sabato 29 giugno 2019

La Gdf contro Carola Rackete, "ci ha schiacciati sulla banchina, abbiamo rischiato di morire." -



Ignorato tre volte l'alt, poi il contatto fra la Sea Watch e la motovedetta dei finanzieri. Procuratore di Agrigento: "Violenza inammissibile."


L’ultima disobbedienza di Carola Rackete poteva avere conseguenze gravi per l’incolumità della Guardia di Finanza. Dinanzi alla decisione della comandante della Sea Watch di riaccendere i motori e dirigersi verso il porto, i finanzieri hanno intimato per tre volte l’alt. Ma lei lo ha ignorato. La motovedetta della Gdf ha tentato di frapporsi fra la banchina e la nave per impedire l’attracco, ma anche in questo caso Carola non si è fermata fino all’incidente con l’imbarcazione dei finanzieri.
“Abbiamo rischiato di morire” dicono fonti della Gdf all’Adnkronos, che parlano di “azione criminale” nel forzare il blocco, perché “siamo rimasti schiacciati sulla banchina” e a bordo della motovedetta si è respirato un clima di “terrore” perché “ci siamo visti addosso a noi un bestione da 600 tonnellate”.
“Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi in divisa lavora in mare per la sicurezza di tutti” dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio.
La Guardia di Finanza ha sequestrato d’ iniziativa la nave Sea Watch. Le Fiamme gialle, dopo le operazioni di sbarco dei migranti che erano a bordo della Sea Watch, sono salite a bordo e hanno preso il comando della nave. La nave è stata portata fuori dal porto, in rada.

La Sacra Famiglia - Marco Travaglio


E niente, in questa valle di lacrime non si fa che piangere a dirotto. Avevamo appena finito di commuoverci per i caldi abbracci e i teneri petting dei vincitori olimpici a Losanna, sublimati in liriche corali da Francesco Merlo, il Pindaro di Repubblica. E, quando i cigli erano ormai asciutti, ci siamo ricascati. È stato per gli strazianti gridi di dolore sul proditorio attacco di Luigi Di Maio, “a mercati aperti”, contro la concessionaria autostradale Atlantia della Sacra Famiglia Benetton (sempre sia lodata). Proprio alla vigilia della demolizione di quel che restava del Ponte Morandi, orgoglio e vanto della nazione tutta, purtroppo crollato il 14 agosto per una tragica fatalità causata dal destino cinico e baro, fors’anche dalle avverse condizioni meteorologiche (pioveva). 
L’idea che il crollo di un viadotto autostradale, col contorno di 43 morti e decine di feriti, fosse imputabile alla mancata manutenzione e all’inosservanza dei più elementari obblighi e norme di sicurezza da parte della società che lucrosissimamente lo gestiva dal 1999, fu subito scartata e bollata dai principali organi di stampa (foraggiati dai Benetton con pubblicità e altri aiutini) come sintomo di gravissime patologie. Nell’ordine: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice No a tutto, deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (citazioni testuali da Repubblica, Corriere, Stampa e Giornale).
Provvide poi Merlo, il Vate del Laterizio, a risarcire i poveri Benetton con un’imperitura intervista a Luciano, di cui per brevità citiamo soltanto l’incipit: “È vero che il crollo del ponte Morandi con i suoi 43 morti ha ferito lei e ucciso suo fratello?”. Mancava solo una richiesta di danni ai defunti. Ora Di Maio smentisce a Porta a Porta (programma che va in onda a mercati chiusi, ma anticipa le risposte registrate a mercati aperti) le voci su Atlantia nella nuova Alitalia. E ricorda l’impegno del governo tutto (Salvini incluso) ai funerali di Genova sulla revoca della concessione ad Atlantia che, se perdesse le autostrade, sarebbe una scatola vuota “decotta”. La società lo accusa di “perturbare l’andamento del titolo Atlantia in Borsa” con “gravi danni reputazionali per la società, che si riserva ogni iniziativa legale a tutela dei propri interessi”. Come se la revoca della concessione, annunciata 10 mesi fa, fosse un fulmine a ciel sereno.
Come se qualcuno potesse peggiorare la reputazione di un gruppo che ha lasciato crollare il Morandi e ha visto i suoi dirigenti condannati in primo grado per un’altra strage, quella di Avellino (altri 40 morti), dovuta ai guardrail marci. 
Come se uno dei massimi rappresentanti del governo e del partito di maggioranza relativa dovesse tapparsi la bocca sulle gravissime responsabilità di un concessionario pubblico solo perché è quotato in Borsa, oppure parlarne soltanto bene (possibilmente a mercati aperti). Il caso ricorda gli alti lai del gruppo Caltagirone quando la Raggi, in campagna elettorale del 2016, osò ventilare un cambio della guardia in Acea, partecipata dal Comune di Roma e da Caltagirone. Il quale, tramite gli appositi Messaggero e Pd, la accusò di aver causato un calo in Borsa (tre giorni dopo le sue dichiarazioni). Stavolta i primi a insorgere, in stereofonia con Atlantia, sono il Pd (per bocca di Raffaella Paita, candidata trombata alla Regione Liguria e dunque deputata), quel che resta di FI (Mara Carfagna) e Salvini in versione garantista: “Chi ha morti sulla coscienza pagherà, ma non faccio il giudice”: in effetti, i processi a Genova potrebbero appurare che il Morandi è crollato per la pioggia, o che è tutta colpa della Sea Watch.
E poi, naturalmente, i giornaloni. Corriere: “Ilva e Atlantia, l’attacco di Di Maio. Nel mirino le grandi imprese” (per la verità solo due: quella che ha lasciato crollare il ponte e quella che minaccia serrata e licenziamenti perché pretende l’immunità per i suoi reati, dandoli per scontati); “nella cultura politica del ministro Di Maio è facile riscontrare un pregiudizio di fondo nei confronti dell’impresa e della libera iniziativa” (di lasciar crollare i ponti). Repubblica, con la fotocopiatrice: “Il metodo gialloverde contro l’industria”, “la missione dei 5Stelle pare quella di affondare ciò che c’è – o che resta – dell’imprenditoria, in nome di una vendetta epocale contro un capitalismo considerato di rapina”, al punto di negare financo “l’immunità dalla responsabilità penale per il risanamento ambientale” (già ci par di vederli, i buoni samaritani di Mittal, che si dannano l’anima per bonificare l’Ilva e le toghe gialle istigate da Di Maio che li arrestano per il reato di risanamento ambientale). La Stampa, cioè la nuova Padania: “Salvini attacca: ‘Di Maio sbaglia. Atlantia assicura migliaia di posti. Attenti a dare giudizi sommari’” (meglio i suoi giudizi somari). Messaggero: “Quelle parole incaute che spaventano gli investitori”, “Salvini contro lo sfascia-tutto (Di Maio, non Atlantia, ndr)’”. 
Sole 24 Ore: “Troppo livore e parole in libertà”. Libero: “Di Maio vuole che Atlantia fallisca”. Giornale: “Il folle piano di Di Maio: un’Italia senza acciaio e i Benetton sul lastrico” (e neanche una pubblicità delle pecore col maglione). Non so a voi, ma a me, all’idea dei Benetton sul lastrico per una frase di Di Maio che rinunciano alla grigliata cortinese di ferragosto, è venuto da piangere. Vanno assolutamente risarciti. Magari facendogli costruire un bel ponte a Cortina. Tanto poi nel giro di cinque anni crolla e diventa un ottimo trampolino per le Olimpiadi del 2026.

venerdì 28 giugno 2019

Solidarietà a tema.

Risultati immagini per la capitana della sea watch i parlamentari del pd

Finita l'era dei cagnolini, (ricordate Berlusconi?) inizia l'era della solidarietà verso chi commette reati, come, del resto, è nella loro natura. Con la differenza che ai cagnolini non hanno dato un soldino, per la ricca capitana tedesca hanno subito indetto una raccolta fondi per aiutarla nel caso dovesse trovarsi a sostenere "eventuali future cause". 

Ma poi, il fatto che abbiano indetto immantinente una raccolta fondi non fa sorgere il sospetto che forse era già tutto premeditato, prestabilito?

Non ci resta che aspettare per vedere se i soldi raccolti per la capitana faranno la stessa fine di quelli raccolti per i terremotati e per l'Unicef.... 

Tornando ai solidali...
Sono ipocriti allo stato puro, sirene ammaliatrici di mammalucchi ipocriti come loro ai quali non gliene può fregar di meno di chi soffre perché gli occidentali emancipati (di 'sta cippa) nostri alleati, vanno a rompergli le scatole a casa loro costringendoli ad espatriare ovunque sia possibile trovare una vita a misura d'uomo...
Peccato che chi soffre, una volta arrivato nella terra promessa, trovi solo desolazione, corruzione e sfruttamento.
MI vergogno degli errori che l'uomo continua a commettere;
le guerre, le distruzioni, lo sterminio di intere etnie non ci hanno insegnato nulla, anche se, puntualmente, ci impegniamo ipocritamente a ricordarli ad ogni ricorrenza.
Sorge il dubbio che chi è al potere lo faccia per irretirci, per incuterci paura.

C'è un disegno incomprensibile che aleggia nell'aria e che non promette nulla di buono.
Un disegno dal quale mi dissocio.
Cetta.

L’ora illegale. - Marco Travaglio



Mai come oggi la legalità è stata un concetto elastico, flessibile, trattabile, usa e getta a seconda degli interessi di chi la invoca o la teme. Tre casi concomitanti ci illuminano d’immenso.
1) Non è ancora finito il Carnevale di Rio per la grande vittoria olimpica di Milano e Cortina, ovviamente all’insegna del risparmio e della legalità, e già sui giornali si leggono appelli a mezza bocca alla Procura di Milano perché garantisca la stessa “tregua” che assicurò ai disinvolti appalti senza gara di Expo 2015, quando il pm competente Alfredo Robledo, si vide prima sfilare i fascicoli d’indagine dal suo capo e poi scaraventare dal Csm a Torino per evitare guai peggiori a Sala&C. Appelli che fanno sospettare intenzioni incompatibili col risparmio e la legalità, sennò perché tanta paura dei pm?
2) A Taranto i nuovi padroni dell’Ilva, gl’indiani di Arcelor Mittal, scelti a suo tempo dall’ottimo Calenda per rimpiazzare i Riva e i commissari, fanno sapere che senza l’immunità penale – gentilmente concessa dagli ottimi Renzi e Calenda e revocata dal cattivo Di Maio – chiuderanno lo stabilimento a settembre e chi s’è visto s’è visto. Anche lì, una multinazionale che s’impegna a rilevare uno stabilimento italiano secondo le leggi del Paese che lo ospita in cambio di copiosi guadagni e poi minaccia di andarsene se non gli viene assicurata l’impunità in caso di reati prim’ancora di commetterli (si spera), dà l’idea di non avere alcuna intenzione di osservare il Codice penale. E nessuno si scandalizza, come del resto nessuno fece un plissé quando il Pd regalò ai commissari di governo la licenza di delinquere, in quel caso di uccidere: l’unico scandalo, a leggere i giornaloni, è perché il governo Conte l’ha finalmente revocata.
3) Dopo 14 giorni di navigazione nel Mediterraneo, approda sulle coste italiane la nave SeaWatch-3, di proprietà di un’ong privata tedesca ma battente bandiera olandese, carica di 42 profughi raccolti in acque libiche. In origine erano 52, ma 10 – quelli in pericolo – sono già sbarcati in Italia il 15 giugno. Il natante, guidato dalla capitana tedesca Carola Rackete, ha violato una serie innumerevole di norme italiane e internazionali, il che non le verrebbe consentito da alcuno Stato di diritto del mondo libero. Nel 2017 non ha firmato il Codice di autoregolamentazione del ministro dell’Interno Pd Marco Minniti, regolarmente siglato da altre ong, per farla finita col Far West nel Mediterraneo (migliaia di sbarchi e di morti). S’è addentrata nella zona di ricerca e soccorso libica, competenza della Guardia costiera di Tripoli.
Avrebbe dovuto far rotta sul porto sicuro più vicino: cioè in Tunisia o a Malta. Invece ha scientemente deciso di proseguire fino a Lampedusa, per creare l’ennesimo incidente in polemica con le politiche migratorie del governo italiano, secondo il copione collaudato da altre navi della stessa Ong (una saga a puntate: Sea Watch-1, 2, 3 e così via). Il governo ha negato il permesso di ingresso nelle acque territoriali e poi di sbarco nel porto. La capitana Carola, subito idolatrata da una sinistra a corto di idee e simboli, se n’è infischiata. Prima ha tentato di far annullare l’alt dal Tar: ricorso respinto. Poi di farsi autorizzare in via provvisoria e urgente dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Che però le ha dato torto, per la seconda volta (il diritto allo sbarco in Italia era già stato negato il 29 gennaio a un’altra Sea Watch con 49 migranti): il provvedimento provvisorio di sbarco, in deroga agli ordini di un governo, può essere adottato solo “nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti – in assenza di tali misure – a un vero e proprio rischio di danni irreparabili”. E fortunatamente non è questa la situazione degli ospiti della SeaWatch-3 dopo la discesa delle tre famiglie con bimbi e donne incinte. Certo – precisa la Corte – il governo deve “continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità per età o stato di salute”. Ma non esiste un diritto di accesso alle acque territoriali di uno Stato in violazione delle sue norme, salvo appunto per gravi motivi di salute, senza i quali la nave che ha compiuto il salvataggio (in questo caso, un’estensione del territorio olandese) è essa stessa un luogo sicuro per i naufraghi. A quel punto, siccome il tribunale italiano e quello comunitario le han dato torto, la capitana ha calpestato entrambe le sentenze. E l’ordine di fermarsi della Guardia Costiera e di Finanza. E s’è affacciata su Lampedusa sventolando una causa di forza maggiore già esclusa da Strasburgo: la salute dei migranti dopo 14 giorni di navigazione (che sarebbero stati molti meno se fosse andata dove doveva: Tunisia o Malta).
Quel che pensiamo su questa ennesima guerra delle opposte propagande fra alcune Ong e il governo italiano lo scriviamo da sempre: sulla pelle dei migranti, usati come ostaggi e scudi umani, si sta giocando una lunga, cinica e ipocrita gara tutta politica. Anche e soprattutto nella cosiddetta Europa, che sta a guardare. Sul piano umanitario, è fin troppo evidente che – stando così le cose – quei 42 disperati devono sbarcare in Italia, com’è sempre avvenuto, anche sotto il ministro della Cattiveria di un governo tacciato di fascismo e razzismo da chi in casa propria fa ben di peggio. Ma nessuno ci venga a raccontare che da una parte ci sono i buoni (l’eroica capitana) e dall’altra i cattivi (gli italiani xenofobi). O che un governo non ha il diritto-dovere di proteggere i confini da chi vorrebbe decidere le sue politiche migratorie dalla tolda di una nave tedesca con bandierina olandese. E di indicare l’unica via d’accesso all’Italia per chi ha diritto all’asilo: quella dei corridoi umanitari. Cioè, parlando con pardon, la via legale.

Concorsi truccati, sospesi il rettore dell'Università di Catania e 9 professori.

Foto archivio © ANSA

Indagati 40 docenti di 14 università, indagini Digos su 27 gare.

Il rettore di Catania, Francesco Basile, e altri nove professori sono stati sospesi dal servizio dal Gip. Sono indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d'asta. Al centro delle indagini su 'Università bandita' della Digos coordinate dalla Procura etnea 27 concorsi. Sono complessivamente 40 i professori indagati degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.
L'ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della locale Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato. I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all'interno dei Dipartimenti dell'università di Catania. La polizia di Stato sta eseguendo 41 perquisizioni nei confronti dei 40 professori indagati.
L'inchiesta, denominata 'Università Bandita', nasce da indagini avviate dalla Digos della Questura di Catania su 27 concorsi che per l'accusa sono stati 'truccati'. E in particolare riguardano l'assegnazione di 17 posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore. Ulteriori particolari saranno resi noti durante un incontro con i giornalisti che si terrà alle 10 nella sala stampa della Procura di Catania.

“Berlusconi paga i boss di Cosa nostra”. Ecco l’appunto di Falcone ritrovato nel suo ufficio. - Salvo Palazzolo - (21 dicembre 2017)

“Berlusconi paga i boss di Cosa nostra”. Ecco l’appunto di Falcone ritrovato nel suo ufficio

Il foglio è un promemoria durante gli interrogatori del pentito Mannoia. Risale al 1989, c’è anche un riferimento all’avvocato Vito Guarrasi.

«Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano». La grafia è quella di Giovanni Falcone. Elegante, ordinata. Su un foglio di block notes a quadretti ha messo in fila alcuni appunti durante l’audizione del pentito Francesco Marino Mannoia. E’ il 6 novembre 1989. Il giudice ha sottolineato due volte il cognome Berlusconi, all’epoca già al culmine della sua carriera; una volta, il nome di Vittorio Mangano, lo stalliere boss della villa di Arcore. Il cognome di un altro mafioso, Cinà, compare anche una seconda volta nella pagina, cerchiato. Questi nomi non sono mai finiti nei verbali di Mannoia, che si è sempre rifiutato di fare dichiarazioni ufficiali su Silvio Berlusconi.
 
L’appunto è stato ritrovato alcuni giorni fa nell’ufficio-museo del giudice dal suo ex collaboratore Giovanni Paparcuri. “Il dottore Falcone prendeva degli appunti prima di verbalizzare – ha spiegato l’ispettore Maurizio Ortolan, che in quei giorni dell’89 batteva a macchina le dichiarazioni del pentito Mannoia – quando poi dettava, tagliava con un tratto di penna gli argomenti affrontati. Questo foglio, l’avrà dimenticato o lasciato in ufficio a futura memoria?”.

Le parole annotate da Falcone fra altri argomenti di mafia appaiono oggi come una conferma postuma della condanna di Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi che sta scontando 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «Cinà» citato dovrebbe essere Gaetano Cinà, il mafioso molto amico dell’ex senatore di Fi, che gli annunciava al telefono (conversazione intercettata nel 1986) l’arrivo di una grande cassata con il simbolo del biscione a casa Berlusconi. Gaetano Grado è uno dei boss palermitani che più frequentava Milano negli anni Settanta. Secondo la sentenza Dell’Utri, Berlusconi avrebbe stipulato con la mafia un "patto di protezione", nel 1974: prima, per evitare i sequestri che impazzavano su Milano, poi per «mettere a posto» i ripetitori Tv in Sicilia. E proprio questo sembra confermare l’appunto ritrovato di Falcone quando si parla di soldi che Berlusconi avrebbe dato ai mafiosi.
 
In un secondo foglio, Falcone annotava il nome di Vito Guarrasi, anche questo mai citato nei verbali ufficiali di Mannoia. Un altro mistero. Cosa sa il pentito Mannoia di Guarrasi, il potente avvocato di tanti affari siciliani che già negli anni Settanta era finito all’attenzione della commissione parlamentare antimafia? Guarrasi è morto il 31 luglio 1999, all’età di 85 anni. Di lui, scriveva Giuseppe D’Avanzo: «Se la memoria fosse una qualità e non un vizio, dovremmo chiederci se c’è ancora e dov’è oggi Vito Guarrasi. Se ci sono, e dove, i nodi che ancora stringono la politica, l’economia, la mafia. Perché un fatto è certo, la mafia può fare a meno dei Corleonesi, dei Lima e dei Ciancimino, dei cugini Salvo, ma non può privarsi della spregiudicata e cinica sapienza dei Guarrasi». Cosa aveva scoperto il giudice Falcone?

https://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/12/21/news/berlusconi_falcone_appunto_guarrasi_mafia-184725255/?fbclid=IwAR1f8O8L_xYpLE95j1aFEgS3jhe1VzSqhuzDGKMJhz-L8HMS01HijXbUtT8

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. - Luca Rinaldi




Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori.

Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.

A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”».

Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comuntiarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni.

Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimeneto 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta.

Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.

Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale.

A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse.

L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm.

«Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente».

Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore.

Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.

Fonte: Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza.

Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. 

Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996.

Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono».

Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.»

Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto.

Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.

Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

https://www.linkiesta.it/it/article/2015/08/03/quasi-200-giudici-hanno-interessi-nelle-strutture-a-cui-affidano-i-min/26917/?fbclid=IwAR3QDxQv8QK7_Jt5JzQW-Y8WbZRlW9jE5iNE5bN2_oMi_rO9cqyRcHVc3Jw