sabato 19 dicembre 2015

Libia: il nodo della Banca Centrale Libica, l'oro di Gheddafi, i beni congelati dalle megabanche, la sorte del dinaro. - Maria Grazia Bruzzone


Tripoli, banca centrale

Tra i tanti nodi che in Libia l’accordo politico deve sciogliere c’è la Banca Centrale Libica. Ovvero le due banche centrali, dal momento che nel gennaio 2014 le milizie del generale Khalifa Haftar (governo di Tobruk riconosciuto a livello internazionale) si sono impossessate della filiale di Bengasi della Banca Centrale Libica il cui quartier generale è a Tripoli. “Con $100 miliardi dentro” titolava Business Insider (22/1/2015). Mentre secondo il NewYorkTimes, i $100 miliardi era quel che rimaneva alla Banca Centrale nel suo insieme.    
Non solo. Il governo di Tobruk licenziava l’attuale governatore della Banca Centrale a Tripoli, la sede principale, Sadiq al-Kabir e ne nominava uno di sua fiducia, Ali Salim al-Hibri. Ma Kabir continuava imperterrito a lavorare nella sede principale di Tripoli. Che fra l’altro controlla i ricavi del petrolio, vitali per il paese – raccontava Reuters  a luglio. 
La scelta (politica) del Fondo Monetario Internazionale. 
Il FMI ha deciso di riconoscere Hibri come suo interlocutore unico, informava Reuters . E spiegava come questa mossa complicasse   molto le cose. La Banca basata a Tripoli si è sforzata di star fuori dai conflitti.  E sia il FMI sia i paesi stranieri fino a quel momento trattavano con entrambi i banchieri, cercando di dar vita a un budget comune dei due governi (che hanno da pagare stipendi delle milizie, stipendi pubblici, medicine e altro ancora).    
“Il FMI ha rotto un accordo a cui erano giunti i due governi per un budget comune”, osservava Mattia Toaldo del Council of Foreign Relations Europe. Aggiungendo che il FMI difficilmente potrà tornare sui suoi passi.   
Peraltro Hibri, il banchiere nominato da Tobruk, ha sì stabilito il nuovo quartier generale a Bengasi ma non è riuscito a convincere i clienti del petrolio a pagare attraverso i suoi conti in quanto le prove della proprietà degli asset petroliferi si trovano a Tripoli. Rendendo ancor più difficile la vendita di petrolio - la cui estrazione del resto si è quasi del tutto interrotta. Pur avendo la Libia le maggiori riserve petrolifere dell’Africa (ancora Reuters).    
Anche secondo il NYT la banca centrale di Tripoli era una delle poche istituzioni ancora funzionanti nel paese, e Kabir aveva viaggiato all’estero per assicurare i leader stranieri dell’integrità dello Stato libico nella crisi.    
Quel che è certo è che istituzioni esterne come il FMI entrano nel gioco politico, così come hanno fatto, e probabilmente si accingono a fare ancora, le megabanche straniere, in primo luogo anglosassoni che come vedremo più avanti hanno già avuto un ruolo.  

Il bottino nella Banca Centrale di Bengasi.  
Il generale Haftar vuole che il governo di Tripoli sappia che può controllare la maggior parte del contante e delle riserve d’oro rimasti”, scrive BI. Che en passant qualifica come ‘disertore’ (renegade) quello che non è esattamente un bel personaggio, ma è vicino agli Usa dove ha vissuto a lungo dopo essere fuggito a suo tempo dalla Libia, ed è l’uomo forte nel governo di Tobruk.    
A metà del 2014 la Banca Centrale aveva ancora $113 miliardi di riserve in valuta straniera, riportava Al-Ayat, uno dei maggiori giornali panarabi, basato in Libano.  Molto meno dei $321 miliardi che deteneva prima delle sommosse del 2011, ma ancora abbastanza per pagare i salari e assicurare il funzionamento delle infrastrutture petrolifere - aggiungeva BI.  
$113 miliardi in valuta estera rafforzate da 116 tonnellate d’oro,  a dar retta a un post sul sito indipendente medio orientale Al-Monitor (luglio 2014). E faceva notare come le riserve estere ammontavano appunto a $321 miliardi prima della rivoluzione del 2011 – quando l’oro di Gheddafi era valutato dal World Gold Council in 143 tonnellate (150 t, secondo altri ). Con la rivoluzione vennero subito ritirati dai depositi bancari $20 miliardi costringendo la Banca Centrale a vendere 5 t d’oro, e poi anche a disfarsi di $19 miliardi di riserve estere, spiegava, sottolineando tuttavia le rassicurazioni della Banca Centrale: un collasso della Libia non è in vista, almeno per altri 5 anni. Va aggiunto per precisione che la Banca Libica aveva altre due filali, a Sirte e a Sabha, nel sud, ma di queste non si è più parlato. Cosa vi fosse dentro non sappiamo.    
I ‘ribelli’ avevano subito dato vita a una loro Banca Centrale a Bengasi. Una mossa sospetta per la sua immediatezza, forse ‘pilotata’ (vedi  The New American 30/3/20 11 ripreso da Global Research ).    
Che una parte consistente delle riserve in valuta e oro di Gheddafi fossero nella filiale di Bengasi lo raccontava (6/6/ 2011) lo stesso vice capo della Banca Centrale nominato dai ‘ribelli’, Abdalgader Albagrmi (qui). Vivida la descrizione dello scasso.    
“C’erano due camere blindate sotterranee incassate in doppi muri e protette da una pesante porta blindata per aprire la quale servivano tre chiavi. Due erano a Bengasi, mentre la terza era a Tripoli, ancora sotto il controllo di Gheddafi. Ci vollero tre giorni per riuscire a penetrare all’interno. Nella prima camera trovarono dinari e contante in valuta estera. Albagrmi non è autorizzato a rivelare la quantità, si limita a dire ‘tra 500 milioni e 1 miliardo di dinari’, quanto alla valuta estera ‘non era molto’.  
Nella seconda camera c’era una grande pila di barre d’oro che alcuni hanno valutato in $1 miliardo”.    
Albagrmi minimizzava? Molto probabilmente sì.    
Una mossa subitanea che già in quei mesi del 2011 appariva a qualcuno sospetta, quella dei ‘ribelli’, che allora apparentemente non si sapeva neppure chi fossero. La rivolta a Bengasi scoppia il 15 febbraio 2011. Già il 27 febbraio nasce il TNC – Transitional National Council, autoproclamato governo provvisorio a Bengasi  che si spaccia come ‘unico rappresentante del popolo libico’e   a marzo la comunità internazionale si affretta a riconoscere – a settembre o farà anche l’ONU. Ebbene, già a marzo il TNC dà vita alla sua Banca Centrale e alla nuova Lybian Oil Company, anch’essa a Bengasi. 
“Mai sentito di una banca centrale creata in poche settimane da una rivolta popolare” nota un analista economico nel post di The New American. “ Suggerisce che quei ribelli erano più che una banda di rivoltosi e che c’erano delle influenze sofisticate”.  
Un altro blog a cui si rimanda è sarcastico: “Quando il conflitto finirà quei ribelli potranno diventare consulenti”. Il blog citato avanza il sospetto di un coinvolgimento esterno. “Sembra che qualcuno ritenesse molto importante controllare le banche e il rifornimento di denaro prima ancora che un governo vero fosse formato”.   
Dubbi esprimevano anche media mainstream come CNBC. “E’ la prima volta che un gruppo rivoluzionario si preoccupa di dar vita a una banca centrale mentre sta ancora combattendo per prendere il potere. Un’indicazione di quanto straordinariamente potenti siano diventate le banche centrali oggi”.    
La Banca Centrale statale e il piano OIL for GOLD fu la causa prima dell’intervento Nato per rimuovere Gheddafi?  
“Alcuni osservatori sono convinti che il tema della Banca Centrale sia stato addirittura la motivazione alla base degli interessi internazionali nei confronti del regime libico” osserva il post di New American citando un altro pezzo che ha circolato molto sul web, secondo il quale “finanzieri globali e manipolatori del mercato non tolleravano l’indipendenza dell’autorità monetaria libica” sotto il Raiss. La Banca Centrale era infatti  pubblica, dello Stato.   
“Il governo libico crea la sua moneta attraverso la sua Banca Centrale, il dinaro libico agganciato al valore dell’oro. Il maggior problema dei cartelli bancari globalisti è che per fare affari con la Libia devono passare attraverso la Banca Centrale e la moneta nazionale, sui quali non hanno assolutamente alcun dominio né capacità di fare pressioni. Obama non ne parla, e nemmeno Sarkozy e Cameron, ma in cima all’agenda globalista c’è certamente la volontà di assorbire la Libia nel novero delle nazioni compiacenti”. Magari sostituendo il dinaro, comunque agganciandolo al dollaro: questa sarà la via da seguire alla fine, veniva ipotizzato.   

OIL FOR GOLD. 
Tanto più che Gheddafi pianificava di vendere il petrolio libico in cambio di dinari agganciati all’oro invece che in cambio di dollari come si era fatto fino ad allora. Oil for gold, appunto, il nome del piano. Una mossa che avrebbe potuto contagiare altri paesi, e minacciare molto da vicino la supremazia del dollaro fondata proprio sui petrodollari. “Ricordate Saddam Hussein? Nel 2000 voleva fare qualcosa di simile, vendere petrolio in euro, abbandonando il dollaro. La sua fine è nota”.    
Così un altro  blog. Una teoria diffusa soprattutto nei media non occidentali, rimarcava un   successivo post NewAmerican (30/11/2011), molto più analitico del precedente e ricco di citazioni. Eccone qualcuna.  
“Sarkozy arrivò a dichiarare che la Libia rappresentava una “minaccia per la ‘sicurezza finanziaria del mondo”.    
“Nel 2009, in quanto capo dell’Unione Africana, Gheddafi aveva proposto che il continente azzoppato economicamente adottasse il dinaro il Dinaro aureo.   
“Il suo piano avrebbe rafforzato l’intero continente africano agli occhi degli economisti – per non dire degli investitori. Ma sarebbe stato devastante per l’economia Usa, il dollaro americano e l’élite del sistema.   

Non solo la moneta. Anche i progetti africani del Raiss andavano fermati.  
In quell’estate del 2011, Gheddafi era ancora vivo e combatteva, ma la ‘rivoluzione’ libica appoggiata – chi dice preparata – dalla Nato aveva subito prodotto il congelamento dei beni all’estero del Fondo Sovrano Libico e nuove sanzioni. Mohammed Siala, ministro della cooperazione nonché direttore del fondo sovrano libico, rilasciava  una interessante intervista. Ne aveva scritto a suo tempo Underblog .  
L’intervento in Libia, raccontava Siala, mira o comunque ha per conseguenza di bloccare non solo progetti di infrastrutture in Libia già assegnati a ditte europee, oltre che russe e cinesi. Ma di fermare anche progetti di cooperazione della Libia gheddafiana con paesi africani, volti a emancipare quelle economie. Col risultato, fra l'altro, di impoverire ulteriormente quelle popolazioni e spingerle a riversarsi in massa in Europa.    
I libici col Raiss  si erano infatti   lanciati in grandi investimenti. In Libia. “Il primo era stato il canale di 4000 Km che trasporta l’acqua prelevata dal gigantesco bacino naturale sotterraneo scoperto anni fa, con una portata pari alle acque del Nilo per 50 anni, e rifornisce fra l’altro Bengasi e Tripoli. C’è chi dice che sullo sfruttamento di queste acque avrebbero messo gli occhi i francesi, primi nel mondo nel settore acque.  
"C’è una ferrovia che attraversa il Nord Africa, ad eccezione della Libia. Vogliamo portare a termine l’integrazione nell’economia regionale e spingerla oltre. I cinesi costruiscono il tratto Tunisia-Sirte. I russi hanno il compito della Sirte-Bengasi. C’era una trattativa con l’Italia per la sezione Bengasi-Egitto, così come per le locomotive . Abbiamo anche iniziato la costruzione di una linea transcontinentale nord-sud, con il tratto Libia-N’Djamena. Sono investimenti di interesse internazionale e il G8 aveva promesso di aiutarci, ma non abbiamo visto arrivare nulla”. Così Siala.  
  
E in Africa. Il visionario Gheddafi voleva sviluppare il continente. Una quota del fondo sovrano libico va in azioni di sviluppo del continente, in agricoltura, commercio, miniere, ecc. raccontava Siala. Per il quale è questo l’aspetto più critico del blocco. 
“Il continente non è in grado di esportare materie prime. Noi investiamo in modo che queste siano trasformate e commercializzate in Africa, dagli africani. Si tratta di creare posti di lavoro e mantenere il plusvalore in Africa. Da un lato gli europei ci incoraggiano, perché si prosciuga il flusso migratorio, dall’altro si oppongono perché dovrebbero abbandonare lo sfruttamento coloniale”.  
Un’Africa ‘gheddafiana’ aperta a russi e cinesi, oltre che agli europei, certo non poteva piacere all’Occidente e segnatamente agli Usa, che, sebbene nel 2004 avessero promosso un’apertura   nei confronti della Libia, sull’Africa aveva in realtà altri piani. Per il Raiss fu un brusco risveglio.  

Gli affari dell’Occidente con la Libia e le fregature date a Gheddafi.  
“Fare affari con la Libia era legale anche per società americane dal 2004, dopo che Gheddafi aveva rinunciato al terrorismo e alle sue aspirazioni nucleari e Bush aveva cancellato le sanzioni”. Banche, petrolifere e ditte di costruzioni ci si erano buttate a capofitto. 
Così il New York Times in un'inchiesta del 2011 . Che raccontava come la creazione dell’Autorità Libica per gli Investimenti avesse gasato le banche occidentali. Attratte dall’opportunità di mettere le mani sui 40 miliardi di $ del Fondo Sovrano. Cresciuti poi rapidamente, tanto da diventare 64 miliardi lo scorso settembre, secondo recenti documenti (Siala parla di di 70 miliardi$). Blair sorrideva in foto col Raiss, Saif al-Islam Gheddafi, il secondo e il più british dei figli, PhD all’LSE, era di casa a Londra, amico di lord Mandelson e di un Rothschild (non è un caso forse che a rilanciare Saif sia stato qualche mese fa Foreign Affairs,  la rivista del CFR, vedi Underblog). 
La britannica Hsbc era diventata il partner bancario occidentale maggiore del regime di Gheddafi, dal quale aveva ricevuto 1,4 miliardi $. Goldman Sachs a settembre 2011 aveva ancora $45 milioni, JPMorgan Chase $173milioni. Ma anche la francese Société Génerale e altre banche europee avevano aiutato il regime a gestire i proventi del petrolio. Al 22° piano del grattacielo più alto di Tripoli, sede dell’Autorità, c’era un gran via vai. 
Ma questi investimenti ai libici hanno fruttato ben poco. Ritorni bassissimi o nulli, mentre le commissioni sono rimaste alte, documenta l’inchiesta del NYTcitata. 
Per non dire della fregatura subita quando - vedi il Wall Street Journal online - l’Autorità per gli Investimenti affidò a Goldman Sachs 1,3 miliardi $ del fondo sovrano. La banca li investì in un paniere di valute e azioni di sei società: tre banche, l’americana Citigroup, l’italiana Unicredit e la spagnola Santander, più la società tedesca Allianz, l’Eléctricité de France e l’italiana Eni. Era la prima metà del 2008, con la crisi i capitali freschi facevano gola assai. Un anno dopo, il crack Lehman ancora fresco, Goldman Sachs comunicò ai libici che, causa crisi, l’investimento era andato male, e il fondo libico si era ridotto a 25 milioni: aveva perso il 98% del suo valore
Furiosi, forse con qualche ragione, i libici piombano a Londra, finiscono per non accettare le proposte di Goldman, minacciano azioni legali internazionali che certo non avrebbero giovato alla reputazione della banca d’affari. In questo caso come per le perdite subite dagli investimenti fatti da varie altre società - l’americana Permal, l’olandese Palladyne, la francese Paribas, la britannica HSBC, il Credit Suisse, ecc. (vedi dettagli qui). 
“Finché le sanzioni e l’intervento militare non hanno risolto il problema, congelando i fondi. 
Hsbc e altre banche di investimento sono già sbarcate a Bengasi per creare una nuova Central Bank of Libya che permetterà loro di gestire i fondi libici quando saranno scongelati e i nuovi ricavi dell’export petrolifero, già ripreso”, raccontava Siala.    
E poi....
Come si sa le cose in Libia si sono poi complicate. Fino ad arrivare ai due governi con rispettivi sponsor e agli accordi odierni, che dovranno essere approvati dalle rispettive assemblee.  Risolutivi? Vedremo.  
Quel che è andato avanti è il piano di Africom – il comando centrale americano per l’Africa creato da George W. Bush. Progetti che coinvolgono anche UK e soprattutto la Francia e vanno ben oltre la Libia per realizzare i quali tuttavia il regime del Raiss era un ostacolo. Vedi qui Underblog  feb 2015 sulla scia del Guardian, vedi qui dove si dice che forze  Usa stazionano già in 35 paesi, e qui un post ben più analitico di William Engdahl, giornalista americano controcorrente specialista in questioni geopolitiche.  

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