente è finito in carcere De Vito. Si sperava che portasse con sé la sindaca e tutto il movimento.
Invece pare che lavorasse in proprio e la Raggi lo tenesse a debita distanza. Il che non ha impedito ai giornaloni di titolare sulla Raggi anche le cronache sull’arresto di De Vito, come se il presidente del Consiglio comunale lo nominasse il sindaco. L’indomani però s’è scoperto che, nella vecchia indagine sulle mazzette trasversali di Parnasi per lo stadio – chiusa da tempo con 19 richieste di giudizio (anche per tre politici: due di FI e uno del Pd) – non era stata ancora chiesta l’archiviazione per l’assessore allo Sport Daniele Frongia, indagato nientemeno che per corruzione perché Parnasi gli aveva chiesto qualche giornalista per una sua azienda e lui ne aveva avvertiti tre. Archiviazione peraltro scontata e imminente. E tutti ci si sono buttati a pesce, facendo credere che il caso De Vito coinvolgesse la Raggi tramite il “fedelissimo” Frongia. Bisognava fare in fretta, perché a giorni l’assessore sarebbe stato archiviato e la truffa ai danni di milioni di lettori, telespettatori, radioascoltatori e internettari sarebbe stata smascherata. Infatti sabato Frongia dominava tutte le prime pagine.
“Il cerchio si stringe sulla Raggi. Indagato pure il suo assessore”, “Ora cade il teorema dell’unica mela marcia”, “Cade il sindaco-ombra sempre vicino a Virginia” (il Giornale). “Stadio della Roma. Indagato Frongia, fedelissimo della Raggi, accusato di corruzione. L’inchiesta ha già portato in carcere il grillino De Vito”, “Di Maio chiama la sindaca: ‘Così danneggi il M5S’” (La Stampa). “Indagato Frongia. E ora la Raggi balla davvero. Il fedelissimo della sindaca avrebbe accettato favori dall’imprenditore Parnasi” (il manifesto). “Ciclone giudiziario su Raggi” (Corriere della Sera). “Frongia, fedelissimo di Raggi nella rete della corruzione”, “Campidoglio sotto accusa”, “La giunta Raggi sotto accusa”, “La cricca grillina” (Repubblica). “Assessore indagato, Raggi trema”, “Ascesa e caduta di Daniele”, “Stadio, indagato Frongia” (Messaggero). La prova della malafede era la notizia, ben nascosta negli articoli, che forse già lunedì i pm avrebbero chiesto di archiviare Frongia per non aver fatto nulla di illecito. La riprova è arrivata ieri, quando tutti i giornali (tranne il Messaggero) che sabato sbattevano Frongia indagato in prima pagina hanno nascosto o ignorato Frongia scagionato mercoledì dai pm. La Stampa: 12 righe a pagina 6. Il manifesto: colonnino a pag. 6. Repubblica: nemmeno un titolo, solo un inciso di 6 righe a pag. 18 in un articolo su tutt’altro tema. Il Giornale: una breve a pag. 8. Corriere: una notizietta a pag. 18. Intanto, sempre l’altroieri, la Procura di Milano ha chiesto di condannare a 2 anni di carcere per turbativa d’asta il leghista Massimo Garavaglia. Che non fa l’assessore comunale allo Sport, ma il viceministro dell’Economia. E non è indagato in attesa di archiviazione, ma imputato in attesa di sentenza. Però si è scelto il partito giusto: la Lega. Risultato: un colonnino a pag. 9 sul Corriere, uno a pag. 10 sul Giornale e zero tituli su tutti gli altri quotidiani. Inclusi quelli “de sinistra” che fingono di combattere Salvini. Fosse stato un 5Stelle, prima pagina assicurata. Poi si domandano perché vince Salvini.

Sanità, Censis-Rbm: “L’anno scorso 12,2 milioni di italiani non si sono curati per motivi economici”. - Chiara Daina

Sanità, Censis-Rbm: “L’anno scorso 12,2 milioni di italiani non si sono curati per motivi economici”

Il risultato, secondo il Rapporto Censis-Rbm, è che la spesa sanitaria privata è lievitata a 35,2 miliardi di euro, con un aumento del 4,2 per cento in tre anni (2013-2016).

Nel 2016 12,2 milioni di italiani hanno rinunciato o rinviato le cure sanitarie per motivi economici. Una fetta di emarginati che è notevolmente cresciuta rispetto al 2015 (più 1,2 milioni). E’ quanto emerge dal Rapporto Censis-Rbm. Considerando anche i cittadini che hanno avuto difficoltà economiche e si sono impoveriti per sostenere di tasca propria le spese mediche (intramoenia o in strutture private), la cifra sale a 13 milioni. Di questi, 7,8 milioni sono stati costretti ad attingere ai risparmi di una vita o addirittura a indebitarsi con parenti e amici, fino ad aprire un mutuo in banca. E 1,8 milioni sono precipitati nella fascia di povertà.
Il risultato, si legge nel Rapporto, è che la spesa sanitaria privata è lievitata a 35,2 miliardi di euro, con un aumento del 4,2 per cento in tre anni (2013-2016). In assoluto, secondo il sondaggio Rbm, l’impegno più oneroso è per le visite specialistiche (74,7 per cento), seguito dall’acquisto dei farmaci o dal pagamento del ticket (53,2), dagli accertamenti diagnostici (41,1), prestazioni odontoiatriche (40,2), analisi del sangue (31), lenti e occhiali da vista (26,6), riabilitazione (14,2), protesi, tutori e ausili vari (8,9) e spese di assistenza sociosanitaria.
Il motivo principale per cui si ricorre sempre più spesso al privato sono le liste di attesa troppo lunghe nel pubblico. Queste in parte dipendono dal sott’organico cronico di personale e dall’impatto dell’invecchiamento della popolazione sull’organizzazione socio-sanitaria. Con evidenti disomogeneità locali. Qualche esempio: “Per una mammografia si attendono in media 122 giorni (60 in più rispetto al 2014) e nel Mezzogiorno l’attesa arriva a 142 giorni. Per una colonscopia l’attesa media è di 93 giorni (più 6 giorni rispetto al 2014), ma al Centro di giorni ce ne vogliono 109. Per una risonanza magnetica si attendono in media 80 giorni (6 giorni in più), ma al Sud ne sono necessari 111. Per una visita cardiologica l’attesa media è di 67 giorni (più 8 giorni), ma l’attesa sale a 79 giorni al Centro. Per una visita ginecologica si attendono in media 47 giorni (nel 2014 erano otto in meno), ma ne servono 72 al Centro. Per una visita ortopedica 66 giorni (18 giorni in più), con un picco di 77 giorni al Sud”.
La spending review in sanità, si ricorda nel Rapporto che cita la Corte dei Conti, ha fatto ridurre la spesa sanitaria pubblica pro-capite dell’1,1 per cento l’anno in termini reali dal 2009 al 2015. Diversamente da quanto è accaduto nello stesso periodo in Francia, dove è cresciuta dello 0,8 per cento l’anno, e in Germania (più 2 per cento annuo). La differenza è lampante anche se si osserva l’incidenza della spesa sanitaria rispetto al Pil: il 6,8 per cento da noi, l’8,6 in Francia e il 9,4 in Germania.

Renzi senior «socio occulto» della Marmodiv: il tribunale dichiara il fallimento. - Ivan Cimmarusti



Il tribunale di Firenze ha dichiarato il fallimento della cooperativa Marmodiv, una delle società di cui si occupa l’inchiesta per bancarotta fraudolenta e false fatture nella quale sono indagati, tra gli altri, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo Renzi. La Procura della Repubblica sostiene che i genitori dell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Partito democratico controllassero la società attraverso prestanome e che fossero loro gli amministratori di fatto. Per questo i magistrati hanno anche eseguito misure cautelari.

L’indagine sulla “Eventi6”.
I pm di Firenze sostengono che i Renzi avessero costituito delle cooperative per consentire alla srl “Chil Post”\”Eventi6”, riconducibile agli indagati (...) di avere a disposizione lavoratori dipendenti senza dover sopportare i costi relativi all'adempimento di oneri previdenziali ed erariali, tutti spostati in capo alle cooperative stesse». In sostanza, «la società “Chil Post” (poi “Eventi 6”) si sarebbe avvalsa del personale, formalmente assunto dalle cooperative le quali, non appena raggiunta una situazione di difficoltà economica, sono state dolosamente caricate di debiti previdenziali e fiscali, ed abbandonate al fallimento. Le cooperative si sarebbero succedute nel tempo, mantenendo tuttavia gli stessi dipendenti e gli stessi clienti. La Cooperativa “Marmodiv” avrebbe poi svolto attività di sovrafatturazione per consentire alla “Eventi 6” evasione delle imposte».

Le sovrafatturazioni della “Marmodiv”.
I magistrati indagano anche sulla stessa “Marmodiv”. Gli inquirenti ipotizzano che ci sia una fattura falsa portata allo sconto, in banca, per l’anticipo da parte degli attuali amministratori della cooperativa “Marmodiv”. La cooperativa era stata ceduta dai Renzi ai nuovi amministratori. Il tribunale fallimentare ha fatto eseguire una perizia integrativa proprio in relazione alla voce «fatture da emettere» che il perito aveva messo in dubbio. La perizia supplementare deve anche esplorare l’eventuale ipotesi di reato di falso in bilancio. Al momento, come rileva il gip Angela Fantechi, c’è l’ipotesi di una fattura falsa portata allo sconto per cui è pervenuta una querela da parte di Banca Cambiano. La querela, osserva il giudice, «conferma quanto accertato dalla Guardia di finanza, circa la presentazione allo sconto di fatture false anche in altre ipotesi per opera delle persone a cui Renzi ha ceduto la cooperativa».

https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-03-28/renzi-senior-socio-occulto-marmodiv-tribunale-dichiara-fallimento--200948.shtml?uuid=AB2eVxiB&refresh_ce=1

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https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-02-19/fatture-false-renzi-non-grido-complotto-processo-sia-rapido--101528.shtml?uuid=ABhYjpVB

e anche: 



https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-03-01/renzi-senior-contraddizioni-difesa-quattro-inchieste-fatture-false-183118.shtml?uuid=ABiTDmZB

C’è un unico vero “Russiagate”: ed è quello di Hillary Clinton. - Roberto Vivaldelli

Hillary Clinton durante la campagna elettorale in Iowa

E se il vero “Russiagate” coinvolgesse Hillary Clinton? Ora che l’esito delle indagini del procuratore speciale Mueller ha stabilito che fra la campagna di Donald Trump e la Russia non c’è alcuna “collusione” riemergono le ombre sulle operazioni passate dei democratici. Su tutte, lo scandalo “Uranium One”.

Come rileva Breitbart, un certo numero di domande senza risposta riguardano il ruolo che assunse l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton nel consegnare il 20% delle forniture di uranio americano alla società di proprietà del governo russo. Ad oggi, nessuna seria indagine è stata avviata per fare luce su quella decisione controversa.

Torna alla ribalta il “Russiagate” di Hillary Clinton.
Come riporta Forbes, del caso se n’è occupato di recente il senatore dell’Iowa Chuck Grassley, presidente della commissione giudiziaria del Senato, che ha chiesto informazioni al bureau rispetto a una perquisizione fatta dall’Fbi nella residenza di un informatore che sarebbe stato in possesso di informazioni importanti inerenti la Fondazione Clinton e l’operazione Uranium One.

“Il 19 novembre 2018 – scrive Grassley – l’Fbi ha fatto irruzione nella casa di un suo informatore, il signor Dennis Nathan Cain, che sarebbe in possesso di documenti relativi alla Fondazione Clinton e all’operazione Uranium One”. Il senatore chiede “su quali basi l’Fbi ha deciso di effettuare il suddetto raid il 19 novembre 2018” con la richiesta di “fornire una copia del mandato e di tutte le dichiarazioni sostitutive”. Inoltre, Grassley chiede informazioni a Christopher Wray, direttore del bureau, “rispetto al materiale sequestrato” e se questo “contiene informazioni riservate”. Domande che, ad oggi, non hanno ricevuto risposta o che non sono state rese pubbliche.

L’affare Uranium One.
Come vi abbiamo raccontato su Gli Occhi della Guerra,  secondo i critici, quando era Segretario di Stato, Hillary Clinton usò la sua carica per aiutare la Russia ad acquisire il controllo di un quinto delle riserve americane di uranio in cambio di milioni di dollari versati alla Clinton Foundation, la fondazione di famiglia.

Come spiega Federico Punzi su Formiche, nel 2013, “il colosso statale russo per l’energia atomica, la Rosatom, acquisisce il controllo della compagnia canadese Uranium One e, tramite essa, di un quinto delle riserve minerarie di uranio negli Stati Uniti per un valore di decine di miliardi di dollari.  uranio negli Stati Uniti per un valore di decine di miliardi di dollari. Ovviamente, essendo l’uranio un bene strategico, con evidenti implicazioni per la sicurezza nazionale, l’acquisizione ha avuto bisogno del via libera di una commissione governativa”.

Mentre i russi presero gradualmente il controllo di Uranium One in tre transazioni distinte dal 2009 al 2013, secondo il New York Times  il presidente canadese della compagnia con sede a Toronto, Ian Telfer, fece quattro donazioni diverse alla Clinton Foundation attraverso la fondazione di famiglia, per un totale di 2,35 milioni di dollari. Nel 2010, spiega Punzi, “dopo che la Rosatom annunciò l’intenzione di acquisire la quota di maggioranza della Uranium One e poco prima che venisse concessa l’autorizzazione governativa, l’ex presidente Bill Clinton incassò mezzo milione di dollari dalla banca d’affari russa Renaissance Capital per un discorso pronunciato a Mosca”.

L’inchiesta di The Hill.
A riaccendere i riflettori su un’indagine che sembrava essere finita su un binario morto fu l’inchiesta pubblicata da The Hill nell’ottobre 2017, secondo la quale prima che l’amministrazione Obama approvasse l’accordo nel 2010, l’Fbi entrò in possesso di alcune prove in merito ad alcuni episodi di corruzione, bustarelle, estorsioni e riciclaggio di denaro che vedevano coinvolti i funzionari russi.
Inoltre, secondo un testimone oculare, gli uomini della Rosatom in quel periodo avrebbero speso milioni di dollari negli Usa a beneficio di fondazioni come quella dell’ex presidente Clinton, proprio nel periodo in cui il Segretario di Stato era Hillary Clinton. 

La verità su Uranium One, il Russiagate dei Clinton.
Ciò che è acclarato è che la Clinton Foundation ha nascosto una donazione straniera di 2,35 milioni di dollari da parte del capo della società russa che aveva fatto affari con il Dipartimento di Stato. 
Lo stesso New York Times ha confermato che Hillary Clinton ha violato il Memorandum of Understanding che lei stessa ha firmato con l’amministrazione Obama promettendo di rivelare tutte le donazioni straniere ricevute durante il suo mandato come Segretario di Stato.

Perché non tenne fede agli accordi presi? Cosa nascondeva? Inoltre, come conferma il New Yorker, Bill Clinton ha guadagnato 500.000 dollari per un discorso tenuto Mosca che fu pagato da “una banca d’investimento russa che aveva legami con il Cremlino” al momento dell’operazione Uranium One. Il dubbio rimane: perché non si è fatta luce su questa vicenda? D’altro canto Trump è stato messo sotto inchiesta per molto meno. Per non dire nulla. 

http://www.occhidellaguerra.it/russiagate-hillary-clinton-uranium-one/?fbclid=IwAR3yTHcPq5veMGpgu_nEl04UwQNQoPvyLyak2yzze6uHbrKO0dNiZ11TjtM