sabato 6 febbraio 2016

2016: un’osservazione dall’alto della tempesta. - Federico Dezzani

Il 2016 si preannuncia un anno movimentato: la tensione internazionale, in progressivo aumento sin dal 2011, difficilmente decrescerà ma, al contrario, toccherà lo zenit in coincidenza con l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca che, imprimendo una svolta militare alla situazione mediorientale, incendierà probabilmente le polveri. L’elaborazione di qualche carta è utile a comprendere la strategia di fondo delle oligarchie euro-atlantiche che, abbandonati i sogni di egemonia globale di inizio millennio, hanno ripiegato sino all’attuale ipotesi di un conflitto militare per impedire che il vuoto lasciato dietro di sé sia colmato da Russia e Cina.

Il piano A
Per comprendere la realtà, afferrarne le dinamiche sottostanti ed ipotizzarne gli sviluppi, bisogna sempre partire dagli obbiettivi di fondo di chi occupa la stanza dei bottoni: solo così si può evitare di interpretare i fatti secondo i propri parametri e scadere in analisi autoreferenziali. La corretta comprensione degli attuali avvenimenti necessita quindi dell’interrogativo: qual è l‘obbiettivo strategico delle oligarchie euro-atlantiche? La risposta, può sembrare sproposita, ma non lo è, è il dominio globale, una meta quasi raggiunta nel periodo che intercorre tra il collasso dell’URSS (1991) e la bancarotta di Lehman Brothers (2008).
L’ambiziosa piano di controllare l’intero globo terracqueo si basava su tre cardini: l’inglobamento delle nazioni europee nell’Unione Europea che, in prospettiva, avrebbe dovuto evolversi negli Stati Uniti d’Europa, l’annichilimento della Russia e la sua successiva cooptazione come potenza di secondo rango nella UE/NATO, l’asservimento della Cina al sistema finanziario anglofono ed il suo accerchiamento per terra e per mare, così da neutralizzare le sue capacità di proiettarsi all’estero.
Nel dicembre del 1991 l’Unione Sovietica scompare ufficialmente dalla storia; nel febbraio del 1992 è firmato iltrattato di Maastrich che pone le basi della moneta unica e del futuro allargamento dell’Unione Europea; sempre nel 1992, il 14esimo congresso del Partito Comunista Cinese abbraccia ufficialmente “l’economica socialista di mercato”, facendo di Pechino la “fabbrica del mondo”, che produce le merci consumate dagli Stati Uniti e ne finanzia anche l’acquisto, comprando porzioni crescenti del debito pubblico americano.

Nel 1995 c’è il primo allargamento dell’Unione Europea (Austria, Finlandia e Svezia) che spinge i propri confini a ridosso della Russia. Mosca è allora in pessima acque: nel 1998, il cocktail micidiale di privatizzazione selvagge ed ingerenze del FMI, portano il Paese alla bancarotta: nel frattempo, con la prima (1994-1996) e la seconda (1999-2009) guerra cecena, angloamericani e sauditi cercano di espellere i russi dal Caucaso, la storica “porta d’ingresso” da cui Mosca entra nel Medio Oriente. Si procede altresì allo smembramento della Jugoslavia (guerre balcaniche del 1991-1999), così da eliminare uno storico bastione filo-russo nel sud-est europeo. Lo scopo ultimo non è tanto lo smembramento della Russia, entità pluri-nazionale per definizione, quanto la sua riduzione a potenza di secondo ordine, da fagocitare nella UE/NATO. Tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni del 2000, l’ingresso di Mosca nel blocco atlantico è uno scenario concreto, tanto che Silvio Berlusconi insiste nel 2003 per il suo ingresso nell’Unione Europea1 e le ultime voci di una possibile partecipazione all’Alleanza Nord Atlantica si spengono solo nel 20102.

Nel dicembre del 2001 la Cina, con il suo enorme bacino di lavoratori a basso costo, è ufficialmente ammessa al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio: così facendo le oligarchie anglofone consentono a Pechino di diventare la “fabbrica del mondo”, garantendo il rapido arricchimento degli industriali cinesi e lauti profitti per le imprese che trasferiscono lì i loro siti produttivi. In cambio, però, la City e Wall Street pretendono “l’apertura del sistema finanziario” dell’Impero d Centro, ossia la possibilità di estendere anche alla Repubblica Popolare cinese, come nel resto dell’Occidente, il controllo del vitale sistema bancario, strumento principe sin dall’Ottocento con cui le oligarchie anglofone tirano i fili di nazioni e popoli. “U.S., EU, Japan press China on financial services at WTO”3 si legge ancora nel 2011 sull’agenzia Reuters, ricordando come la contropartita per il libero acceso ai ricchi mercati occidentali, fosse la possibilità da parte della finanza anglofona di installarsi stabilmente in Cina.
Dulcis in fundo, sempre negli ultimi mesi del 2001, scatta l’operazione Enduring Freedom, utile agli angloamericani ad installarsi nello strategica regione dell’Afghanistan, già teatro del Grande Gioco tra impero britannico ed impero russo durante il XIX secolo: in verità Kabul è solo la prima tappa di un più ampio disegno egemonico, perché, come viene riferito ad uno sconcertato generale Wesley Clarck, appena dopo l’Undici settembre, l’intenzione è di “take out seven countries in five years, starting with Iraq, and then Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan and, finishing off, Iran4. Per concludere l’amministrazione di George W. Bush si adopera per attrarre l’India in orbita statunitense, elevandola ad “alleato strategico”, ovviamente in chiave anti-cinese5.
A questo punto abbiamo informazioni a sufficienza per disegnare la prima carta, quella del “piano A”.
Mondo2001
Come è ben visibile, il piano “A”, se completamente realizzato, avrebbe garantito alle oligarchie anglofone l’egemonia globale, assicurando loro una fetta del PIL mondiale superiore al 50%, il pieno possesso delle riserve petrolifere mediorientali, una proiezione sull’intero continente euro-asiatico, un’influenza decisiva sulla Cina attraverso il sistema bancario, l’egemonia del Mar Mediterraneo (ridotto a “lago della NATO”) e degli oceani.
Il piano “A” va in fumo per i seguenti motivi:
  • l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq si trasforma rapidamente in un pantano, che impedisce gli strategici cambi di regime manu militari in Iran e Siria. Inoltre l’eliminazione di Saddam Hussein, dittatore sunnita di un paese a maggioranza sciita, unita al parallelo mancato intervento in Iran, aumenta esponenzialmente l’influenza regionale di Teheran;
  • i rapporti tra le oligarchie anglofone e Vladimir Putin si raffreddano progressivamente ed entrano in crisi già con la guerra in Ossezia (agosto 2008), rimandando sine die l’ingresso della Russia nella UE/NATO;
  • la Cina si guarda bene dall’aprire il proprio sistema finanziario alla City ed a Wall Street;
  • il capitalismo anglosassone imbocca la via del tramonto con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, palesando che gli angloamericani non hanno più “i dané” per reggere l’impero.
Il primo piano per il dominio globale è quindi archiviato e si passa al successivo.

Il piano B

Il piano “B” consiste nella riproposizione del precedente con alcuni strutturali modifiche: la Russia di Vladimir Putin non è più una potenza di secondo rango, ancillare agli interessi euro-atlantici, ed i cambi di regime in Medio Oriente, archiviata l’epoca delle imponenti campagne militari di George W. Bush, sono condotti prima con le “Primavere Arabe”, classiche rivoluzioni colorate in salsa mediorientale, e poi con le milizie dello Stato Islamico, un’entità forgiata da angloamericani ed israeliani con l’ausilio delle autocrazie sunnite.
Sul Vecchio Continente avanza spedita l’operazione per inglobare le nazioni europee in un soggetto atlantico: l’eurozona, introdotta calando un regime a cambi fissi su un’area valutaria non ottimale, accumula sufficienti tensioni da esplodere al primo choc esterno (il fallimento di Lehman Brothers) ed avviare così la preventivata eurocrisi. Gli assalti speculativi che partono dalle piazze finanziarie anglofone non mirano, ovviamente, alla frantumazione della moneta unica, bensì a creare uno stato di crisi permanente ed isteria collettiva, propedeutici alla fondazione degli Stati Uniti d’Europa, ottenibili solo con uno svuotamento della sovranità delle singole nazioni nei momenti di crisi più acuta. Lo zenit dell’eurocrisi è toccato nel biennio 2011-2012, dove emerge però con chiarezza che né la Francia, né soprattutto la Germania, sono disponibili all’atto pratico a cedere poteri ad un organismo sovranazionale: l’euro imbocca una lunga e dolorosissima strada verso la dissoluzione.
In concomitanza, sfruttando il momento di grande debolezza di alcuni Stati rivieraschi come l’Italia, si procede con i cambi di regime in Medio Oriente attraverso la “primavera araba”, perseguendo due obbiettivi: l’eliminazione dei governi ostili così da trasformare il Mediterraneo nel “lago della NATO” e la balcanizzazione delle regione così da renderne più agevole il controllo. La “Primavera Araba” colpisce in Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Iran e Yemen. In alcuni Paesi fallisce (Algeria ed Iran), in altri riesce (Tunisia, Yemen ed Egitto), in altre ha solo un mezzo successo, tanto da necessitare dell’intervento della NATO per concludere il lavoro: è il caso della Libia e, soprattutto della Siria. Qui, in particolare, Russia e Cina non ripetono l’errore commesso con la Libia (l’astensione sulla risoluzione ONU 1973) e decidono di difendere a spada tratta il Paese: per Mosca è in ballo anche la base navale di Laodicea e la capacità di proiettarsi nel Mediterraneo.
L’insurrezione armata contro Damasco segna quindi il passo, tanto che nell’agosto del 2013 è organizzato l’attentato falsa bandiera alla periferia della capitale, con l’impiego di armi chimiche (la celebre “linea rossa” da non varcare) utile a giustificare l’intervento militare occidentale: Russia ed Iran affermano che reagiranno a qualsiasi aggressione contro la Siria, con il concreto rischio di un’escalation militare globale. Il premio Nobel per la pace, Barack Obama, desiste dall’intervento, scontentando quegli importanti settori dell’establishment a stelle e strisce pronti alla guerra anche con la Russia: accetta invece il compromesso per lo smantellamento delle armi chimiche. L’umiliazione è cocente e si somma ad una grave impasse strategica, data dal fatto che ci sono buone probabilità che Bashar Assad sopravviva ai tentativi di rovesciarlo con l’esercito ribelle (FSA) e la galassia terroristica sunnita (Al Qaida, Al Nusra, etc.). Come reagisce l’establishment euro-atlantico?
In due modi: con il golpe filo-occidentale in Ucraina (febbraio 2014) ed il parallelo scatenamento dell’ISIS (inverno 2013 e primavera 2014).
Con il Califfato si vuole portare a compimento la destabilizzazione della Siria e la balcanizzazione dell’Iraq, dove i governi democratici rispecchiano inevitabilmente la maggioranza sciita del Paese, avvicinando così Baghdad all’Iran, anziché alle autocrazie sunnite filo-occidentali. La diffusione dello Stato Islamico, che dietro di sé lascia una scia di morte e distruzione, ottempera anche ad un altro obbiettivo, collegato alla situazione europea di cui sopra: ossia l’attivazione di quelle ondate migratorie, “epocali” per definizione, utili a generare l’ennesima crisi da cui dovrebbe scaturire la domanda di “più Europa”, ovvero la disponibilità a cedere quote crescenti di sovranità nazionali per fronteggiare un’altra emergenza storica.
Per non elargire verità apodittiche, riportiamo a questo proposito il discorso di Sergio Mattarella del giugno 2015, in occasione del The European House – Ambrosetti di Cernobbio6:
La logica emergenziale sta rendendo l’Europa più debole, i suoi cittadini più insicuri e produce diffidenze tra gli Stati membri. Occorre, al contrario, una visione adeguata di lungo periodo ; e consapevolezza del destino comune. Va sconfitta la paura e il senso della comunanza di interessi deve tornare ad essere la base della strategia continentale. Le crisi non devono paralizzarci. L’Europa, come sottolineava Jean Monnet, si è fatta nelle crisi ed è attraverso le crisi che statisti illuminati hanno saputo intravedere, e perseguire, obiettivi di crescita. L’Europa si trova nel pieno di un passaggio storico simile a quelli indicati da Monnet(…) Lo avvertiamo di fronte alle tragedie, spaventose, di profughi e di migranti, purtroppo sempre più frequenti. (…) Questa stessa condizione di asimmetria, di sproporzione, di inadeguatezza degli Stati nazionali, contrassegna anche il loro rapporto con il fenomeno migratorio. Anche per queste ragioni, malgrado lo spirito critico con cui si guarda ai limiti dell’Europa di oggi, mi sento, personalmente, più europeista che mai.
Parallelamente Barack Obama porta avanti il “pivot to Asia”, lo spostamento del baricentro della politica americana verso l’Oceano Pacifico, che culmina nel 2015 con la firma dell’accordo commerciale Trans-Pacific Partnership, in chiara funzione anti-cinese.
L’opprimente accerchiamento angloamericano attorno alla Russia ed alla Cina le induce, prima, a divincolarsi dall’abbraccio mortale della finanza anglofona con la costituzione nel 2014 della Nuova Banca di Sviluppo (che ingloba un Paese strategico come l’India) e, poi, ad incrementare la collaborazione in ambito economico e militare, attraverso la Shanghai Cooperation Organisation (SCO).
Alla SCO intende aderire anche l‘Iran che, potenza regionale in ascesa, lavora gomito a gomito con Mosca sul dossier iracheno e siriano: è proprio l’attivismo internazionale di Teheran che induce l’Arabia Saudita ad avventurarsi nel marzo del 2015 nelle sabbie mobili yemenite, con l’obbiettivo di reprimere l’insurrezione sciita filo-iraniana.
A questo punto, abbiamo dati a sufficienze per stilare la carta del piano “B”.
mondo2011
In piano “B” abortisce per i seguenti motivi:
  • l’eurocrisi, anziché fornire l’assist decisivo per la federazione dell’eurozona, crea un corrosivo rapporto centro-periferia, creditori-debitori che divora progressivamente l’Unione Europea: l’imposizione dell’austerità per riequilibrare il regime a cambi fissi dell’eurozona peggiora ovunque le finanze pubbliche, produce tassi allarmanti di disoccupazione ed annichilisce il tessuto economico. Non solo,l’emergenza migratoria, anziché produrre “più Europa” (con la distribuzione pro-quota dei rifugiati, stabilita da Bruxelles in deroga alla sovranità dei singolo membri) crea ulteriori linee di fratture: i paesi dell’Est europeo (il gruppo di Visegrad) escludono a priori l’accoglienza di migliaia di rifugiati;
  • il congiunto intervento russo-iraniano frena il processo di destabilizzazione di Siria e Iraq, dove l’ISIS è messo in difficoltà strategica dall’avvio dei raid russi nell’autunno 2015;
  • il capitalismo finanziario anglosassone dà segnali di cedimento strutturali e le risorse per proiettarsi su cinque continenti cominciano a scarseggiare. Nonostante il saggio di risconto della FED sia a zero dal 2008 e Wall Street in bolla, il tasso di partecipazione alla forza lavoro è al minimo degli ultimi 30 anni, il debito pubblico statunitense ha ormai raggiunto il 100% del PIL e le infrastrutture del Paese cadono letteralmente a pezzi7. Se garantire la pax americana diviene impossibile, è prioritario per le oligarchie anglofone che nessuno colmi il vuoto di potere, creando nuovi assetti che inevitabilmente relegherebbero ai margini Londra e Washington.
Si passa così al piano “C”, l’extrema ratio dinnanzi alla dissoluzione dell’Unione Europea, testa di ponte angloamericana sul Vecchio Continente, ed al crescente attivismo russo-iraniano in Medio Oriente.

Il piano C

Il piano “C” è, a sua volta, una diretta conseguenza del fallimento del precedente e contempla, per la prima volta, la possibilità di un conflitto regione/internazionale con le due maggiori potenze (Russia e Cina) che solo quindici anni prima le oligarchie anglofone speravano di inglobare nella loro sfera di influenza, mentre oggi sono in diretta concorrenza per l’egemonia globale.
Il piano si basa sul presupposto che, come il collasso dell’URSS ha comportato l’avanzata della UE/NATO in Europa e l’indietreggiamento della Russia, così il collasso della UE/NATO implicherà il prepotente ritorno di Mosca sulla scena europea. Non solo: la congiunta azione russo-iraniana, debellando l’ISIS, mette in crisi l’intera strategia di destabilizzazione del Medio Oriente condotta da angloamericani ed israeliani. Bisogna tornare all’Ottocento per incontrare una Russia così attiva sullo scacchiere mediorientale e già allora, proprio come oggi,l’impero britannico sosteneva i turchi per arginare l’esuberanza di Mosca (vedi la guerra di Crimea del 1853-1856).
Partiamo dall’Europa dove sei anni di eurocrisi hanno irreparabilmente compresso le finanze pubbliche a la salute economica dei membri dell’eurozona (eccezion fatta per il cuore tedesco) e sfilacciato il tessuto politico.
Sull’Italia ci siamo già soffermati di recente, così come abbiamo già analizzato lo stadio comatoso dell’economia francese: non c’è alcun dubbio che l’opprimente cappa di terrore in cui vive la Francia (in stato d’emergenza dagli attentati del 13/11), costantemente alimentata con nuovi attentati (lo squilibrato ucciso davanti un commissario parigino il 7 gennaio e l’evacuazione il 10 gennaio di Disneyland Paris sulle voci di un attacco terroristico), rientra nella classica strategia della tensione. L’emergenza terrorismo è infatti funzionale all’offuscamento di un’altra crisi, quella niente affatto artificiale, ossia l’allarmante tasso di disoccupazione superiore al 10% e lo scricchiolare dei conti pubblici: sono la montante insofferenza dell’elettorato per le condizioni economiche, i crescenti consensi raccolti dal Front National, la popolarità ai minimi storici del presidente François Hollande e del premier Manuel Valls, un debito ormai vicino al 100% del PIL ed un deficit cronicamente al di fuori dei parametri di Bruxelles, la vera causa dell’attivismo “dell’ISIS” nell’Esagono.
La situazione non va meglio in Spagna dove gli elettori, piegati da un cronico tasso di disoccupazione superiore al 20%, hanno frantumato lo storico bipolarismo iberico, rendendo problematica la formazione di un esecutivo che succeda a Mariano Rajoy, ligio esecutore delle ricette della Troika. Per non parlare della Grecia che, tenuta nell’eurozona per il rotto della cuffia durante gli estenuanti negoziati dell’estate 2015, rischia ora di essere espulsa dall’area di Schenghen, facendo sorgere seri dubbi sul senso della sua permanenza nella moneta unica.
Se la situazione è critica a livello di singole nazioni, necessariamente non va meglio a livello aggregato: a distanza di quasi un anno dall’avvio dell’allentamento quantitativo, la BCE è costretta a constatare che l’eurozona flirta di nuovo con la deflazione. Per un’area monetaria come l’euro, appesantita da una mole insostenibile di debiti ed alla prese con l’aggiustamento delle bilance commerciali attraverso il meccanismo della svalutazione interna, l’andamento negativo dei prezzi significa morte certa.
La precarietà delle finanze pubbliche e del sistema bancario europeo è ormai tale da rendere sempre più concreto (ed imminente) lo scenario di un’implosione dell’eurozona, privata peraltro della guida politica di Angela Merkel che, fortemente indebolita dalla politica delle porte aperte all’immigrazione, difficilmente avrà ancora la forza politica per mantenere integra la moneta unica come nel caso della scongiurata “Grexit”.
La frantumazione dell’Unione Europea è per l’establishment euro-atlantico una debacle strategica: rompendo il contenitore in cui sono racchiuse le nazioni europee, costrette a subire un’agenda che, dalle sanzioni alla Russia alla politica energetica, rispecchia la volontà atlantica, si permette a queste di tornare ad una politica estera secondo i propri interessi nazionali, ampliando così esponenzialmente gli spazi di manovra di Mosca. Tipico a questo proposito è il caso dell’Italia: dopo aver subito la cancellazione del South Stream su pressione angloamericana e la destabilizzazione della Libia ad opera della NATO, difficilmente Roma continuerà ad appoggiare la farsa della “guerra all’ISIS” condotta dagli “alleati” angloamericani e francesi una volta liberatasi dalla gabbia dell’euro. Più probabile, invece, sciolti i laccioli dell’Unione Europea, è una convergenza dell’Italia verso Mosca con cui, dalla Siria alla Libia, passando per l’Egitto, condivide l’interesse a combattere la destabilizzazione della regione condotta dal sedicente Stato Islamico.
Veniamo così al capitolo mediorientale, dove l’intervento militare russo dell’autunno 2015 si è rivelato risolutivo: nell’arco di tre mesi l’esercito regolare siriano ha riconquistato le frontiere con la Turchia e la Giordania, da dove sono immessi i terroristi al soldo della NATO, e si prepara per la decisiva battaglia di Aleppo,che deciderà le sorti della guerra. Lo stesso discorso vale per l’Iraq, dove la costituzione a Baghdad di un centro di coordinamento con Iran, Siria e Russia, ha consentito la riconquista pressoché totale di Ramadi, città strategica lungo il fiume Eufrate e cuore pulsante del Califfato.
Il punto di svolta nella lotta contro l’ISIS è coinciso con l’avvio dei bombardamenti russi sulle vie del contrabbando di greggio, tra i giacimenti controllati dai fondamentalisti e la Turchia: privato dei proventi del petrolio, commerciato con il placet angloamericano, lo Stato Islamico si è accartocciato su sé stesso.
Ne sono seguiti l’abbattimento del SU-24 russo per mano turca, un’evidente rappresaglia contro Mosca, e la corsa degli occidentali verso l’Iraq, sull’onda dell’attentato di Parigi del 13/11, così da ritagliarsi una regione (il Kurdistan iracheno) da cui continuare l’opera di destabilizzazione: sono di nuovo 3.700 i soldati americani in Iraq (formalmente sgombrato il 31 dicembre del 2011), affiancati da italiani, tedeschi, inglesi e francesi. Spicca in particolare l’attivismo della Germania di Angela Merkel, dichiaratasi disponibile, sempre dopo gli attentati del 13/11, ad incrementare i propri sforzi bellici anche in Mali ed in Libia8è in queste regioni infatti che i militanti dell’ISIS, in fuga dalle bombe russe, trovano un sicuro riparo, salpando indisturbati dalle coste turche per attraccare ai porti libici di Sirte e Derna.
Chi è in evidente difficoltà strategica è Ankara che, dopo aver scommesso tutto sulla caduta di Bashar Assad e sullo smembramento della Siria e dell’Iraq, vede ora sfumare i suoi obbiettivi a causa dell’ingerenza russa: l’evidente frustrazione della Turchia, oltre che dall’abbattimento del Su-24, è testimoniata anche dal tentativo nel dicembre 2015 di occupare la regione attorno a MosulSminuita dall’attivismo russo-iraniano e sgomenta per il ribollio della minoranza curda, Ankara è una mina vagante, capace di azioni inconsulte e potenzialmente esplosive: non c’è infatti alcun dubbio che un eventuale conflitto tra Mosca ed Ankara implicherebbe l’avvio delle ostilità con gli angloamericani, preoccupati che i russi, travolta la Turchia, dilaghino nel Mediterraneo. Timori non dissimili da quelli di Ankara sono nutrititi anche in Israele, dove, dall’iniziale speranza del 2011 di una totale balcanizzazione della regione, si è passati alla dura constatazione della sempre maggiore influenza dell’Iran, coperto dalla macchina bellica russa: cade in queste settimane la consegna a Teheran dei sistemi missilistici S-3009, capaci di complicare non poco i bombardamenti aerei sul suolo iraniano.
Non se la passa meglio l’Arabia Saudita che, avendo un’economia molto meno diversificata di quella russa (che può contare anche sui pilastri degli armamenti e dei cereali), è la prima vittima del petrolio a 30$ al barile: per far fronte ai crescenti deficit di bilancio (98 $mld nel solo 201510) si è ventilata per la prima volta la possibilità di vendere una quota dell’Aramco, la compagnia petrolifera di proprietà della famiglia Saud. La mossa ha il sapore della disperazione ed equivale all’impresa costretta ad ipotecare i beni strumentali pur di continuare l’attività. Un pozzo senza fondo, come avevamo previsto, si è rivelata la campagna in Yemen, che lungi dal raggiungere l’obbiettivo di reprimere l’insurrezione filo-iraniana, ha solo esposto Riad a cocenti scacchi militari, con l’aggravante di mettere in ebollizione la cospicua minoranza sciita (concentrata nelle regioni petrolifere). Come nel caso della Turchia, lasceranno angloamericani ed israeliani affondare l’alleato con cui hanno condiviso tante avventure, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan all’Undici Settembre? È molto difficile, perché ciò comporterebbe l’ulteriore rafforzarsi dell’Iran e della Russia nel Golfo Persico.
Nell’Estremo Oriente la Cina è vittima invece della stessa sindrome da “soffocamento navale” di cui soffrì già la Germania guglielmina durante la prima guerra mondiale e l’Italia fascista durante la seconda: Washington e gli alleati regionali cercano di depotenziare la crescente flotta militare e commerciale di Pechino attraverso una serie di basi marittime attorno alle coste cinesi, così da impedirne l’accesso agli stretti (specialmente a quello di Malacca, dove Singapore ha aderito al TTP) ed all’oceano aperto. La tensione con la marina statunitense si concentra in particolar modo nel Mar Meridionale Cinese, attorno alle isole Paracel e Spratly. Per ovviare alle restrizioni di un possibile blocco navale in caso di guerra, Pechino dà molta enfasi allo sviluppo della nuova via della seta terrestre che, connettendola alla Russia, dovrebbe sopperire ai problemi di approvvigionamento di combustibili e minerali.
Concludendo, lo scenario più probabile è quello di un’escalation militare che, partendo dal Medio Oriente, si diffonde a livello internazionale: devono essere quindi monitorare con attenzione la Turchia e l’Arabia Saudita, entrambe in situazioni critiche, e le elezioni americane di novembre, dove il nuovo presidente, eletto probabilmente con l’apporto decisivo delle lobby israeliane e saudite, sosterrà, a differenza di Barack Obama, un intervento diretto sullo scacchiere mediorientale. L’Unione Europea sarà a quel punto in un avanzato stato di decomposizione ed i singoli interessi nazionali (vedi il recente accordo russo-tedesco per il potenziamento del North Stream) preverranno quasi certamente sugli obblighi verso la NATO. Ponderare attentamente le mosse, non sarà un’opzione: specialmente per un Paese come l’Italia, al centro del decisivo Mar Mediterraneo.
Anno2016 


Nessun commento:

Posta un commento