martedì 31 agosto 2021

Il Catasto batte i prezzi di mercato. Tasse al top in 10 città. Ecco la mappa. - Cristiano Dell'Oste

 

A Pordenone e in altri nove capoluoghi l’imponibile Imu è in media superiore al prezzo di mercato. Pesano gli estimi non aggiornati e la crisi da Covid. A Imperia i vantaggi maggiori, bene anche Milano.

Avere una casa a Imperia può essere un affare, almeno sotto il profilo fiscale: si paga l’Imu su un valore catastale medio di 73.600 euro a fronte di un valore di mercato di 202mila euro. In pratica, un rapporto di uno a 2,75. A Pordenone, invece, il risultato è ribaltato: si viene tassati su 125.300 euro, mentre il prezzo si ferma sotto i 90mila euro. Non è una lotteria, perché non ci sono premi in palio. Ma l’incrocio tra imponibile Imu e prezzi di mercato riserva più di una sorpresa. Ed evidenzia, oltre ai difetti del catasto, le fragilità dei mercati immobiliari locali e l’impatto della crisi da Covid-19 sui prezzi delle case.

L’elaborazione del Sole 24 Ore, in collaborazione con Nomisma, confronta il valore catastale medio (abitazioni in categoria A/2 e A/3, il 79% del totale) e le quotazioni medie di fine 2020 (per un appartamento di 90 metri quadrati, tipologia usato civile). Sui 103 capoluoghi rilevati dalle statistiche catastali, ce ne sono dieci in cui il prezzo medio di mercato scende sotto l’importo figurativo fiscale. Non solo Pordenone, ma anche Alessandria, Taranto, Mantova e Viterbo. Altri nove capoluoghi, tra cui Venezia e Milano, hanno invece un rapporto superiore a due e sono, per così dire, i più “avvantaggiati” dal catasto.

Le «Raccomandazioni specifiche per Paese» del 2019 della Ue, citate nel Pnrr, suggeriscono una «riforma dei valori catastali non aggiornati». La revisione, però, non rientra nel menu della riforma fiscale il cui disegno di legge delega è atteso a settembre in Consiglio dei ministri. L’atto d’indirizzo approvato a fine giugno dalle commissioni Finanze di Camera e Senato su questo punto non prende posizione, e il silenzio è quanto mai indicativo: nonostante le ipotesi circolate in precedenza, la volontà parlamentare è quella di non riaprire un dossier così delicato.

A riportare l’attenzione sul tema è piuttosto l’atto di indirizzo 2021-23 del ministero dell’Economia, che ha sollecitato maggior aggiornamento e integrazione dei database immobiliari «anche nell’ottica di una più equa imposizione immobiliare» (si veda Il Sole 24 Ore del 20 agosto scorso).

Ecco perché è interessante, intanto, inquadrare la situazione. Il raffronto con il valore di mercato mostra quanto possa essere diverso il peso dell’Imu, a parità di delibera: la classica aliquota del 10,6 per mille, applicata da moltissimi Comuni, può tradursi in un tax rate più o meno pesante. Si può passare così dallo 0,4% di carico fiscale sul valore di mercato effettivo a Imperia fino ad arrivare all’1,2% di Pordenone (dove comunque pure l’aliquota ordinaria si ferma all’8,85 per mille). E anche l’11,4 per mille di Milano si traduce in uno 0,5%, distante dai carichi fiscali più pesanti.

Dietro i divari tra le città non c’è mai una spiegazione unica. Gli estimi attuali fotografano il mercato di fine anni ’80 e da allora ci sono città e quartieri in cui i prezzi sono cresciuti o diminuiti. Padova, ad esempio, è penalizzata anche da rendite catastali tra le più elevate d’Italia, superate solo da Siena e Roma.

Bisogna ricordare poi che si parla sempre di dati medi. Con innumerevoli eccezioni, anche all’interno dello stesso Comune: case in centro con pochi vani hanno rendite più basse, ma se sono in categoria signorile (A/1) il discorso si ribalta; abitazioni di nuova costruzione sono in genere più quotate dal catasto, ma una villetta può pagare di più se è iscritta come A/7 anziché A/2; molti immobili ristrutturati – ma non tutti – hanno visto crescere la rendita (e i contribuenti che sfruttano i bonus sui lavori sono ormai 10,3 milioni). E ancora: alcuni Comuni come Roma, Milano, Bari e Lecce sono stati oggetto di revisioni delle rendite più o meno estese, mentre nella maggioranza degli altri non si è intervenuti.

In generale, fuori dai capoluoghi è probabile che il catasto sia più penalizzante per i proprietari, perché nei piccoli centri i valori di mercato riflettono di solito le minori possibilità di affitto e rivendita.

Illustrazione di Giorgio De Marinis/Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

Tensione sui prezzi: sarà inflazione? Il rebus d'autunno in sei grandi indizi. - Michela Finizio

 

La bolletta del gas è salita del 15,3%, quella dell’elettricità del 9,9%. Il petrolio ha raggiunto i 71 dollari al barile, la benzina 1,65 euro al litro. Alle stelle grano (+32%) e caffè (+49%), allarme sui chip. Ma le fiammate potrebbero essere transitorie. 

Prodotti e servizi travolti dalle recenti fiammate inflazionistiche: i rincari, già rilevati dagli osservatori o previsti per il prossimo autunno, sfiorano diversi comparti. Aumentano le bollette di gas e luce, rispettivamente del +15,3% e del 9,9% per una famiglia tipo in regime di tutela nel terzo trimestre 2021. Così come tutti gli altri beni energetici, trainati dal prezzo del petrolio che la scorsa settimana ha superato i 71 dollari al barile (+56,7% su base annua). Tanto che il pieno di benzina è salito del 18% rispetto all’estate scorsa.

Anche l’agroalimentare affronta le ricadute del boom delle materie prime. Le quotazioni del grano hanno raggiunto i 245 euro per tonnellata (+32%) ed è solo un questione di tempo prima che le quotazioni dell’arabica (184 centesimi di dollari per libbra, ai massimi dal 2014) impattino sul prezzo della tazzina di caffè.

Ma quali sono le variabili che influenzeranno i rialzi dei prezzi al consumo nei prossimi mesi? Si possono riassumere in sei punti i fattori che animeranno la rinegoziazione dei listini, tra tensioni salariali e costi di produzione in molti casi lievitati. Un trend che preoccupa ma che «potrebbe rivelarsi transitorio», ha affermato venerdì scorso il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, nel suo video-discorso al simposio di banchieri di Jackson Hole, negli Usa.

1) IL PESO DELL’ENERGIA.

Il rimbalzo rispetto ai mesi di lockdown.

I recenti rialzi dei prezzi potrebbero non rappresentare le premesse di un ingresso in un ciclo inflazionistico. È possibile che le impennate registrate negli Usa e in Europa abbiano carattere transitorio, legato a più fattori concomitanti. Il primo è un effetto statistico: i tassi d’inflazione recenti sono calcolati confrontando i livelli dei prezzi attuali con quelli dei mesi immediatamente successivi al lockdown, che in diversi casi registravano contrazioni anomale. Un fenomeno molto marcato ad esempio sul petrolio e sui prodotti energetici, dove i rincari di oggi in parte recuperano le precedenti riduzioni.

«L’inflazione italiana registrata a luglio 2021 (+1,9% su base annua, ndr) è comunque più contenuta del +5,4% degli Stati Uniti - spiega Fedele De Novellis, economista di Ref Ricerche - Il nostro dato per ora è soprattutto legato al rincaro dei beni energetici e della benzina, e per gran parte deriva dall’incremento del prezzo del petrolio. Queste voci erano crollate in modo consistente durante il picco dell’emergenza sanitaria».

Basta fare un esempio con i dati dell’osservatorio del ministero dello Sviluppo economico sul prezzo dei carburanti: la benzina, che a luglio 2019 costava 1,594 euro al litro, l’estate scorsa era scesa a 1,403 euro come conseguenza diretta del recente blocco degli spostamenti, mentre a luglio di quest’anno è risalita a 1,650 euro al litro.

2) CATENA DELLE FORNITURE.

Materie prime e cicli industriali interrotti.

Il mercato delle materie prime, sia industriali che agricole, sembra aver accusato il colpo. Il boom dei costi di alcune importazioni è strettamente correlato alle scorte erose durante il precedente periodo di crollo dei consumi e al successivo rapido recupero della domanda per la ripresa dell’industria mondiale. Gli stop and go imposti per contenere i contagi hanno stravolto alcune filiere. «Le condizioni di diversi settori sono variate in base alle disposizioni normative spesso in modo repentino, determinando sforzi organizzativi importanti con inevitabili riflessi sui rifornimenti e sui costi di produzione», spiega De Novellis. Era dunque prevedibile che oggi, di fronte alla ripresa economica e ai piani di investimento volti a far ripartire la produzione, si generassero pressioni sui prezzi. «Fa impressione guardare le variazioni - aggiunge l’economista di Ref Ricerche - ma in realtà le regole del gioco non sono cambiate. Per questo l’inflazione potrebbe essere solo un fenomeno transitorio. La sfuriata sembra già che stia rientrando».

Ad esempio i prezzi del legname, dopo essere triplicati, nelle ultime settimane sono crollati. Anche l’acciaio, dopo il picco, ha iniziato a scendere. «Certamente potremo assistere anche ad altre sorprese, ma le ricadute sui prezzi freneranno una volta che i cicli industriali si saranno assestati. E addirittura alcuni prezzi potrebbero mostrare delle riduzioni», dice il responsabile dei report congiunturali di Ref Ricerche. Tra le altre materie prime sotto i riflettori c’è anche il rame (+43% su base annua), l’alluminio (+47%), ma anche alcuni prodotti agricoli che potrebbero avere riflessi diretti sul carrello della spesa, come il grano, la soia (le cui quotazioni però iniziano a ridimensionarsi), mentre il caffè ha toccato i 184 centesimi di dollari per libra con un incremento del 49% rispetto ad agosto dello scorso anno.

3) COLLO DI BOTTIGLIA.

La logistica chiede il conto dopo gli sforzi.

Va monitorata, inoltre, la ricaduta sui prezzi finali al consumatore del caro della logistica: i noli marittimi per i carichi alla rinfusa sono ai massimi da undici anni (il Baltic Dry Index è oltre 4mila punti) e quelli per i container sono decuplicati rispetto all’anno scorso sulle principali rotte dall’Asia (per spedire un container da 40 piedi dalla Cina all’Europa oggi si spendono più di 14mila dollari). Anche in questo caso il recupero della domanda, insieme al disallineamento geografico tra domanda e disponibilità di container e di navi cargo, hanno generato un collo di bottiglia.

L’offerta inadeguata ha fatto schizzare i prezzi alle stelle e, in questo caso, si rischiano ritardi nei rifornimenti. Una congestione che, se non verrà presto riassorbita, potrebbe minacciare il ritorno alla normalità di alcuni cicli produttivi e di conseguenza l’alleggerimento delle pressioni sui prezzi.

4) TENSIONI SALARIALI.

La grande riallocazione della manodopera.

Il potere d’acquisto dei consumatori è strettamente connesso alle dinamiche del mercato del lavoro e le tensioni salariali si riflettono sui cicli produttivi. «Negli Usa - racconta De Novellis - sono emersi problemi di reperimento di manodopera in alcuni settori, soprattutto nella ristorazione dove molti licenziati avevano trovato posto nella logistica o nei trasporti (dove i salari sono più alti). In Italia le aziende turistiche in alcuni casi hanno faticato a trovare stagionali. Interi comparti potrebbero risentire di questa scarsità di manodopera: non si trovano informatici, così come autisti per guidare i camion».

Siamo,in una fase di riallocazione e riorganizzazione della forza lavoro per cui potrebbero esserci tensioni sui costi. «Non è una situazione da boom economico: non assisteremo ad aumenti generalizzati sui salari, ma piuttosto a incrementi retributivi su alcune professionalità specifiche», conclude.

5) I NUOVI TREND.

La domanda cambia e si adatta al post Covid.

Alcuni cambiamenti della domanda cui stiamo assistendo sono strutturali. La pandemia ha ribaltato e rimescolato le priorità e le scelte dei consumatori. Lo dimostra la corsa ai personal computer e il boom dell’informatica sulla spinta della digitalizzazione imposta dal Covid in tutti i comparti e tra le mura domestiche. La filiera ha faticato a star dietro alla domanda e la crisi dei microchip che oggi si registra sui mercati internazionali ne è un risultato: i componenti introvabili bloccano i cicli produttivi e questo si riflette, inevitabilmente, sui prezzi. Dall’altra parte c’è la crisi dell’abbigliamento e delle calzature che soffre per una domanda che si è quasi azzerata durante le chiusure.

Se la digitalizzazione appare un processo irreversibile, alcuni di questi cambiamenti potrebbero essere però transitori. Come ad esempio il boom dei prezzi delle auto usate che si è registrato negli Stati Uniti dopo le riaperture, sostenuti da gruppi di consumatori che si riversavano sull’automotive per paura di usare i mezzi di trasporto pubblico. «Una volta contenuto il fenomeno - spiega De Novellis - la domanda si raffredderà nuovamente e i prezzi si normalizzeranno».

6) LA SPINTA AI CONSUMI.

I rischi di politiche di sostegno eccessive.

Alcuni mesi fa, all’interno del dibattito sulla manovra di bilancio voluta dal presidente Usa Joe Biden, alcuni economisti sollevarono l’obiezione che l’entità dell’espansione fiscale programmata per quest’anno fosse eccessiva, tanto da rischiare un rialzo sull’inflazione. Secondo i sostenitori della tesi “inflazionista”, in estrema sintesi, un impulso fiscale di dimensioni così rilevanti, sovrapponendosi all’effetto positivo sui consumi legato alla rimozione delle misure di distanziamento, produce un incremento della domanda tale da superare il livello del Pil potenziale, generando così spinte sui prezzi. «Tuttavia - spiega il ricercatore di Ref - la relazione fra impulso fiscale e consumi non si esplica in genere con immediatezza, ma tende a materializzarsi gradualmente. Tanto più se si considera che molte delle risorse stanziate spesso sono circoscritte nel tempo, valgono per l’anno in corso».

È cruciale capire come nei prossimi mesi, in base all’evoluzione dell’emergenza sanitaria, i governi, anche quello italiano, intenderanno ridurre i sostegni all’economia.

Illustrazione di Laura Cattaneo/Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

Debito record, così i bond sono saliti al 75% del Pil mondiale. - Vito Lops

Illustrazione di Maria Limongelli/Il Sole 24 Ore

Un mare di debiti. Il valore delle obbligazioni in circolazione è pari a tre quarti del Pil globale. Boom di acquisti anche se i prezzi corrono.

«L’inflazione è alta ed è causa di preoccupazione ma continuiamo a credere che sia transitoria». È un mantra che il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, recita da tempo. E che ha ripetuto venerdì nel tanto atteso discorso di Jackson Hole. Parole rassicuranti per gli investitori, che sono tornati a comprare Treasury e altre obbligazioni con conseguente calo dei rendimenti. Nei prossimi mesi scopriremo se Powell avrà ragione o se invece (ci si augura di no) l’inflazione scapperà di mano alle banche centrali. Resta il fatto che la fotografia attuale – eredità della pandemia e dei lockdown – indica che negli Stati Uniti l’inflazione viaggia al 5,4%, come non accadeva dal 2008, e soprattutto che quella core (depurata cioè delle componenti più volatili, come alimentari ed energia) ha toccato a giugno il 4,3% annuo, il massimo dal 1992.

Tassi dei titoli di Stato e inflazione di solito hanno un andamento correlato, proprio perché nel rendimento dei bond è incorporata, oltre al rischio emittente, anche la componente inflattiva. Ma in questa fase l’inflazione Usa si è totalmente sganciata dall’andamento delle obbligazioni, replicando graficamente uno schema visto prima d’ora solo negli anni ’70 quando la crisi petrolifera fece balzare del 300% il prezzo del greggio.

Va detto che l’inflazione corre un po’ dappertutto. Persino nell’Eurozona – da anni alle prese con il rischio contrario di “giapponesizzazione” di tassi ed economia – ha superato il mese scorso la soglia di attenzione del 2% portandosi al 2,2%. Ma mentre i prezzi al consumo corrono gli investitori anziché vendere le obbligazioni, riportando i tassi più in alto in armonia con il crescente rischio inflattivo, li acquistano. Ce lo dice il dato sulla capitalizzazione dei bond globali, sia governativi che corporate, che ormai sfiora la soglia dei 70mila miliardi di dollari, pari a circa tre quarti del Prodotto interno lordo globale (che nel 2020 è stato di 84mila miliardi, mentre per il 2021 è stimato intorno a 93mila miliardi): un dato senza precedenti per questa classe di investimento, aggravato dalla quota di bond che viaggiano a tassi negativi (chi li compra paga un interesse al debitore anziché riceverlo) che si attesta intorno ai 17mila miliardi. Nel 2010 il valore delle obbligazioni in circolazione era 35mila miliardi, pari al 53% del Pil.

Il Covid – stimolando l’emissione di nuovo debito con acquisti foraggiati dalle banche centrali, i cui bilanci hanno superato 30mila miliardi di dollari – ha accentuato contraddizioni che il mondo finanziario stava già sperimentando. E che adesso rischiano di trasformarsi in pericolose bolle. La grande domanda è cosa accadrà alla montagna di bond in circolazione se e quando le principali banche centrali inizieranno a rialzare i tassi. Su questo fronte siamo sul filo del rasoio. Non a caso Powell due giorni fa ha comprato altro tempo indicando che, anche se la Fed avvierà entro fine anno il tapering (il piano di riduzione degli stimoli monetari), questo non implica un automatico rialzo dei tassi. Si temporeggia nella speranza che l’economia si riprenda e metta una toppa alle bolle finanziarie che sono state create. Gran parte della partita si giocherà proprio sul trend dell’inflazione: sarà davvero transitoria come professano i banchieri centrali?

In un recente report intitolato «Rientro nell’orbita» Mark Haefele, chief investment officer di global wealth management di Ubs, scrive che «l’inflazione diminuirà nel corso del 2022 e la crescita economica si manterrà robusta». La pensa così anche la maggioranza degli investitori, dato che osservando i tassi a lungo periodo – stime di inflazione a 5 anni e per i successivi 5 – il dato si ammorbidisce al 2,3% negli Usa e all’1,7% nell’Eurozona. Ma le incognite restano. E viaggiano di pari passo con le incertezze legate alla pandemia e ai numerosi colli di bottiglia che ha generato nelle catene di rifornimento. Secondo indiscrezioni circolate nei giorni scorsi, il maggior produttore mondiale di chip, la taiwanese Tsmc, con una quota del 65% del mercato, intende aumentare i prezzi fino al 20%. È uno dei motivi per cui anche all’interno della Fed c’è spaccatura sul tema: per il governatore della Fed di Philadelphia, Patrick Harker, «ci sono evidenze che l’inflazione possa perdurare più a lungo delle attuali stime». Rick Rieder, capo degli investimenti di BlackRock, ha esortato la banca centrale Usa a ridurre gli stimoli quanto prima: «È ora di iniziare, la liquidità è troppa».

Non preoccupano solo i prezzi al consumo. Il segnale d’allarme arriva dai prezzi alla produzione, con l’indice in rialzo del 7,8% negli Usa, del 9% in Cina e del 10,2% nell’Eurozona. Le imprese potranno evitare di scaricare i costi extra sui consumatori? E che ne sarà, nel caso, dei loro utili? Domande micro che rimbalzano sullo scenario macro e poi a cascata sui mercati finanziari.

Va detto che l’inflazione è come il colesterolo. C’è quella buona (da domanda) e quella cattiva (da offerta). Questo lineare schema di pensiero – che da tempo aiuta gli economisti a filtrare i dati sui prezzi dei beni e servizi – è diventato più complesso nell’era Covid. La pandemia con i primi lockdown ha mandato KO tanto la domanda quanto l’offerta, creando uno scenario paragonabile a una guerra mondiale. In seguito le riaperture a macchia di leopardo hanno creato un forte disallineamento tra domanda (tornata tonica) e offerta, messa al palo dalla mancanza di scorte in magazzino e da problemi logistici e di produzione legati allo sviluppo di nuovi focolai e varianti del virus. Sono questi enormi colli di bottiglia creatisi in alcuni settori chiave (come quello dei chip, da cui dipende non solo la produzione di computer e smartphone ma anche di auto e molti altri beni) a creare i disagi più grandi e a lasciare incertezze sulla ripresa e sull’inflazione che verrà. E poi c’è il tema dei vaccini.

«Siamo di fronte a una doppia situazione sanitaria tra i Paesi occidentali che procedono spediti con le vaccinazioni, e quindi con l’economia in piena riapertura, e i Paesi orientali, che hanno enormi difficoltà di accesso ai vaccini, in cui si trovano però molte unità di produzione, elemento fondamentale della supply chain – spiega Yannick Lopez, head of fixed income di Ofi asset management –. Questo sta facendo salire i prezzi. Al momento queste tensioni sono viste in gran parte come temporanee. Tuttavia, la vaccinazione a due livelli può comportare il rischio di successive ondate di varianti, con il pericolo di mettere l’economia occidentale in una modalità permamente di stop-and-go. Ciò porterebbe a una disorganizzazione globale della catena di rifornimento e manterrebbe per un periodo di tempo più lungo le pressioni inflazionistiche».

Il risultato è che si naviga a vista. Le rassicurazioni di Powell sulla transitorietà del fenomeno servono a spegnere le improvvise fiammate di volatilità sulle Borse. Ma per ora sono solo parole. Per i fatti bisognerà aspettare ancora qualche trimestre.

IlSole24Ore

domenica 29 agosto 2021

Monoclonali: La cura c’è, tutto il resto invece manca. - Thomas Mackinson

 

Autunno. Medicina territoriale e alti costi: perché quella che può essere una svolta stenta a partire.

La sola cura per il Covid-19 fino a oggi ufficialmente riconosciuta è finita dentro un imbuto tipicamente italiano da cui esce col contagocce.

A sette mesi dall’autorizzazione all’uso, i pazienti trattati con farmaci a base di anticorpi monoclonali sono infatti stati soltanto 7.500 sparsi tra tutte le regioni d’Italia.

Alcune come Lazio, Veneto e Toscana svettano nella classifica; altre non brillano affatto come l’Umbria, che in una settimana ha registrato 800 nuovi contagi e un solo monoclonale somministrato.

Usa e Germania corrono Noi siamo in ritardo.

Nel complesso, la via italiana ai monoclonali – unica cura autorizzata al mondo – procede tra strappi e ritardi. Si era aperta l’8 febbraio 2021 quando, superando molte resistenze, l’Agenzia italiana del farmaco ne aveva infine autorizzato l’uso, anche se soltanto in emergenza. Le aspettative però si sono presto infrante sui numeri: in questo lasso di tempo li abbiamo usati cinque volte meno che gli Stati Uniti, tre volte meno della Germania. E vai a sapere quanti pazienti si sarebbero potuti curare e salvare.

Il sottoutilizzo, va detto, non è dovuto alle risorse, perché già a febbraio il ministero della Salute aveva reperito quelle necessarie agli acquisti a valere su un fondo da 400 milioni: con una media di mille-duemila euro a fiala, a seconda del farmaco, si potevano garantire 200 mila infusioni.

La determina dell’Aifa. Si allarga la platea.

Perché in sette mesi ne sono state fatte 26 volte meno? Per quell’imbuto fatto di inerzie, burocrazia e disorganizzazione sanitaria che continua a minare l’uscita dal tunnel. Per tentare di rovesciarlo, l’Agenzia del Farmaco prova oggi ad allargare la platea dei soggetti candidabili all’infusione. Il 4 agosto ha emanato una determina che modifica i registri cui accedono i medici per le prescrizioni. I monoclonali valgono ancora per i pazienti non ospedalizzati ad “alto rischio di progressione a Covid19 severo”, ma i vincoli sui fattori di rischio sono diventati meno stringenti.

Più precisamente, la vecchia formulazione recitava: “Si definiscono ad alto rischio i pazienti che soddisfano almeno uno dei seguenti criteri”, e giù l’elenco delle patologie (immunodeficienza, malattie cardiovascolari, diabete mellito e così via).

Nella nuova, la frase lascia il posto a un più generico “alcuni dei possibili fattori di rischio sono…”, rimettendo così al medico il compito di selezionare il paziente idoneo alla cura.

Il Veneto su tutti Ma i numeri sono bassi.

Esulta per questo il presidente del Veneto Luca Zaia: “Sarà possibile somministrare gli anticorpi monoclonali a tutti, mentre prima, in base alle indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco erano destinati solo a chi aveva anche altre patologie, ora invece le cure con i monoclonali sono aperte a tutti”.

E per una ragione fondata. Zaia sa che il primato della sua regione, che vanta il 50% di tutte le somministrazioni fatte in Italia, è in realtà ben poca cosa in termini assoluti: solo 72 richieste di prescrizione a fronte di 3.873 nuovi contagi in una settimana. Per questo il leghista tiene a far sapere ai veneti di aver informato tutte le aziende ospedaliere della buona novella.

Assistenza domiciliarePunto debole del sistema.

Le somministrazioni a singhiozzo rivelano tutta la debolezza della medicina territoriale, quella che dovrebbe velocemente diagnosticare, valutare l’eleggibilità al trattamento e organizzare l’infusione endovenosa in strutture sanitarie autorizzate.

Su questo fronte, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, non si sono registrati miglioramenti, anche se l’ultimo monitoraggio disponibile attesta un aumento delle prescrizioni (389 contro 302 della settimana precedente). Il punto è che va così coi preparati di prima generazione, quelli che richiedono un’infusione di un’ora in strutture ospedaliere organizzate, figurarsi con quelli di seconda generazione, somministrabili attraverso una semplice iniezione intramuscolo direttamente a casa dei pazienti.

Non c’è un protocollo. Nuovo ritardo in vista.

Diverse multinazionali e centri di ricerca, anche italiani, stanno mettendo a punto questi farmaci che, più semplici da somministrare, potrebbero ridare slancio all’arma spuntata che riduce infezioni e ricoveri e funge anche da barriera temporanea al virus e alle sue multiformi variazioni. I primi dovrebbero arrivare in autunno. A oggi però non c’è ancora alcuna determina Aifa relativa alla formulazione intramuscolo o protocolli nazionali per l’uso allargato in via domiciliare. Il prossimo ritardo, dunque, è già dietro l’angolo.

ILFQ

Reddito di cittadinanza, Salvini “scavalca” Renzi: “Un emendamento in manovra per cancellarlo”.

 

Secondo il leader della Lega la misura aveva un senso tre anni fa ma ora non più. Meno perentorio il compagno di partito e ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti secondo cui la misura va modificata ma non cancellata.

“In tutti i posti che ho girato per l’Italia mi hanno chiesto di togliere il reddito di cittadinanza. In manovra economica l’emendamento per farlo lo metto io, avrà la mia prima firma. Poteva avere un senso tre anni fa, ma ora abbiamo visto che non funziona e dobbiamo assolutamente cancellare il redito di cittadinanza”. Lo ha detto il leader della Lega Matteo Salvini a Pinzolo. “La proposta che faremo in piazza e in Parlamento è semplice: con i soldi che si risparmiano sul reddito cittadinanza si rinviano le cartelle esattoriali e si finanzia quota cento. Conto che sul taglio delle tasse, sulle cartelle esattoriali tutto il centro destra sia unito”, ha aggiunto il leader della Lega. Già la scorsa settimana, intervenendo al meeting di Rimini davanti alla platea di Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere, Salvini aveva affermato: “Tornassi indietro non rivoterei il reddito di cittadinanza. E’ una legge che si è dimostrata nei fatti, inidonea”. La misura è stata infatti introdotta nel 2019 con la Lega al governo e Salvini ministro dell’Interno e vice premier. Sempre più solido quindi l’asse tra Italia Viva e Lega, entrambi i partiti a testa bassa contro il Rdc.

Ieri il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti, sempre della Lega, aveva usato parole meno lapidarie: “Il reddito di cittadinanza deve essere considerato ma non deve essere un ostacolo alla dinamica del mercato del lavoro”, non deve diventare “una barriera” per la quale “molti preferiscono rinunciare al lavoro, e diventa controproducente. Questo è un meccanismo che deve essere risolto”.

Rimane di diverso avviso però il presidente del Consiglio Mario Draghi che ha affermato di condividere pienamente i principi alla base della misura. Certo, che il reddito di cittadinanza, subirà un “tagliando” dopo la pausa estiva è ormai dato per acclarato. Lo strumento verrà tarato meglio in base alla composizione del nucleo familiare e interventi dovrebbero riguardare anche gli stranieri che risiedono in Italia da meno di dieci anni e che, al momento, sono esclusi dal sussidio. Motivo principale per cui il reddito non raggiunge tutte le persone che versano in povertà secondo i criteri Istat. Possibile anche una separazione tra la componente welfare e quella workfare della misura, ossia tra il sostegno prettamente economico e l’opera di ricollocamento sul mercato del lavoro. Quest’ultima è la parte della misura che ha sinora dato i risultati più deludenti. Difficile, peraltro, attendersi il contrario, visto che le presone da reimmettere nel mercato del lavoro sono in gran parte a bassa o bassissima scolarizzazione e da tempo senza occupazione. Possibile che vegano introdotti anche maggiori vincoli nella possibilità di rifiutare offerte, con l’ipotesi anche di compensare il basso stipendio con l’integrazione del reddito.

Ormai non si contano gli studi, anche da fonti “insospettabili”, che evidenziano gli aspetti positivi di misure come un reddito universale di base. Ma questo provvedimento ha avuto anche l’effetto di prosciugare il bacino di lavoratori a cui era possibile attingere per offerte di lavoro a qualsiasi prezzo e qualsiasi condizione. Ora esiste una sogli minima sotto qui è possibile dire “no”.

ILFQ

sabato 28 agosto 2021

Le mele e le pere. - Marco Travaglio

 

Dal terrificante attentato dell’Isis alle misere vicenduole di casa nostra, è tutto un cianciare a vanvera, violentare la logica, paragonare le mele con le pere. In Afghanistan il fiasco della “lotta al terrorismo” e dell’“esportazione della democrazia” con gli eserciti è sotto gli occhi di tutti: i terroristi sono più forti e motivati, i talebani più potenti e popolari di prima. Ma gli strateghi de noantri non vogliono ammettere di avere detto e fatto fesserie per vent’anni, e fingono di non capire. Non solo Salvini, che non sa neppure dov’è Kabul, ma anche il Giornale e Libero confondono l’Isis (l’aggressore) coi talebani (gli aggrediti, insieme ai profughi e alle truppe occidentali in ritirata): “Kamikaze Isis e talebani”, “I mostri barbuti di Kabul. Altro che trattare, ci bombardano”. Quindi sarebbero i talebani che, accingendosi a governare, hanno avuto la bella idea di organizzarsi una strage di civili in casa propria. Ed è tutta colpa di Conte, che vuole il dialogo coi talebani (proprio in funzione anti-Isis), come Ue, Onu, Nato, Cia, Merkel ecc, mentre gli Usa un anno fa ci hanno financo stretto gli accordi di Doha. Questi poveretti non sanno che la strage imporrà più di prima il dialogo coi talebani, unico potere sul campo in grado di impedire un governo dell’Isis (che li considera dei pericolosi moderati e non è figlio delle loro guerre, ma delle nostre).

Dalla tragedia alla farsa, apprendiamo da Rep che Durigon, il fascioleghista costretto a mollare la poltrona grazie anche al Fatto e ai nostri lettori, non contento di avere riabilitato Mussolini a scapito di Falcone e Borsellino, pretende insieme a Salvini un risarcimento, una specie di riscatto: non solo la promozione a vicesegretario della Lega, ma financo “le dimissioni della Lamorgese e forse anche di Conte”. Il Corriere gli attribuisce questa frase lunare: “C’è chi vuole coprire il Viminale e Conte”. Da cosa debba mai dimettersi Conte, e perché, non è dato sapere. Idem per la Lamorgese che, diversamente da Salvini, non solo è il ministro dell’Interno, ma addirittura lo fa. A proposito di paragoni fra mele e pere, segnaliamo quello fra i nostalgici del Duce e di Rauti e un tizio di FdI che 16 anni fa andò a un party in costume nazista: possibile che nessuno distingua fra una cosa seria e una goliardata? Càpita poi che il Fatto immortali una brigata di renziani che se la spassa a Formentera mentre tenta di scippare ai poveri i 500 euro al mese di reddito di cittadinanza al grido “dovete soffrire e sudare”. La risposta degli scioperati è: “Anche Travaglio è stato a Formentera”. Già, ma non è un parlamentare, non campa di soldi pubblici e soprattutto non ha mai dato lezioni di laboriosità a chi vive in miseria. Se non capiscono la differenza, gli facciamo un disegnino.

ILFQ

Afghanistan: allerta massima di attacchi anche in Usa. -

 

Raid Usa con drone, ucciso un membro dell'Isis-K.


E' "allerta massima" in Usa per il timore di attacchi sul territorio statunitense sulla scia dell'evacuazione dall'Afghanistan e dell'attacco a Kabul. Lo riferisce la Cnn citando una riunione tra i vertici dell'Homeland Security (Dhs) e i responsabili della giustizia federale americana.

In particolare, si stanno tracciando "tre minacce principali", compresa l'infiltrazione di cellule dell'Isis o di al Qaeda nel processo di evacuazione in Usa di profughi afghani. "E' in corso un approfondito screening di chi entra", ha detto nell'incontro il capo dell'intelligence del Dhs, John Cohen.

La risposta americana al sanguinoso attacco all'aeroporto di Kabul non si è fatta attendere. Dopo essersi presentato davanti alla telecamere in lacrime ed aver assicurato che i responsabili dell'attentato l'avrebbero pagata, il presidente Joe Biden ha autorizzato un raid in Afghanistan, nella regione di Nagahar, durante il quale è stata colpita e uccisa una delle menti dell'Isis-K che progettava futuri attacchi.

L'identità del militante non è stata resa nota: il Pentagono lo ha definito un 'planner' dell'organizzazione. Secondo indiscrezioni, l'uomo tramava futuri attacchi ma non sarebbe stato direttamente coinvolto con l'attentato a Kabul. "Riteniamo che questo terrorista fosse coinvolto nella pianificazione di futuri attacchi a Kabul", riferisce un funzionario dell'amministrazione citato dai media americani. L'uomo sarebbe stato sotto osservazione da prima dell'attentato e il personale americano avrebbe atteso che fosse solo prima di lanciare l'attacco con il drone. Il Reaper americano, partito da una base in Medio Oriente, lo avrebbe colpito mentre era a bordo di un veicolo. "Le forze armate americane hanno condotto un'operazione anti terrorismo contro uno degli organizzatori dell'Isis-K. Il raid è avvenuto nella provincia di Nangahar, in Afghanistan. Le indicazioni preliminari segnalano che il target è stato ucciso. Non siamo a conoscenza di vittime civili", si legge in una nota di Bill Urban, portavoce del Central Command. L'ordine di colpire è stato impartito dal ministro della Difesa, Lloyd Austin. Non è chiaro se il raid sia un caso isolato o se sia il primo di una serie in risposta all'attacco a Kabul, durante il quale hanno perso la vita quasi 200 persone di cui 13 militari americani.

L'azione mirata americana segue la nuova allerta lanciata dall'ambasciata Usa a Kabul, che ha invitato gli americani a non recarsi all'aeroporto. A chi si trova già nei pressi dello scalo è stato chiesto di lasciarlo immediatamente alla luce delle minacce per la sicurezza. La autorità Usa ritengono infatti che nuovi attacchi siano probabili in questi ultimi giorni prima del 31 agosto. Una scadenza che si avvicina e che rende sempre più urgente l'evacuazione dal Paese asiatico. Nelle ultime 12 ore sono 4.200 le persone evacuate da Kabul, riferisce la Casa Bianca sottolineando che dal 14 agosto sono state evacuate 109.200 persone, mentre dalla fine di luglio ne sono state evacuate 114.800. Il Dipartimento di Stato ha riferito di essere in contatto con circa 500 americani in Afghanistan che chiedono assistenza per essere evacuati.
Dopo l'attacco all'aeroporto di Kabul, Joe Biden aveva assicurato gli Stati Uniti avrebbero perseguito i responsabili: "Vi prenderemo e ve la faremo pagare", ha detto con le lacrime agli occhi, riportando alla memoria le parole dell'ex presidente George W. Bush dopo gli attacchi dell'11 settembre. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, è stata ancora più esplicita del presidente: Biden "non vuole" che i responsabili "vivano più sulla Terra".

ANSA