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sabato 3 luglio 2021

Anche sul fisco ad esultare sono la Lega e Forza Italia. Nel documento finale delle Camere sparisce la patrimoniale (citata nelle bozze). Resta la mini flat tax e spunta l’abolizione dell’Irap cara a Confindustria. - Chiara Brusini

 

Il tema al centro del dibattito globale non è sfiorato dal testo approvato dalla maggioranza (astenuta solo Leu) che dovrà indirizzare il governo Draghi sulla strada della riforma. Il voto finale ha fatto piazza pulita anche dell'ennesimo tentativo di riformare il catasto, rivalutando le case di pregio. In compenso si auspica che l'aliquota sui redditi da capitale venga ridotta dall'attuale 26 al 23%. La Lega esulta insieme a Forza Italia: per Sestino Giacomoni è il segno che il partito di Berlusconi "ha vinto la battaglia culturale iniziata nel 1994".

Tra un’inevitabile citazione di Federico Caffè e un motto di Luigi Einaudi, il documento delle Commissioni Finanze di Camera e Senato propedeutico alla riforma del fisco ignora il proverbiale elefante nella stanza. Cioè la proposta del segretario Pd Enrico Letta di aumentare la tassa di successione sui patrimoni oltre i 5 milioni di euro. La versione finale, approvata due giorni fa con l’astensione della sola Leu (contraria invece Fratelli d’Italia) e frutto di sei mesi di audizioni degli addetti ai lavori, mette nero su bianco che al fisco italiano non serve più progressività: l’obiettivo principale deve essere “quello di favorire un incremento strutturale del tasso di crescita“. La redistribuzione? Meglio pensarci in una fase successiva, quella in cui lo Stato distribuisce benefit e agevolazioni. Così la parola “patrimoniale” è stata eliminata tout court dal testo. In compenso si auspica che l’aliquota sui redditi da capitale venga ridotta dall’attuale 26% a un livello “prossimo all’aliquota applicata al primo scaglione Irpef”, cioè il 23%. E viene pure promossa, al netto della richiesta di alcuni correttivi, la flat tax per gli autonomi con ricavi fino a 65mila euro cara alla Lega. Che esulta insieme a Forza Italia: per Sestino Giacomoni “con il testo approvato di fatto da tutta la maggioranza di salvezza nazionale” il partito di Berlusconi “ha vinto la battaglia culturale iniziata nel 1994. Nel nostro Paese non ci saranno patrimoniali o altre tasse di scopo, perché questo è il momento del ‘meno tasse per tutti'”.

E dire che le bozze la tassa sulle ricchezze la citavano, pur lasciando il paragrafo in bianco e segnalando che era un “nodo politico da sciogliere“. Le forze di maggioranza – ognuna delle quali ora descrive l’atto parlamentare come un proprio evidente successo – l’hanno sciolto nel senso di ignorarlo. Così il tema al centro del dibattito globale su disuguaglianze e redistribuzione post Covid non è nemmeno sfiorato dal testo che dovrà indirizzare il governo Draghi sulla strada dell’annunciata riforma del fisco, attesa sotto forma di ddl delega entro fine luglio. La votazione finale ha fatto piazza pulita pure dell’ennesimo tentativo – se ne parla dal 2014 – di procedere con la riforma del catasto, che avrebbe il probabile effetto di rivalutare le case di pregio che oggi in molti casi pagano meno del dovuto: non è passato l’emendamento dei presidenti delle Commissioni Luigi Marattin (Iv) e Luciano D’Alfonso (Pd) che esplicitava “l’opportunità di inserire nella prossima legge delega un riordino complessivo dei valori catastali, valorizzando il più possibile ruolo e funzioni dei Comuni”. Non a caso si dice “molto contento” Matteo Salvini, che festeggia il risultato di aver mandato “in archivio la tassa patrimoniale di successione o l’aumento dell’Imu che qualcuno aveva proposto”. Oltre a rivendicare che il documento prefigura labolizione dell’Irap” caldeggiata da Confindustria (il gettito andrebbe “riassorbito nei tributi attualmente esistenti), “la riduzione dell’Irpef soprattutto delle aliquote per il ceto medio, la difesa della Flat tax per le partite Iva fino a 65mila euro” e pure “l’inversione dell’onere della prova, che è molto importante per le imprese. Non è il cittadino o l’imprenditore che deve dimostrare all’Agenzia delle entrate la propria innocenza”.

Letta dal canto suo ostenta soddisfazione perché rispetto all’imposta sui redditi il primo obiettivo indicato è l’abbassamento dell’aliquota media effettiva per quelli compresi tra 28.000 e 55.000 euro (che oggi pagano il 38%) e per gli imprenditori si ipotizza la reintroduzione del regime opzionale Iri, nato nel 2017 e abrogato due anni dopo. “Meno tasse per il ceto medio, per chi lavora e per chi fa impresa”, sintetizza il segretario dem, che però oltre alla tassa di successione vede bocciata (è indicata come “opzione meno preferita”) pure l‘aliquota personalizzata alla tedesca che era l’opzione preferita dai dem in favore di un “intervento semplificatore sul combinato disposto di scaglioni, aliquote e detrazioni per tipologia di reddito, incluso l’assorbimento degli interventi del 2014 e del 2020 riguardanti il lavoro dipendente”, vale a dire il bonus 80 euro di Renzi portato a 100 euro lo scorso anno con effetti deleteri sulle aliquote marginali effettive.

La flat tax che il leader Pd dà per morta (“non passa”) esce poi viva e vegeta dalla mediazione tra i partiti: vero è che le Commissioni non fanno cenno all’estensione del regime forfettario fino a 100mila euro di ricavi, prevista a suo tempo dal governo gialloverde, ma mettono nero su bianco che il regime “agevolato e semplificato” deve restare in vigore. Si chiede solo una modifica che riduca l’incentivo a nascondere al fisco i redditi superiori alla soglia massima, consentendo di godere di una aliquota piatta lievemente meno conveniente (20%) nei due anni successivi al superamento del tetto di almeno il 10%. Evitando così il salto dalla tassa piatta alla normale aliquota Irpef. Più dubbia, vista la dimensione del tax gap degli autonomi, la successiva raccomandazione “di accordare in favore del contribuente quale ulteriore misura di accompagnamento la limitazione dei poteri di accertamento dell’Agenzia delle Entrate per il periodo di vigenza dell’opzione”.

Tra auspici di sfoltimento dei prelievi minori e di rimodulazione della tassazione ambientale per raggiungere gli obiettivi del Green deal, cosa resta dunque per il contrasto all’evasione? Il penultimo paragrafo del documento predica la necessità dell’ennesimo Patto fiscale tra Stato e cittadini incentrato su un “cambio di paradigma nei rapporti tra amministrazione fiscale e contribuente”: “Vi è il bisogno di un’evoluzione culturale da ambo le parti: ciascuna di esse deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della “controparte”“. Le priorità allora sono l’estensione dell’obbligo di fatturazione elettronica e la piena digitalizzazione del fisco, lo “scambio tra digitalizzazione e riduzione degli adempimenti per i professionisti, imprese e intermediari” (si afferma che va anche “valutato attentamente” il meccanismo del cosiddetto reverse charge“, cioè il versamento dell’Iva non a chi venda ma direttamente all’erario, che pure ha consentito un buon recupero di evasione) e “l’interoperabilità delle banche dati” nel rispetto della Privacy. Qui però iniziano i distinguo, dalla necessità che il contribuente sia messo a conoscenza dei dati in possesso dell’amministrazione alla richiesta che l’ente impositore abbia “l’onere di dimostrare che l’incrocio tra i dati è corretto e di motivare puntualmente la risposta in merito agli argomenti difensivi presentati dal contribuente”.

Infine, i componenti delle Commissioni ritengono auspicabile pure “superare le residue forme ancora presenti di attività di controllo basate sulla ricostruzione presuntiva di reddito o ricavi” come il redditometro, di cui pure il ministero dell’Economia ha appena elaborato una nuova veste (il decreto è ora in consultazione), nei casi in cui con i dati sia possibile ricostruire puntualmente l’imponibile. Solo due righe sulla riscossione, di cui il governo dovrebbe a breve presentare una proposta di riforma ad hoc: il Parlamento si limita a immaginare una “rivoluzione manageriale in grado di superare l’approccio meramente formale e virare verso una gestione del processo produttivo interamente concentrata su efficienza ed efficacia“.

ILFQ

giovedì 3 dicembre 2020

Chi ha davvero paura della patrimoniale. - Salvatore Cannavò

 

Qual è il “ceto medio”. Dibattito e isterie. La proposta è approssimativa, ma la destra mente sui dati. Solo il 10% delle famiglie supera i 500 mila euro (ma ha il 44% di beni e denaro).

Che paura che fa la patrimoniale. Basta solo accennarne l’introduzione che in Italia scatta una reazione isterica, prevalentemente a destra, ma non solo, da far impallidire i camionisti cileni che diedero il via all’affossamento di Salvador Allende.

La proposta avanzata da LeU con qualche improbabile compagno di strada democratico (vedi Matteo Orfini, che da presidente del Pd avallò il Jobs Act) non ha certo brillato per fattibilità, come ha già argomentato su queste pagine Antonio Padellaro. Non a caso quell’emendamento alla legge di Bilancio è stato giudicato ieri “inammissibile” dalla commissione Bilancio della Camera per “carenza o inidoneità della compensazione”, cioè per mancanza di coperture.

Qui viene a galla il primo paradosso. L’inammissibilità, infatti, dipende da ragioni opposte a quelle per cui il provvedimento è stato duramente attaccato. A fronte di un prelievo sul patrimonio, infatti, l’emendamento prevedeva anche l’abolizione dell’Imu sulle persone fisiche (oggi esistente solo sulle seconde case) e dell’imposta di bollo sui conti correnti bancari e deposito titoli.

L’abolizione provocherebbe un mancato gettito di circa 19 miliardi da compensare con la “patrimoniale” che è stata pensata così: un’imposta sui grandi patrimoni superiori a 500 mila euro comprensivi di attività mobiliari e immobiliari al netto delle passività finanziarie, con un’aliquota base dello 0,2% che sale allo 0,5% oltre 1 milione di euro e fino a 5 milioni di euro e poi sale ancora all’1% sopra i 5 milioni e al 2% sopra i 50 milioni. Per la commissione Bilancio, però, la compensazione non è chiara e quindi l’emendamento non è stato accolto.

Nicola Fratoianni, mostrandosi sorpreso e minacciando ricorsi, dice al Fatto che secondo i calcoli di Sinistra italiana il saldo netto positivo della misura sarebbe di 10 miliardi, “ma in Italia manca una valutazione del patrimonio e quindi è difficile fare valutazioni esatte”.

Lasciando da parte l’improvvisazione con cui l’iniziativa è stata presa, quello che colpisce è il furore con cui la destra italiana e quel manipolo di “liberisti de noantri” che popola le pagine dei principali giornali ha reagito al grido di “giù le mani dai nostri portafogli”. Tra i più esagitati, Alessandro De Nicola, presidente dell’Adam Smith society e Nicola Porro, vicedirettore del Giornale e uomo-Mediaset.

Gli attacchi vengono portati senza alcuna attinenza ai numeri reali e con la reale condizione delle famiglie italiane preferendo urlare a un generico “assalto criminale” al bene supremo degli italiani, la casa. Qui, però, si fa sempre finta di non sapere che le imposte si pagano sui valori catastali e non sul valore commerciale, che è di circa tre volte il valore di riferimento per l’imposta. Ne troviamo conferma sia in uno studio della Cisl che nelle stime di Salvatore Morelli, Research Assistant Professor presso il Graduate Center della City University of New York.

Quando si pensa a un valore immobiliare di 500 mila euro occorre pensare a un bene che sul mercato vale circa 1,5 milioni, una piccola reggia se non è collocato di fronte al Duomo di Milano. Ma non è neanche questo a inquinare il dibattito. Il vero problema è la concentrazione della ricchezza in Italia dimostrata da tutti gli studi da qualunque parte provengano. I numeri di Banca d’Italia parlano chiaro. Solo il 10% più ricco delle famiglie italiane ha un patrimonio complessivo, finanziario e non, superiore ai 500 mila euro, anzi, stando ai dati riferiti al 2016, gli ultimi disponibili, ai 462 mila euro.

Questo decile della popolazione, come si vede nella tabella, detiene il 44% della ricchezza complessiva stimata, al lordo delle passività finanziarie, in 9.742 miliardi di euro. Significa che il 10% delle famiglie detiene circa 4.286 miliardi di euro della ricchezza complessiva. Quella detenuta dal 30% più povero delle famiglie è appena l’1% di quella complessiva, e come sottolinea la Banca d’Italia, “tre quarti di queste famiglie sono anche a rischio di povertà. Il 30% più ricco delle famiglie, invece, detiene circa il 75% del patrimonio complessivo, con una ricchezza netta media pari a 510 mila euro, il doppio della ricchezza media delle famiglie pari a 206 mila euro.

“Tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta media è diminuita del 5%”, ricorda ancora Banca d’Italia mentre uno studio di Morelli e di Paolo Acciari, dirigente del Mef, mostra come dal 1995 al 2014 la ricchezza dell’1% più ricco della popolazione sia passata dal 17 al 27% della ricchezza netta complessiva.

Altro che “ceto medio” in lacrime di fronte alla patrimoniale, qui c’è un nucleo molto ristretto di super-ricchi – spesso evasori fiscali, beneficiari di paradisi intra ed extra-europei, meri beneficiari di eredità – che monopolizza il patrimonio nazionale.

Per questo la discussione sulla tassazione dei patrimoni non è un tabù e infatti è entrata nel dibattito spagnolo, grazie a Podemos, con un’imposta del 2% sulle attività nette superiori a 1 milione di euro, per poi salire progressivamente. Anche in Francia, benché a governare ci sia il liberista Emmanuel Macron, l’imposta sulla fortuna (Isf) non è stata eliminata del tutto lasciando in vigore quella sui patrimoni immobiliari con aliquote progressive a partire da 1,3 milioni.

L’economista Thomas Piketty nel suo recente Capitale e ideologia mostra come la quota di reddito a disposizione del 10% di popolazione più ricca (di Usa, Europa, Cina, India e Russia) sia passata dal 25-35% del 1980 al 35-55% del 2018. E ispirandosi alla “giustizia” di John Rawls propone una robusta tassazione patrimoniale per finanziare una “dotazione di capitale” ai giovani di 25 anni dall’importo di 120 mila euro.

Una idea simile rilancia il Forum Diseguaglianze e Diversità coordinato da Fabrizio Barca, che ha lanciato l’ipotesi di offrire ai giovani di 18 anni una “eredità universale” di 15 mila euro al compimento della maggiore età da prelevare proprio con una imposizione sulla successione. Figurarsi dopo il napalm berlusconiano cosa succederebbe se si discutesse di nuovo di tassa di successione. Eppure, ai “liberisti de noantri” non farebbe male rileggere Alexis de Tocqueville: “Mi stupisco – scriveva ne La democrazia in America – che gli scrittori politici non abbiano attribuito alle leggi sulle successioni una maggiore influenza sulle cose umane: dovrebbero essere messe in testa a tutte le istituzioni politiche”. Già.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/03/chi-ha-davvero-paura-della-patrimoniale/6024836/