domenica 16 settembre 2018

Assenza genitoriale, disagio adolescenti.

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Ogni anno, in Italia, 500 adolescenti si uccidono.
La causa del problema pare che sia l'assenza dei genitori ma...

Il problema è ben più grave di ciò che si crede. 
Il problema trae origine da una reazione a catena: i genitori insoddisfatti sia economicamente che materialmente, non avendo strutture pubbliche adeguate alle quali fare affidamento, e non potendo più fare affidamento sui propri genitori forzatamente trattenuti al lavoro con le leggi capestro messe a punto dalla politica corrotta, debbono adattarsi a sopperire a tutto da soli. Dovendo sopperire a tutto con i pochi mezzi, economici e materiali messi a disposizione dalla società carente, districandosi tra lavoro esterno e lavori domestici, sono costretti a tralasciare, per mancanza materiale di tempo, l'attenzione e la cura che richiedono i figli.
Figli che, a loro volta, senza una guida alla quale fare riferimento, cercano di trovarla in situazioni illusorie come i videogiochi o l'aggregazione a bande di piccoli teppisti che, come è sotto gli occhi di tutti, aumentano a dismisura. 


Credo, oltretutto, che tra i motivi principali della decrescita nel nostro paese ci sia proprio la carenza di strutture adeguate al sostentamento genitoriale.
I figli costano, richiedono accudimento e, quando manca il supporto dovuto, si rinuncia. E' più facile, meno costoso e meno responsabile allevare un cane o un gatto.


Sta cambiando la società, in peggio, per colpa della carenza di strutture e di etica.


Cetta.

giovedì 13 settembre 2018

Normativa copyright.

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Con la nuova normativa Copyright hanno voluto censurare la libertà di parola. 
Sarà molto difficile, infatti, districarsi tra i meandri dell'obbligo di pagamento dei diritti d'autore alle testate giornalistiche o ai giornalisti stessi da parte delle piattaforme come Fb e/o Twitter, che preferiranno censurare per non pagare. 
Stiamo attraversando un periodo di grande buio, di dittatura insopportabile nella quale aumentano i doveri e diminuiscono in maniera esponenziale i diritti, compreso quello di libertà di pensiero e di espressione.
A me sembra anche una forma di protezione verso le testate giornalistiche e giornalisti stessi che, asserviti alla sporca politica, riceveranno un compenso per la loro abnegazione.


Cetta

mercoledì 12 settembre 2018

CUFFARO ALL’ARS: IL SOVVERTIMENTO DELLA LOGICA E DELLA VERITÀ - Angelo Niceta

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CAMBIANO LE STRATEGIE MA NON LA FINALITÀ: CREARE UN CLIMA CHE RENDA POSSIBILE CAMBIARE LE LEGGI PIÙ EFFICACI IN TEMA DI LOTTA ALLA MAFIA, A PARTIRE DALLA ROGNONI-LA TORRE...

Quanto avvenuto sulla vicenda dell’ospitata di Totò Cuffaro all’Ars ci indigna. Ma ci indigna ancor di più la collaudata “strategia del caos” che è stata sperimentata anche in questo caso, nonché la mancata informazione su alcuni fatti fondamentali.


Anzitutto ricordiamo che l’attivismo di Totò Cuffaro non è iniziato qualche giorno fa: appena nel mese di agosto, applauditissimo, l’ex governatore ha partecipato ad alcune “assemblee” per la raccolta delle firme a sostegno delle 8 proposte di legge di iniziativa popolare radicali, a fianco di Massimo Niceta e Pietro Cavallotti, aventi le finalità, tra l’altro, di abolire il 41 bis, abolire l’ergastolo, svuotare la Rognoni-La Torre e la legge sui comuni sciolti per mafia. 


PERCHÉ QUESTA NOTIZIA È PASSATA SOSTANZIALMENTE "INOSSERVATA" AI "BENPENSANTI"? PERCHÉ, A NOSTRO AVVISO, NON SI DOVEVA PARLARE DELL’INIZIATIVA IN ATTO CONTRO LE PRINCIPALI NORMATIVE ANTIMAFIA…

Ma veniamo a quanto accaduto in questi giorni. Il problema non è che Cuffaro venga ospitato in una sala piuttosto che in un’altra: il problema è che un CONDANNATO PER FAVOREGGIAMENTO ALLA MAFIA, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici (non può neppure esercitare come medico in Italia), mai pentitosi, non deve più avere alcuno spazio nella vita pubblica. È risibile fingere che in una terra come la Sicilia questi segnali non contino, e che l’ospitata di Cuffaro, difesa dai vertici del governo regionale nella figura di Gianfranco Micciché, non assuma un significato che non può essere ridotto al mero fatto, già grave. È giusto che si parli delle esperienze dei carcerati, non capiamo perché debba essere Cuffaro e non un detenuto qualunque a farlo, oltretutto in una sede istituzionale. 


Gianfranco Micciché, rispondendo a Cancelleri, ha così difeso l’iniziativa: “In vita mia non ho mai impedito a chicchessia di dire la sua, men che meno lo farei con chi ha sofferto in carcere. E non lo farò nemmeno stavolta, nemmeno se IL TUO PROBLEMA si chiama Totò Cuffaro. NON STARÒ QUI A SPIEGARTI CHE COSTUI RAPPRESENTA UN PEZZO IMPORTANTE DI RECENTE STORIA SICILIANA. E una cosa sia chiara: censurare non fa parte del mio dna”.


Quindi, per stessa ammissione del vicepresidente e uomo forte della Giunta Regionale siciliana Micciché non parla solo come detenuto X ma in quanto “RAPPRESENTA UN PEZZO IMPORTANTE DI RECENTE STORIA SICILIANA”. 


Un pezzo recente di storia siciliana: un pezzo di vergognose collusioni tra istituzioni e mafia, ma anche di spoliazione della cosa pubblica (si pensi, pars pro toto, il fiume di soldi riversato sulla sanità privata) e del peggior clientelismo.


Ma di fronte ad una simile assunzione di responsabilità da parte di Micciché, invece di esserci una rivolta della Commissione Antimafia, delle forze politiche e delle associazioni che si proclamano a gran voce “antimafia”, abbiamo assistito ad una ridda di commenti giustificazionisti e confusi per difendere l’indifendibile.


“Siamo in una democrazia”. Naturalmente, ma anche una democrazia vive di regole e di principi etici. È giusto far parlare, per di più in una sede istituzionale, per esempio, un soggetto condannato per stupro? O magari, la prossima volta, SARO CATTAFI, perché racconti anche lui l’esperienza del carcere?


“Cuffaro ha pagato per tutti”. Argomento ancora più assurdo. Anzitutto perché riteniamo che verso Cuffaro non ci sia stato alcun particolare accanimento, viste anche le visite che riceveva in carcere, a quanto ha riferito la stampa, per continuare a gestire il suo potere e i suoi affari. In secondo luogo perché se anche fosse vero, lo scandalo sono i “colletti bianchi” impuniti, i concorrenti esterni a piede libero – e la mancanza di leggi aggiornate per perseguire il nuovo metodo mafioso – non già l’asserito “sacrificio” (che tale non è) di Cuffaro. Il fatto che per una volta sia stato condannato un “eccellente” non lo fa diventare un capro espiatorio!


Concludiamo con una considerazione. Questi segnali di “resa” alla necessità di fare i conti anche dal punto di vista politico ed etico con la mafia, di cui parlò Paolo Borsellino e di cui parlano tutt’oggi i magistrati che fanno davvero la lotta alla mafia, ci sembrano inquietanti, e fanno da contraltare al clima che si cerca di creare partendo dal basso, dall’umore della gente, contro “l’antimafia”, CON LA PRECISA FINALITÀ NON DI COMBATTERE LA FALSA ANTIMAFIA MA DI DELEGITTIMARE TUTTO E ARRIVARE A CAMBIARE LE LEGGI CHE ANCORA SI PERMETTONO DI “DISTURBARE” IL SISTEMA MAFIA-POLITICA-AFFARI. E ovviamente, creando un clima di delegittimazione e isolamento intorno ai magistrati scomodi e di indebita interferenza sulle inchieste e sui processi in corso.


La “minaccia” rappresentata dalle 8 proposte di legge radicali rimane, e il tentativo continuerà perché queste leggi, dai tempi della “trattativa” Stato-mafia ad oggi, sono uno dei punti fissi nei desiderata del potere. E se adesso la strategia comunicativa cambierà, non più “tutti uniti appassionatamente”, ma ciascun soggetto (un condannato, un indagato con l’aggravante mafiosa, un soggetto con misure di prevenzione in corso) che racconta vittimisticamente e con menzogne la sua storia, la finalità è sempre la stessa.
Proprio per questo, in un momento cruciale di cambiamento politico, invitiamo tutti i cittadini a vigilare. Il volano dell’indignazione dell’opinione pubblica deve rivolgersi contro un sistema di potere e di collusioni, contro mafiosi e corrotti, con la richiesta di nuove ed efficaci leggi all’altezza della realtà, e non dev’essere distolto dai soliti professionisti goebbelsiani della manipolazione dell’opinione pubblica verso soggetti che tutto sono fuorché “vittime”!
Da Noi sosteniamo 
Angelo Niceta


https://www.facebook.com/Collusi/posts/1978312892467464?__xts__%5B0%5D=68.ARDGvw2PpdxSEd1JpZ3NFgLfdpMpcvNvJ98zSx3uUVbQ10sZlq0xqmVM-UxfmFs0YsAEGVma5ZhzTooPClXepeI6JJtnZRCyUg4Ozht2FUjOKpYY9bcRQrBn_rFpEk7ac0h5uBeShPu8Lbo9_Y8u0n5E-3DYRbEyrD4iRaWoXBvbG-Yzd-pXvg&__tn__=K-R

Cuffaro e Miccichè sono la prova del fatto che la mafia si è impossessata delle istituzioni con il bene placito dei politici corrotti che, pur di mantenere il loro potere all'infinito, accettano di prostrarsi alla mafia. Chi entra a far parte delle organizzazioni malavitose ha l'obbligo di difenderne i componenti. E in quella frase: "Cuffaro ha pagato per tutti" è racchiuso il motivo del sostegno morale che Miccichè presta all'amico.

domenica 9 settembre 2018

SENTI CHI PIRLA - Marco Travaglio

Giglio nero, le rivelazioni dell’ad di Consip svelano il sistema

“Complotto”, “Watergate italiano”, “eversione”, “attacco alla democrazia”, “inchiesta con false prove per colpire il governo”, “pm deviati”. 

Sembrano parole di Matteo Salvini, il vicepremier e ministro eversore che sfida e minaccia i giudici dei casi Lega e Diciotti, ricorda che non sono stati eletti mentre lui sì (mo’ me lo segno) e appende nel suo ufficio al Viminale l’avviso di garanzia per sequestro di persona come una medaglia di guerra o un trofeo di caccia, beccandosi le sacrosante reprimende delle opposizioni, degli alleati 5Stelle e delle migliori penne del giornalismo. 
Invece no: sono alcuni dei commenti che i massimi vertici del Pd renziano dedicarono ai pm e ai carabinieri che avevano scoperto lo scandalo Consip: cioè i traffici del galoppino di papà Renzi e dell’imprenditore Alfredo Romeo per truccare il più grande appalto d’Europa (2,7 miliardi di euro) e le fughe di notizie dal Giglio Magico renziano per avvertire i sospettati su indagini e intercettazioni, salvarli dai guai e rovinare l’indagine.
Era un anno fa, il 15 settembre 2017, quando una fuga di notizie dal Csm trasmise a Repubblica, Corriere e Messaggero alcuni stralci (manipolati ad arte) di un verbale segretato del procuratore di Modena Lucia Musti, sentita mesi prima su un’altra inchiesta condotta dagli stessi inquirenti di Consip: il pm Henry John Woodcock e il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Dal verbale taroccato, pareva che la Musti accusasse Scafarto e il suo ex comandante Sergio de Caprio di averle fatto pressioni per “far esplodere la bomba” e “arrivare a Renzi”. 
La bufala, rilanciata a reti ed edicole unificate, servì allo stato maggiore del Pd (seguito a ruota dai partiti alleati e amici, inclusa ovviamente FI) per accusare i pm napoletani delle stesse nefandezze che Salvini & C. imputano ai magistrati siciliani e genovesi. “Lo scandalo Consip – tuonò Renzi – è nato per colpire me e credo che colpirà chi ha falsificato le prove per colpire il premier. Io lo so bene chi è il mandante”. Il presidente Matteo Orfini rincarò: “Questo è il Watergate italiano”, un caso di “eversione”, un “attacco alla democrazia”. Il capogruppo Luigi Zanda, l’ex segretario Ds Piero Fassino e il sottosegretario Riccardo Nencini, in perfetta coordinazione, strillarono al “complotto”. I ministri Franceschini e Pinotti si unirono al coro. Andrea Romano e Mario Lavia, direttore e vice dell’house organ “Democratica”, titolarono stentorei: “Il complotto”. L’ora era grave. Si attendeva lo schieramento delle Forze Armate a presidio delle istituzioni minacciate dalla magistratura deviata.
Poi, quando uscì il vero verbale della Musti (sul Fatto), si scoprì che era un Piano Sòla: l’indagine riguardava una coop emiliana vicina alla vecchia “ditta” del Pd (cioè non a Renzi, ma ai suoi avversari interni) e, portando delle carte di quel fascicolo, Scafarto aveva confidato alla pm di essere impegnato in un’altra indagine che portava al giro renziano (Consip). Acqua fresca, insomma. Ma nessuno rettificò, né si scusò, anzi il processo staliniano a Woodcock è proseguito fino all’altroieri sui media e in un Csm ormai scaduto e putrefatto, ma sopravvissuto a se stesso solo per sparare le ultime raffiche contro il pm napoletano (e pure contro Di Matteo).
Ora qualcuno dirà: qualunque scandalo investa il governo giallo-verde, parte il solito ritornello “E allora il Pd?”. Ma è esattamente l’inverso: è il Pd che, qualunque scandalo tocchi il governo giallo-verde, non ha alcun titolo per scandalizzarsi perché ha fatto le stesse cose e pontifica dal peggior pulpito possibile. Come quello dei giornaloni, del Csm e di pezzi dell’Anm che, quando Renzi & C. attaccavano i magistrati, non gridavano all’eversione, ma tacevano o si associavano. Il 16 settembre 2017, anziché ridicolizzare – carte alla mano – i delirii pidin-governativi, Repubblica li rilanciò con lo stesso armamentario dialettico di B&C. Titolo di prima pagina: “Caso Consip, manovre e veleni. Renzi: creato solo per colpirmi”. Editoriale del direttore: “La democrazia anormale”. E giù botte contro gli inquirenti colpevoli di “manipolazione delle carte giudiziarie… affinché fosse affondato l’allora primo ministro”, per “disarcionarlo” e “chiudere una carriera politica”. Un caso di giustizia a orologeria, con perfetta “tempistica”, per rovesciare il governo del povero Renzi (che per la cronaca, quando uscirono le prime notizie su Consip, si era già dimesso da due settimane). 
Seguiva un drammatico appello a chi di dovere (Quirinale? Ue? Nato? Onu?) sulla “necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato ed eversivo” e usano il “metodo a strascico… con intercettazioni telefoniche e ambientali” (copyright a B.).
Ma c’è di più, come ricordiamo oggi a pag. 2 a beneficio degli smemorati di Collegno. La Lega ha rubato 49 milioni di soldi pubblici al Parlamento e deve restituirli, o farseli sequestrare. Dunque ha ragione l’opposizione, cioè il Pd (stante comprensibile il silenzio di FI in tema di furti), a reclamare il bottino a nome dei cittadini derubati. Anzi avrebbe ragione se lo stesso Pd non avesse promosso al governo e in Parlamento un plotone di consiglieri regionali e comunali indagati nelle varie Rimborsopoli per altri soldi pubblici rubati: quelli per le spese politico-istituzionali dei gruppi consiliari. Tutto ciò non allevia di un grammo le colpe della Lega nelle ruberie e negli attacchi ai giudici: dimostra soltanto che il primo problema dell’opposizione, oltre al crollo di voti e consensi, è l’assenza di credibilità. L’oppositore che non si può zittire con un bel “senti chi parla” deve ancora nascere. O sta entrando all’asilo.
Fatto Quotidiano - 9 settembre 2018

venerdì 7 settembre 2018

C'è grossa crisi. - Marco Travaglio - FQ 07 settembre 2018

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Lungi da noi insegnare agli oppositori del governo come non si fa l’opposizione, anche perché a non farla riescono benissimo da soli. Ma, curiosi come siamo, vorremmo capire. Perché oggi – come diceva Quèlo di Corrado Guzzanti – c’è grossa crisi. Se il governo populista, sovranista, anti-Europa, anti-vaccini, anti-scienza, anti-tutto, razzista, fascista, incompetente, incapace, giacobino e malavitoso (e questi sono solo i suoi lati migliori) è un “pericolo per l’Italia” (Renzi) e l’anticamera di una “deriva sudamericana” (Martina), non ci meraviglia tanto il suo consenso al 70%: gli elettori hanno sempre torto, da quando sbagliano a votare. No, incuriosisce che, appena ne fa una giusta, il Pd lo accusi di plagio. È capitato col ripristino dell’obbligo dei vaccini e della relativa documentazione per mandare i figli a scuola e all’asilo (“Una nostra vittoria!”, come se un partito del 18% potesse mettere sotto una coalizione del 50 e rotti). Ed è riaccaduto ieri sul caso Ilva, cioè sul successone ottenuto da Di Maio e dai sindacati dopo tre mesi di braccio di ferro con Mittal e con i suoi amichetti pidini spalmati sul colosso indiano secondo il collaudato modello Benetton-Autostrade. Alla fine, ricattata da Di Maio con la minaccia di revocare la gara made in Calenda (piena di vizi, per Anac e Consiglio di Stato) per spuntare vantaggi occupazionali e ambientali, Mittal ha dovuto cedere su tutta la linea, firmando un accordo migliore di quello avallato dal mitico Calenda.
Ora chi vaticinava (“gufava”, direbbe Renzi) disastri, sfracelli e catastrofi con la fine dell’acciaio italiano e migliaia di famiglie sul lastrico a causa della nota incompetenza del ministro che “faceva lo steward allo stadio San Paolo”, “non ha mai lavorato”, sbaglia i congiuntivi e pensa che il corpo umano sia al 90% acqua, ha solo due strade: o si scusa e riconosce che Di Maio ha condotto bene la trattativa, salvando più ambiente e più posti di lavoro di quelli spuntati dal Signor SoTuttoIo; o si scava una fossa e si ficca per non uscirne più. Invece i renziani (“rosiconi”?) scelgono una terza via: dire, con grave sprezzo del ridicolo, che è tutto merito loro. Intanto persino Mattarella e i sindacati (dal calendiano Cisl Bentivogli alla Cgil) elogiano il vicepremier. E financo Calenda fa “complimenti non formali a Di Maio”, dopo aver trascorso gli ultimi tre mesi a chiamarlo “ragazzino incapace, incoerente, incompetente, confuso, dilettante”, specialista in “idiozie”, “speculazioni”, “fesserie”, “scaricabarile”. Poi però aggiunge che Di Maio ha “cambiato idea e finalmente imboccato la strada giusta”: che sarebbe la sua.
Peccato che Di Maio avesse sempre definito “insoddisfacenti” gli impegni presi da Mittal con Calenda e ne abbia spuntati di migliori. Ma vallo a spiegare a Martina, Bellanova, Morani, Picierno, Rosato (ma sì, pure lui), Anzaldi e agli altri twittatori-pappagalli, che cinguettano come una Xerox sulla “retromarcia” di Di Maio, mentre qui l’unica marcia indietro l’ha fatta Mittal, costretta a cedere proprio da lui con quella che i pidini definiscono “sceneggiata”. Poi c’è Renzi. Sentitelo: “12 decreti per salvare Ilva e oggi il nuovo Governo cambia idea e riconosce il lavoro fatto. Bene. Solo grazie a chi ci ha messo il cuore, a cominciare da Andrea Guerra, Federica Guidi, Carlo Calenda, Teresa Bellanova”. Pure la Guidi, cacciata da lui: uno spettacolo. Naturalmente i 12 decreti Salva-Ilva di B., Monti, Letta e Renzi non c’entrano nulla con l’accordo di ieri: servivano a risparmiare o rinviare alle calende greche le bonifiche ambientali dei precedenti padroni (i Riva) e poi dei commissari, mettendoli al riparo dalla magistratura. E il governo non riconosce affatto il buon lavoro di quelli precedenti: stringe un nuovo accordo più vantaggioso.
Ma facciamo finta che le cose stiano così, cioè che i 5Stelle stanno copiando il Pd, dai vaccini all’Ilva: perché allora il Pd non s’è neppure seduto al tavolo con loro, visto che vogliono e fanno le stesse cose? E come può il Pd considerare pericoloso, disastroso, catastrofico un governo che copia il Pd? Ci permettiamo di domandarlo fin dal primo giorno, quando Renzi annunciò di volersi godere “con i pop-corn” il governo giallo-verde. Poi però comunicò che era una minaccia per l’Italia, senza spiegare perché avesse fatto di tutto per propiziarlo e nulla per risparmiarcelo. In contemporanea, sfidò pure Salvini e Di Maio a “mantenere le loro folli promesse”. E lì rischiò su due piedi il Tso: se un politico sano di mente ritiene folli certe promesse, dovrebbe augurarsi che non vengano mai mantenute e fare di tutto perché restino sulla carta, non perché si realizzino. Ora i suoi eventuali fan, già piuttosto disorientati, gli sentono dire, testuale: “Vedere Salvini e Di Maio difendere gli 80 euro non ha prezzo. Sono il Governo del cambiamento, infatti cambiano idea ogni giorno. E mi copiano. Ora aboliranno un ramo del Parlamento (che lui non aboliva, ndr) e il Cnel, poi faranno il referendum costituzionale. Alla fine dovrò chiedere il copyright”. Così il sempre eventuale elettore Pd tira un bel sospiro di sollievo: ah meno male, è come se governassimo ancora noi, quindi non c’è da preoccuparsi e non c’è bisogno di scendere in piazza contro “il governo dell’odio”. Al massimo, del plagio.
Ps. A proposito di plagi. “Fanno il Daspo ai tifosi, va fatto il Daspo ai politici che prendono le tangenti: mai più”. Chi l’ha detto? L’allora premier Renzi. Era il 7 maggio 2014. Poi purtroppo se lo scordò. E ora il Daspo ai corrotti lo fa Bonafede. Se ne desume che, se Renzi manteneva le promesse di B. (Jobs Act, art. 18, Buona Scuola, attacchi ai pm, regali agli evasori ecc.), i 5Stelle mantengono quelle di Renzi. Almeno quelle buone, infatti mai mantenute.

Furbetti del cartellino, 26 arresti alla Provincia di Massa Carrara: ci sono anche capo della polizia e autista del presidente.

Furbetti del cartellino, 26 arresti alla Provincia di Massa Carrara: ci sono anche capo della polizia e autista del presidente

Gli indagati sono in tutto 70. Il gip: "Spiccato senso di impunità". Dopo una fuga di notizie sull'installazione di telecamere da parte dei carabinieri, infatti, in molti avrebbero continuato a fare assenze ingiustificate. Nelle carte si trova di tutto: da chi svolgeva un altro lavoro a chi partecipava a messe e funerali fino a chi fingeva di rientrare ma usciva di nuovo.

“Una lunga, consolidata e diffusa prassi di assenteismo ingiustificato, realizzato attraverso un sistematico ed ingegnoso aggiramento delle regole che disciplinano il rapporto di pubblico impiego”. Con questa motivazione il gip di Massa Alessandro Trinci ha deliberato l’arresto per 26 dipendenti della provincia di Massa Carrara e del Genio Civile di Massa, mentre per altri 3 è scattata la misura cautelare del divieto di dimora. In tutto sono 70 gli indagati dal procuratore capo di Massa Aldo Giubilaro e dal sostituto Roberta Moramarco: impiegati pubblici che in un arco di tempo molto lungo (da ottobre 2016 a maggio 2018) sono stati monitorati mentre “sottraevano 2600 ore di lavoro alla pubblica amministrazione, cagionando un esorbitante danno erariale nonché disservizi ai cittadini e nocumento al corretto andamento e buon funzionamento” degli uffici pubblici. In tutto si tratta di almeno 5mila episodi di assenze. E non solo: gli indagati avrebbero manifestato “uno spiccato senso di impunità tanto che, nonostante i chiari segni di una inchiesta penale in corso, “dopo una iniziale limitazione o interruzione dell’attività delittuosa, hanno ripreso con regolarità le loro condotte decettive e truffaldine nei confronti dell’Ente di riferimento”.

In particolare, spiegano gli inquirenti, gli stratagemmi adottati per assentarsi dal luogo di lavoro consistevano in timbrature omesse simulate, effettuate in luoghi non autorizzati o tramite familiari o colleghi compiacenti, e false certificazioni. L’operazione di questa mattina ha visto impiegati 110 militari e ha portato anche a una serie di perquisizioni nelle abitazioni degli arrestati, a Massa, a Carrara, Montignoso, Sarzana, Viareggio e Pisa. Tra i colpiti dalle misure cautelari il comandante della Polizia provinciale, l’autista del presidente della Provincia e un messo notificatore dello stesso ente.
L’inchiesta è partita due anni fa dopo la segnalazione di un dipendente a un carabiniere sul doppio lavoro di un collega, finendo per scoprire un fenomeno più esteso e che le ragioni per le assenze era le più varie come andare a fare la spesa o al mercato,accompagnare i figli a scuola, partecipare a messe e funerali e in due casi per svolgere un altro lavoro: uno degli arrestati avrebbe aiutato la moglie nella tabaccheria di famiglia, un altro nel bar (sempre di proprietà) a pochi passi dallo stesso palazzo della Provincia. E’ emerso anche che le auto di servizio, anche quelle della polizia provinciale, venivano usate per spostamenti privati e commissioni di ogni genere. Quanto alle modalità delle assenze, succedeva che le missioni realmente commissionate dagli enti, anche fuori provincia, come sopralluoghi e riunioni, duravano sempre molte ore più del tempo effettivamente trascorso fuori per lavoro. Oppure i dipendenti coinvolti timbravano il cartellino per uscire a prendere un caffè, rimanevano nei paraggi pochi minuti poi timbravano nuovamente fingendo di essere tornati in ufficio mentre uscivano ancora, anche passando da porte secondarie, per stare fuori ore. Nel corso dell’inchiesta c’è stata anche una fuga di notizie, dopo un anno di indagini, sulle telecamere piazzate dai carabinieri negli uffici pubblici: alcuni dipendenti si sarebbero spaventati interrompendo le assenze (sono gli indagati non raggiunti da misura cautelare), altri avrebbero invece reiterato il reato per quasi un altro anno.

La Regione Toscana ha deliberato in una riunione tenuta questo pomeriggio che saranno licenziati senza preavviso i dipendenti regionali per i quali risultasse accertata la falsa attestazione della presenza in ufficio. Alcuni tra gli indagati, infatti, con il trasferimento di competenze dalle Province alle Regioni erano passati alle dipendenze dell’amministrazione regionale. I sindacati del pubblico impiego esprimono fiducia nella magistratura e affermano che si tratta di comportamenti, se confermati, “intollerabili” e “da condannare“.

Voti in cambio case: arrestati ex amministratori Lecce.





Sono 46 le persone indagate.


Ex amministratori comunali, consiglieri comunali, alcuni dei quali ancora in carica, e dirigenti del Comune di Lecce vengono arrestati in queste ore dai militari della Guardia di Finanza. Gli arresti sono stati richiesti dai Pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Sono 46 le persone indagate, tutte a vario titolo accusate per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d'ufficio e falso ideologico. Voti elettorali sarebbero stati 'scambiati' con alloggi popolari.
Compare anche il nome del senatore leccese della Lega Roberto Marti tra i 34 indagati che non sono stati raggiunti da alcun provvedimento restrittivo. Marti, dal 2004 al 2010, è stato assessore a Lecce ai Servizi sociali, ai progetti mirati e alle pari opportunità. Il reato contestato é abuso d'ufficio e falso ideologico.
http://www.ansa.it/puglia/notizie/2018/09/07/voti-in-cambio-case-arrestati-ex-amministratori-lecce-_6bfe9c42-0126-461d-af94-ed7994ee2904.html

Leggi anche: 


Lecce, voti in cambio di case popolari: arrestati ex amministratori e consiglieri comunali. Indagato senatore della Lega.

Sette le misure di custodia cautelare, anche nei confronti dell'ex assessore e attuale consigliere comunale Attilio Monosi (centrodestra), del consigliere comunale Pd Antonio Torricelli e dell'ex assessore della giunta Perrone Luca Pasqualini (centrodestra). Tutti gli indagati sono accusati di associazione a delinquere, peculato, corruzione, corruzione elettorale, abuso d’ufficio, falso, occupazione abusiva, violenza privata e lesioni. Sotto inchiesta anche il senatore leghista Roberto Marti.

Sette persone arrestate e 46 indagati a Lecce. Sono ex amministratori comunali, consiglieri – alcuni dei quali ancora in carica – e dirigenti, tutti accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d’ufficio e falso ideologico. Scambiavano voti per alloggi popolari. Sono finiti ai domiciliari l’ex assessore e attuale consigliere comunale Attilio Monosi (centrodestra), il consigliere comunale Pd Antonio Torricelli, l’ex assessore della giunta Perrone Luca Pasqualini (oggi consigliere di centrodestra), il dirigente comunale Lillino Gorgoni e il 27enne Andrea Santoro. Interdittiva invece per i dirigenti e funzionari dell’ufficio casa Piera Perulli, Giovanni Puce, Paolo Rollo e Luisa FracassoTra gli indagati c’è anche il senatore della Lega, Roberto Marti, ex assessore leccese, il cui nome era emerso già oltre un anno fa in un altro filone dell’inchiesta sulle case popolari. Gli arresti sono stati richiesti dai pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, è sostenuto da una maggioranza di centrosinistra ed è stato eletto nel 2017, dopo 20 anni di amministrazione di centrodestra.

I finanzieri del Comando Provinciale di Lecce, al termine di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica, hanno eseguito un’ordinanza di misura cautelare nei confronti di 9 persone (di cui due in carcere, cinque agli arresti domiciliari e due con obblighi di dimora), indagati a vario titolo per reati di associazione a delinquere, peculato, corruzione, corruzione elettorale, abuso d’ufficio, falso, occupazione abusiva, violenza privata e lesioni. Secondo quanto riporta il Nuovo Quotidiano di Puglia, a Pasqualini viene contestata anche l’accusa “di avere approfittato delle prestazioni di una donna” che “sarebbe la moglie di un uomo residente nel Quartiere Stadio che sarebbe stato particolarmente raccomandato all’assessore per avere una casa parcheggio“. Le indagini, scrive il quotidiano leccese, hanno documentato uno scambio di telefonate e messaggi con questa donna con cui ci sarebbero stati due incontri.

L’ordinanza di 800 pagine, che ha interessato, tra gli altri, amministratori pubblici pro-tempore e dipendenti della amministrazione comunale, è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, in seguito a richiesta avanzata dalla Procura nel mese di dicembre dello scorso anno nell’ambito di indagini svolte dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Lecce. Secondo l’ipotesi di reato formulata dai magistrati, è stata accertata l’assegnazione indebita di alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica in favore di persone non collocati in graduatoria in posizione utile, l’occupazione abusiva di alloggi resisi disponibili per l’assegnazione nonché l’accesso illegittimo a forme di sanatoria di cui alla Legge Regionale 10 del 2014 concesse in assenza dei requisiti richiesti. Si tratta di comportamenti che al momento non vedono coinvolti ulteriori soggetti oltre a quelli colpiti dalla misura cautelare di oggi. Secondo i magistrati la finalità era quella di acquisire consenso elettorale dei potenziali beneficiari di alloggi pubblici.
Dalle intercettazioni telefoniche e dai capi di imputazione che compaiono nella corposa ordinanza, ci sono anche nomi di vari big della politica locale e nazionale, ma il loro coinvolgimento nel mercato illecito dello scambio di voti in cambio di alloggi popolari è stato escluso dagli investigatori. Le indagini a loro carico non hanno prodotto alcun elemento che ne attestasse il coinvolgimento. Nell’ordinanza vengono ricostruiti su fonti di prova, concrete, episodi e modalità con cui avveniva il giro del mercato illecito legato all’assegnazione degli alloggi popolari in cambio di voti elettorali.

L’inchiesta principale, aperta tre anni fa, aveva conosciuto un primo momento di svolta nel pieno della campagna elettorale 2017, quando emerse il nome dell’allora sindaco Paolo Perrone, l’ex primo cittadino Adriana Poli Bortone, gli ex assessori alle Politiche giovanili e al Welfare, Damiano D’Autilia e Nunzia Brandi; i due ultimi segretari comunali Domenico Maresca e Vincenzo Specchia; il capo di Gabinetto Maria Luisa De Salvo; i dirigenti Luigi ManiglioNicola Elia e Raffaele Attisani; l’ex consigliere regionale di Azzurro Popolare Aldo Aloisi. Intere palazzine di via Potenza, via Pistoia, Piazzale Cuneo e Piazzale Genova sarebbero state assegnate con criteri poco trasparenti, tra il 2006 e il 2016. Per almeno 28 appartamenti, cioè, si sospettano attribuzioni senza requisiti, a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Il tutto con la presunta influenza degli amministratori e commistione dei dipendenti di Palazzo Carafa, per agevolare precisi gruppi di inquilini. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu.