martedì 23 giugno 2020

Il Tomba. - Marco Travaglio

La sciacallaggine di Renzi raggiunge vette apicali, e la difesa ...
Non vorremmo che, a furia di sentirsi chiamare Innominabile, lo Statista di Rignano si fosse convinto che qualche legge proibisca di nominarlo. Lo fa pensare l’esilarante motivazione della causa civile che ci ha recapitato ieri, la tredicesima in sei mesi: “Il 1° maggio 2020 il Fatto Quotidiano pubblicava una prima pagina con immagini e titoli gravemente ed oggettivamente offensivi dell’onore, della reputazione del Sen. Matteo Renzi. In particolare al centro della pagina ‘campeggiava’ la seguente frase: ‘Renzi sciacallo lascia in pace i nostri morti’. Trattasti (sic, ndr) di affermazioni diffamatorie perché violano i limiti della continenza e sono dirette a denigrare la persona del Senatore Renzi che, attraverso la voluta strumentalizzazione e distorsione del senso e significato delle parole da quest’ultimo pronunciate, viene additato come ‘sciacallo’”, subendo un danno “indeterminabile”. In effetti siamo usi nominare il suo nome invano senza chiedergli il permesso e impostare la prima pagina e le successive senza il suo imprimatur. Il 1° maggio la notizia del giorno era il suo intervento in Senato del 30 aprile, quando aveva sparato a zero contro i presunti “pieni poteri” di Conte e la sua decisione di non abolire subito il lockdown, e aveva leggiadramente aggiunto: “Pensiamo di onorare la gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più e che, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto: ‘Ripartite anche per noi’”. Frase definita “a dir poco infelice” persino dal sindaco renziano di Bergamo Giorgio Gori.
Siccome il genio incompreso aveva tirato in ballo i loro morti per farne i suoi ventriloqui (e i giornaloni facevano i salti mortali per nascondere la tragica figuraccia del loro beniamino), telefonammo ai comitati delle vittime di Bergamo e Brescia per raccogliere i loro commenti. Molti erano “indignati e offesi” e gli suggerivano di “vergognarsi” per le sue “parole scandalose”. I più ribattevano che i loro parenti defunti, se avessero potuto parlare, avrebbero chiesto la zona rossa subito, cioè avrebbero voluto chiudere di più, non di meno. I più gentili lo chiamavano “sciacallo”. Uno, meno diplomatico, direttamente “testa di c.”. Riportammo il tutto a pagina 3 e lo sintetizzammo nel titolo di prima, fra virgolette. Ora il tombarolo (lo chiamavano il Bomba, ora è il Tomba) denuncia noi: forse si vergogna di trascinare in tribunale i parenti delle vittime; o non sa che le virgolette indicano una frase altrui (peraltro sacrosanta); o, non conoscendo vergogna, chiederà i danni anche a loro. Se noi, oltretutto, avessimo voluto infierire, gli avremmo ritorto contro le sue parole del 30 aprile: “Se qualcuno dicesse di riaprire tutto, andrebbe ricoverato”.
Parole pronunciate un mese dopo l’intervista ad Avvenire del 28 marzo, in piena pandemia, in cui intimava di “riaprire le fabbriche prima di Pasqua, poi i negozi, le librerie, le messe e le scuole dal 4 maggio”. Cioè avremmo chiesto un Tso per farlo visitare da uno bravo. Invece ci limitammo, in un commento di Daniela Ranieri, a osservare che la sua parola vale zero: “Il merito per costui è irrilevante. È tutto cinismo d’accatto, giocoleria della tensione, esibizionismo da torero”, roba da “caratterista di Fellini”, da “Nando Orfei del 2%”. 
Parole, se possibile, vieppiù confermate dalla lettura della sgrammaticata richiesta di mediazione appena recapitata. Chiarito che il titolo riassumeva il pensiero dei parenti delle vittime da lui e macabramente richiamate dalle tombe per farle parlare come se stesso, ci resta una curiosità: quali sarebbero le “immagini gravemente ed oggettivamente offensive dell’onore, della reputazione del Sen. Matteo Renzi”? L’immagine in prima pagina era una sua foto: dobbiamo forse ritenere che l’Innominabile si pretende pure ineffigiabile, come Battisti e Mina, ma soprattutto considera diffamatoria la sua faccia? Noi, sul punto, potremmo anche concordare con lui (lo diceva già Dostoevskij: “Dopo i 40 anni ciascuno è responsabile della faccia che ha”). E impegnarci a nascondere per sempre le sue offensive sembianze. Ma prima ci vorrebbe una legge che lo renda ineffabile e invisibile, come il Dio ebraico: siccome non sembra, ma fa parte della maggioranza, potrebbe pure ottenerla, magari in cambio del ritiro della candidatura di Scalfarotto a presidente della Puglia (resa vieppiù improbabile dalla faccia dello Scalfarotto, che dunque andrebbe proficuamente aggiunto con apposito emendamento).
Ultimo punto: se chi dice sciacallo “viola i limiti della continenza e denigra la persona del Senatore Renzi”, che ci dice costui di quel premier che diceva “basta sciacalli nei talk show” (22.4.2015); chiamava Grillo “sciacallo” (5.5.2014 e 30.3.2015), anzi “squallido sciacallo” (5.3.2017); dava degli “sciacalli per lucrare due voti” a chi criticava il suo governo dopo gli scontri fra ultrà all’Olimpico (5.5.2014); paragonava a “Tabaqui” (lo sciacallo di Kipling) gli oppositori interni al Pd (15.4.2015); tacciava di “sciacallo” Salvini (20.4.2015, 14.11.2017, 29.11.2018 e 6.12.2018); diceva “bugiardo o sciacallo” a Di Maio che aveva ricordato i finanziamenti dei Benetton al centrosinistra (16.8.2018)? Bene: quel premier era lui. Ricapitolando: se lui dà dello sciacallo a mezzo mondo, è un complimento; se i parenti delle vittime del Covid gli danno dello sciacallo, è un’offesa e lui chiede i danni a noi. Ma un Tso, ogni tanto?

Consulenti finanziari. I venditori porta a porta non forniscono pareri: piazzano prodotti costosi. - Beppe Scienza

professionista o imbonitore
Caesar non supra grammaticos: anche l’imperatore non aveva potere sulla lingua. Così nessuna legge della Repubblica può cambiare il significato delle parole. Non vogliamo però affrontare questioni di purismo linguistico, ma una grave stortura della normativa sul risparmio in Italia. I venditori porta a porta di investimenti ci provarono subito, quando negli anni ’70 collocavano sciagurati titoli atipici.
Già allora cercavano di presentarsi come consulenti finanziari, per ispirare più fiducia. Ma per fortuna il Testo unico della finanza (Tuf) tenne la barra a dritta, imponendo la corretta denominazione di promotori finanziari. Poi però, con il governo Renzi e il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, all’industria del risparmio gestito riuscì il colpaccio. La legge di Stabilità 2016 ribattezzò in consulenti i promotori finanziari, senza per altro cambiare la sostanza delle cose. Così ora si fregiano di tale titolo soprattutto venditori, agenti di commercio o dipendenti di banca. In tal modo gli è più facile carpire la fiducia dei risparmiatori, intrappolando i loro soldi in tutta una serie di scatole nere: fondi comuni, polizze vita, piani previdenziali, ecc.
I pochissimi in Italia che davvero campano fornendo consigli ai risparmiatori, meno di 300 persone fisiche e 50 società, sudano quattro camicie per smarcarsi dai venditori porta a porta e sportello a sportello. In particolare dagli oltre 50 mila sedicenti consulenti ma di fatto promotori finanziari.
Raschiando sotto la denominazione ufficiale, tutto conferma che si tratta di venditori, persino il loro inserimento previdenziale. Risultano infatti agenti di commercio che versano contributi all’Enasarco. Se fossero davvero consulenti avrebbero una partita Iva come liberi professionisti. Per di più devono assolutamente agire per conto di un’unica società. Non possono cioè essere multimarca. Potremmo poi citare le gare di vendita delle reti porta a porta e le loro sontuose convention a Dubai o Miami , tutta roba da venditori, non da consulenti. Che poi, parlando coi clienti, diano anche indicazioni o consigli è scontato e irrilevante. Lo fa anche il negoziante di abbigliamento o di vini. In maggiore o minore misura lo fa qualunque venditore. Sono comunque meri venditori anche decine di migliaia di bancari attivissimi allo sportello o in salottini dietro la targa “consulenza investimenti” o espressioni simili.
Ultima precisazione: un consulente (vero) può anche suggerire di stare fermi e tenere provvisoriamente i soldi sul conto, come un legale onesto può consigliare di non fare causa. Invece un venditore, per sbarcare il lunario e magari comprarsi la Ferrari, deve per forza piazzare i prodotti e servizi del suo catalogo. E possibilmente i più costosi e più pericolosi, che gli fruttano provvigioni più alte.
www.ilrisparmiotradito.it Twitter @beppescienza

domenica 21 giugno 2020

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela.

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela

Il sindacato delle toghe diffonde un comunicato per spiegare perché non ha sentito il suo ex presidente prima di espellerlo: "Semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni". Il leader di Area querela il collega, che ai giornali riferisce di cene con l'onorevole dem Donatella Ferranti per discutere della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini. Il segretario dell'Anm Caputo, tirato in ballo sempre dal pm sotto inchiesta, replica: "Per difendersi attacca, ma con lui mai parlato di nomine".
“Un Giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione. Ancora di più quando ne è stato Presidente”. Nel day after dell’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – da lui presieduta tra il 2008 e il 2012 – le polemiche nel mondo delle toghe sono tutt’altro che svanite. Il sindacato dei magistrati, infatti, ha affidato a un comunicato stampa la sua replica per il pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo della giustizia. Ma a Palamara non è indirizzata solo la nota ufficiale dell’Anm, ma pure la smentita – si presume a titolo personale – del segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo. E poi l’annuncio di querela di Eugenio Albamonte, collega di Palamara alla procura di Roma e come lui ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine.
Anm: “Palamara mente” – Già ieri, quando il comitato direttivo centrale aveva respinto all’unanimità la sua richiesta di audizione, Palamara aveva attaccato: “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”. Poi aveva fatto trapelare alle agenzie di stampa il testo del suo discorso denso di rivendicazioni e avvertimenti. Quindi, in una serie di interviste ad alcuni quotidiani (compreso Il Fatto) rincara la dose: “Non ho agito da solo e non farò, come ho già detto più volte, da capro espiatorio. Questo deve essere estremamente chiaro”, dice il pm indagato dalla procura di Perugia. Ed è tornato nuovamente ad attaccare, che a suo dire non gli avrebbe dato modo di difendersi dalle contestazioni. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e “cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti”, replica la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. “Il dottor Palamara – si legge nella nota dell’organismo guidato da Luca Poniz – non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni. Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi Palamara mente: è stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati. Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”.
“Albamonte a cena col Pd”. E lui querela – Molto diverso il dibattito che si è acceso per le dichiarazioni rilasciate da Palamara ai giornali, nei minuti dopo l’espulsione. Il pm è stato chiamato a chiarire cosa intende dire nel suo discorso quando si scaglia contro “quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. A chi si riferiva, gli chiede Antonio Massari del Fatto: “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”, risponde Palamara. Che poi evoca su quelle cene l’ombra degli accordi per le nomine degli uffici giudiziari: “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”. Segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, storicamente in buoni rapporti con Palamara – che era il leader di Unicost, la corrente moderata e per lungo tempo alleata di Area – Albamonte ha dato mandato al proprio legale per presentare querela nei confronti del collega. Il motivo? Lo ha diffamato – spiega l’avvocato Paolo Galdieri- parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento. Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto da Palamara, privato di difesa e di come il trojan inoculato non abbia carpito nulla di penalmente rilevante”, controreplicano i legali di Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti.
“Caputo? Ha beneficiato del sistema”. “Tutto falso” – Al quotidiano Repubblica, invece, il pm sotto inchiesta fa il nome del segretario dell’Anm, che come lui fa parte di Unicost: “Se penso a Giuliano Caputo – le parole di Palamara – penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti”. Caputo, da parte sua, non querela ma smentisce: “Nel disperato tentativo di difendersi attaccando, Palamara inventa una realtà che non corrisponde ai fatti“. Il segretario dell’Anm smentisce di aver discusso con lui di nomine: “Mai ne avevo parlato con lui e la pubblicazione integrale delle chat chiarirà forse anche le sue idee sulla mia nomina.Con un chiaro tentativo mistificatorio accosta le dinamiche associative alle prassi relative alle nomine per posti direttivi e semidirettivi ed al mercato delle nomine di cui è stato assoluto (anche se non unico) protagonista negli ultimi anni. Non ho mai parlato né con lui né con altri di domande presentate da me o da altri magistrati”, dice Caputo. “Raramente – prosegue il segretario dell’Anm – mi sono confrontato con lui, come con altri ex esponenti apicali dell’Anm, su questioni dell’associazione. Era nota la sua aspirazione a diventare procuratore aggiunto a Roma, resa possibile dall’abrogazione di una norma, avvenuta con dinamiche ancora da chiarire, rispetto alla quale l’Anm ha assunto da subito una posizione di ferma condanna. Ignoravo assolutamente i suoi tentativi di condizionare la nomina del procuratore della Repubblica di Perugia che avrebbe dovuto gestire il procedimento a suo carico, che si confrontasse con un parlamentare imputato per la nomina del procuratore di Roma e che pensasse di screditare, per varie ragioni, altri colleghi, circostanze che hanno rappresentato le ragioni della sua espulsione dall’Anm”.

Luca Palamara espulso dall’Anm: “Gravi e reiterate violazioni del codice etico”. E lui manda avvertimenti: “Vantavano diritti anche probiviri che chiedono mia cacciata. Hanno rimosso cene con politici”.

Luca Palamara espulso dall’Anm: “Gravi e reiterate violazioni del codice etico”. E lui manda avvertimenti: “Vantavano diritti anche probiviri che chiedono mia cacciata. Hanno rimosso cene con politici”

Non era mai accaduto prima che l’Associazione nazionale magistrati decidesse di espellere un suo ex presidente. Il pm, cacciato per quanto emerso nell’indagine di Perugia, ha diffuso il testo del suo intervento, che non c’è stato perché è stata respinta la richiesta di poter parlare. "Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. La responsabilità non era soltanto mia. Non farò il capro espiatorio di un sistema", scrive.
Luca Palamara ha commesso gravi e reiterate violazioni del codice etico. Per questo motivo l’Associazione nazionale magistrati ha decretato l’espulsione del pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe . È la prima volta che un provvedimento così drastico viene assunto nei confronti di un ex presidente dell’Anm: Palamara, infatti, ha guidato il sindacato delle toghe tra il 2008 e il 2012. “Oggi non abbiamo bisogno di capri espiatori, abbiamo bisogno di tornare a prendere coscienza della diffusività di comportamenti che dimostrano un modo distorto di formazione del consenso in magistratura – non intorno ad idee e valori – ma sulla base di interessi strettamente individuali, su impropri rapporti tra consiglieri o esponenti di correnti e magistrati aspiranti ad un incarico”, ha detto il segretario dell’Anm Giuliano Caputo al Comitato direttivo centrale prima del voto sull’espulsione. Un riferimento, quello ai “capri espiatori“, ripetuto anche dal presidente Luca Poniz e che non è casuale. Nessuna vittima sacrificale, ma “solo alcuni colleghi a cui sono stati stati addebitati specifici fatti”, ha detto il numero del sindacato delle toghe. Fonti di via Arenula fanno sapere che il guardasigilli Alfonso Bonafede rispetta “il percorso di rinnovamento dell’Anm” e “non entro nel merito delle loro scelte“. Il ministro ha raccomandato di mantenere il massimo impegno e concentrazione sul progetto di riforma del Csm: “Questa – ha detto – sarà la vera rivoluzione “.
L’espulsione – Nel giorno in cui i suoi colleghi decidevano di cacciarlo, infatti, il magistrato indagato a Perugia avrebbe voluto pronunciare davanti a loro un discorso. Quattro pagine in cui compaiono allusioniavvertimenti, rivendicazioni. E anche qualche ammissione di colpa. L’Anm, però, ha rigettato la richiesta di audizione all’unanimità. “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”, commenta il pm di Roma. “La richiesta del collega Palamara di rendere dichiarazioni davanti dal Cdc non è stata accolta ai sensi di Statuto, giacché esso assegna non alla fase decisoria, bensì a quella istruttoria, affidata ai probiviri, l’ascolto dell’incolpato e la possibilità di raccogliere sue memorie e documenti. Di tali facoltà il dottor Palamara ha potuto avvalersi compiutamente in quella sede, venendo convocato allo scopo più volte, come da sue richieste”, spiega una nota del Comitato direttivo centrale.
“Non farò il capro espiatorio di un sistema” – Palamara, però, ci teneva parecchio a parlare davanti all’intero parlamentino delle toghe. La sua non sarebbe stata una difesa tecnica sulle contestazioni, ma un discorso il cui senso è riassumibile nella chiusa: “Non farò il capro espiatorio di un sistema”. Bocciata la sua richiesta di audizione, Palamara ha quindi girato alle agenzie di stampa il testo del suo intervento. “Ognuno – scrive il magistrato – aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ancora oggi ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unità per la Costituzione, o addirittura ad alcuni di quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento. Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo. Io ascoltavo sempre tutti”.
“Io non ho agito da solo” – Una vera e propria messa in stato d’accusa dei suoi stessi accusatori. Palamara, infatti, riconosce di aver “fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io – dice l’ex presidente dell’Anm – non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo“. Il magistrato al centro dell’inchiesta che imbarazza tutto il mondo delle toghe, insomma, rivendica un passaggio fondamentale: non è solo lui l’artefice della degenerazione rappresentata dal sistema delle correnti. “All’inizio – sostiene il pm – ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per sete di potere”, bensì in una logica – che oggi riconosco, comunque, erronea – secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi”.
Responsabilità non è soltanto mia”- Nel suo discorso Palamara rivendica: “Le nomine dei dirigenti giudiziari sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi – alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) – magistrati di grande valore come Francesco GrecoGiovanni MelilloFranco Lo Voi“. Poi, però, Palamara ammentte che “alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia”.
Le altre decisioni su Ferri e Criscuoli – Al centro dell’indagine che imbarazza il mondo della magistratura, Palamara è stato sospeso in via cautelare da funzioni e stipendio dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. La contestazione all’ex pm di Roma riguarda l’episodio dell’incontro in un albergo romano con i consiglieri del Csm, poi dimissionari, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli e Antonio Lepre, e i deputati del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (poi passato a Italia viva), per discutere di nomine ai vertici delle principali procure italiane, in primo luogo quella di Roma. In quel momento Lotti era indagato dalla procura capitolina per l’inchiesta Consip. Subito tutti i magistrati coinvolti vennero deferiti ai probiviri, e la richiesta di espulsione è stata formulata per tutti, ma la maggior parte di loro si sono nel frattempo dimessi dall’Anm. Non lo aveva fatto Paolo Criscuoli, che oggi è stato sospeso per 5 anni. Diversa la posizione di Ferri, che è magistrato in aspettativa. Secondo il Comitato direttivo centrale, Ferri è ancora socio dell’Anm a differenza di quanto sostenuto dal diretto interessato e almeno da una parte dei probiviri: per questo sono stati rinviati gli atti al collegio dei probiviri, che ora dovranno procedere con una proposta.
Le accuse e l’hotel Champagne – Neanche Palamara ha voluto dimettersi dall’Anm: adesso è il primo ex presidente ad esserne espulso. Probabilmente lo sarebbe stato anche se avesse potuto parlare davanti al comitato centrale. Nel suo discorso, infatti, il pm non si difende da queste contestazioni: “Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato allhotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché per difendermi ritengddover utilizzartutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette mia disposizione. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fattioggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile”. I pm di Perugia, però, non la pensano così.
La riforma del Csm e la fine della crisi dell’Anm- Il comitato direttivo centrale ha all’ordine del giorno anche la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Nelle bozze che sono circolate della riforma sono state recepite molte delle nostre proposte”, ma “dobbiamo stare attenti che questa non sia l’occasione per un attacco all’indipendenza della magistratura“, ha detto il segretario dell’Anm Giuliano Caputo. Un concetto su cui ha insistito anche il presidente Luca Poniz: “Speriamo di non dover ricordare il principio di autonomia che il Csm è chiamato a tutelare e che ha legame con la democrazia”. Poniz e Caputo, tra l’altro, hanno chiesto una “rinnovata fiducia” e un “mandato politico pieno” alla giunta dell’Associazione nazionale magistrati per affrontare l’interlocuzione sulle riforme e la ripresa dell’attività giudiziaria dopo lo stop dovuto all’emergenza coronavirus. La richiesta arriva dopo la crisi che, per effetto delle nuove chat emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia sul caso Palamara, aveva portato lo scorso 23 maggio alle dimissioni della giunta. Poi, in una successiva riunione due giorni dopo, in assenza di un accordo “politico” si decise che sarebbe rimasta in carica per l’ordinaria amministrazione e per arrivare alle elezioni, rinviate a ottobre a causa dell’emergenza sanitaria. “Ho chiesto, dopo che ci siamo scontrati anche aspramente e abbiamo affrontato una crisi politica un nuovo mandato sui punti essenziali – ha spiegato Caputo, intervenendo al Cdc – riforme, per affrontare la ripresa totale dell’attività nei tribunali, per l’organizzazione delle elezioni telematiche che è complessa e rispetto alla quale non possiamo permetterci errori o disguidi. È necessario perché la sostanza dell’accordo e della ritrovata concordia tra di noi e l’appoggio dei gruppi all’attività della giunta sia percepito in modo chiaro e lineare anche all’esterno”. Poco dopo il mandato a Caputo e Poniz è stato votato dal comitato centrale. La crisi interna all’Anm, dunque, sembra essere rientrata nel giorno dell’espulsione di Palamara.

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire. - Giovanna Trinchella e Andrea Tundo

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire

Almeno 3 milioni di euro, sostiene la procura di Torino, sono stati usati per pagare finte consulenze d'oro a proprietari e manager della società, comprare 5 auto di lusso ed estinguere sofferenze bancarie personali. Così mentre buona parte dei 417 operai di Riva di Chieri restava in cassa integrazione e la fabbrica non è mai tornata operativa, i conti di Ventures sono stati prosciugati. Il "disegno criminoso" partito subito dopo il via libera del ministero dello Sviluppo Economico. Tibaldi (Fiom-Cgil) al Fatto.it: "Vicenda paradigmatica di come si fanno le reindustrializzazioni in Italia. Invitalia e Mise parlavano di piano grandioso".
robot per pulire i pannelli solari sono rimasti solo sulle slide del piano industriale, mentre i soldi che sarebbero dovuti servire per rilanciare l’ex Embraco e salvare i quasi 500 operai dal licenziamento finivano sui conti esteri dei manager di Ventures srl. Avevano iniziato pochi giorni dopo l’accodo firmato nel giugno di due anni fa con il gruppo Whirlpool per farsi carico della reindustrializzazione dello stabilimento di Riva di Chieri, nel Torinese, a fronte di 49mila euro di contributo per ogni dipendente assunto dopo l’annuncio della multinazionale di voler licenziare tutti e delocalizzare la produzione dei compressori per frigoriferi.
Almeno 3 milioni di euro dei 20 al centro dell’intesa, sostiene la procura di Torino, sono invece stati usati per pagare finte consulenze d’oro a proprietari e manager della società, comprare 5 tra Bmw Serie 5, Audi A4 e A6 ed estinguere sofferenze bancarie personali. Mentre buona parte dei 417 operai restava in cassa integrazione, la fabbrica non è mai tornata operativa e i conti di Ventures sono stati prosciugati. Tanto che il procuratore aggiunto di Torino Marco Gianoglio ha depositato istanza di fallimento sulla scorta di quanto ricostruito dagli uomini della Guardia di finanza guidati dal comandante provinciale Guido Mario Geremia.
E ora sono scattati sequestri e perquisizioni nei confronti dei 5 indagati in questa vicenda che racconta l’ennesimo fallimentare epilogo di una reindustrializzazione che dentro Invitalia e al ministero dello Sviluppo Economico, prima retto da Carlo Calenda e poi da Luigi Di Maio, davano tutti per risolta. Mentre Ronen Goldstein e Gaetano Di Bari brindavano di fronte ai fotografi e ora si ritrovano indagati per bancarotta per distrazione insieme a Carlo NosedaLuigi e Alessandra Di Bari.
Le 9 pagine del decreto di sequestro preventivo eseguito dai finanzieri raccontano nel dettaglio come, ad avviso degli inquirenti, i cinque della Ventures abbiano “distratto”“occultato” e “dissipato” una parte dei milioni che avrebbero dovuto assicurare un futuro agli operai, che nel gennaio scorso hanno dato nuovo impulso alle indagini con un esposto presentato in procura. Il “disegno criminoso” finalizzato al “drenaggio” delle risorse per scopi personali, stando a quanto ricostruito dagli investigatori, inizia poco dopo l’11 luglio di due anni, giorno in cui Ventures perfeziona la cessione del ramo d’azienda al prezzo simbolico di 10 euro.
L’accordo prevedeva che Embraco avrebbe dovuto versare poco più di 20 milioni di euro con uno “scopo preciso”, ricorda il procuratore aggiunto di Torino: “Evitare il licenziamento dei dipendenti e una grave crisi occupazionale”. Con Ventures che, a sua volta, si sarebbe dovuto dotare delle risorse finanziarie per “attuare” e “sostenere” il piano industriale sulla base del quale aveva ottenuto il via libera dei sindacati e del ministero dello Sviluppo Economico, che aveva accordato anche la cassa integrazione – in scadenza tra un mese – in attesa del riavvio della produzione. La sintesi della procura è tranchant: “Lo stabilimento di Riva di Chieri mai ha iniziato l’attività produttiva, il progetto industriale è rimasto sulla carta, non vi è stato il minimo investimento di capitale. Dunque: una provvista certa in entrata, a cui non ha fatto seguito alcunché”.
Quali strade abbiano preso i primi bonifici arrivati sui conti di Ventures, invece, è ritenuto accertato dagli investigatori che ricostruiscono al centesimo di euro il vorticoso giro di denaro, spesso finito su conti all’estero e poi rientrato in Italia anche per ripianare debiti personali. Tra il 16 luglio 2018 e il 2 dicembre scorso, ha accreditato sui conti di Ventures la “considerevole somma” di 12.680.758,88 euro ma, a fronte di uno stallo totale sotto il profilo industriale eccetto il pagamento degli stipendi decurtati dalla cassa integrazione, il 2 marzo scorso la società “ha completamente esaurito la liquidità” mentre fioccavano i primi pignoramenti.
Intanto “gran parte dei bonifici in uscita” finiva sui conti di Gaetano Di Bari e Carlo Noseda, giustificata come “pagamento fatture” sulle quali per la procura è “lecito dubitare” vista “l’assoluta inoperosità” di Ventures e il poco tempo passato tra i versamenti di Embraco e il giro sui conti personali, a volte questione di ore. Agli occhi dei pm, quindi, “risulta evidente” come il denaro sia stato “quasi interamente distratto” verso “attività estranee alla sua originale destinazione” finendo sui conti personali e “disperdendosi in rivoli che nulla hanno a che vedere con la continuità aziendale” e “con la salvaguardia dei livelli occupazionali”.
I finanzieri hanno accertato come 250mila euro finiti su un conto corrente tedesco intestato a Di Bari hanno in buona parte fatto rientro in Italia venendo “redistribuiti” in favore anche dei figli e della moglie. Altri 92mila euro trasferiti su un conto aperto in una filiale tedesca della Deutsche Bank, sempre secondo gli inquirenti, sono stati “esclusivamente per spese personali” e per estinguere una sofferenza bancaria di oltre 49mila euro conseguente a finanziamenti ed esposizioni degli stessi e di una società a loro riferibile. Movimenti simili sono stati ricostruiti dalla Guardia di finanza anche sui conti di Noseda e in favore di due società riferibili ad Alessandra e Luigi Di Bari che avevano sofferenze per quasi mezzo milione di euro. Mentre 1,38 milioni di euro sono stati trasferiti alla G.R. Consumer System Ltd, società “riferibile” a Goldstein.
Non solo: la terza tranche dei pagamenti di Embraco era legata da contratto all’aumento di capitale di Ventures, ma ad avviso degli inquirenti la ricapitalizzazione sarebbe stata effettuata con una triangolazione. Dai conti partirono due bonifici da 600mila e 230mila in favore della Lad, società amministrata da Alessandra Di Bari, che li utilizzò per sottoscrivere l’aumento. “Ventures eroga a Lad soldi per sottoscrivere il proprio aumento di capitale”, sintetizza la procura che ora ha messo un punto a quella che la Fiom Cgil definisce “una vicenda paradigmatica di come funzionino le reindustrializzazioni” in Italia.
“Se quanto ipotizzano dalla magistratura sarà confermato, quella di Embraco non è un’avventura finita male – spiega Barbara Tibaldi, membro della segreteria generale della Fiom a Ilfattoquotidiano.it – ma nata, con il bollino di Invitalia e del ministro Carlo Calenda, con questi presupposti”. Per la sindacalista ora “è il momento che ognuno si assuma le sue responsabilità, compresa Whirlpool”. La Fiom chiede quindi una “convocazione urgente” per “chiarire il futuro di oltre 400 lavoratori che lottano e aspettano da oltre due anni”.