“É stato surreale. Mi sentivo un amico del Papa e poi, parlando, mi dice che non si fida più di me perché ha visto le accuse di appropriazione indebita dei magistrati vaticani. Ma io non ho commesso crimini né ricevuto comunicazioni giudiziarie”. Così il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione dei Santi, racconta il burrascoso colloquio con papa Francesco, che l’ha dimissionato e sporporato. E pare più un politico italiano che un prelato vaticano. Noi non sappiamo se le accuse siano fondate o meno: si parla di 100 mila euro dirottati dall’obolo di San Pietro verso una coop di suo fratello legata alla Caritas di Ozieri (Sassari). Becciu sostiene che erano opere di carità e non si pose il problema del suo conflitto di interessi. Ma il Papa non ha atteso neppure che venisse indagato, perchè un conto è la questione penale, che dipende dalla sussistenza dei reati, e un altro la questione morale, che dipende dalla correttezza dei comportamenti: si possono commettere reati senza essere immorali e si può essere immorali senza commettere reati. Francesco non è un giustizialista: semplicemente è nato lontano dall’Italia. E ha cacciato Becciu perchè “non si fida più”.
I nostri politici continuano a fingere di non capirlo: infatti non si dimettono nè dimissionano nessuno neppure per gli scandali peggiori, con la scusa che “non c’è l’avviso di garanzia”, o “c’è solo un avviso di garanzia”, o “c’è solo una condanna di primo grado”, o “aspettiamo la Cassazione”. Oppure esagerano dall’altra parte, come il M5S che esclude la Appendino dal futuro vertice per la condanna a 6 mesi in primo grado per aver omesso nel bilancio comunale un vecchio debito oggetto di transazione: un presunto errore che non farebbe di lei un’immorale neppure se confermato in Cassazione. Il guaio è che qui non si guardano mai i fatti accertati per valutare – a prescindere dall’esito giudiziario – se siano compatibili o meno con “disciplina e onore” e col rapporto fiduciario che deve regnare tra eletto ed elettori, tra sottoposto e capo. Venti mesi fa ci volle un premier alieno come Conte per spiegare a Salvini che il suo sottosegretario Siri, per il suo patteggiamento per bancarotta e sottrazione di beni al fisco nonché per i suoi rapporti con gente in odor di mafia (da cui per giunta era accusato di aver accettato promesse di tangenti), doveva lasciare. E, siccome Siri resisteva, gli revocò la nomina per il “venir meno del rapporto fiduciario”. Attilio Fontana, con tutto quel che è emerso su camici in famiglia, conti svizzeri e milioni all’estero, deve ringraziare di essere il presidente della Lombardia e non un ministro del Papa. Altrimenti sarebbe già uscito dal Vaticano a calci, in mutande verdi, strisciando.
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