lunedì 26 agosto 2019

Zingaretti insiste, Di Maio alza il tiro. Oggi il giro di boa. - Luca De Carolis

Zingaretti insiste, Di Maio alza il tiro. Oggi il giro di boa

I due leader di mondi diversi in fondo l’accordo non lo vorrebbero, potendo si sarebbero presi il voto anticipato (Nicola Zingaretti) o magari addirittura la Lega (Luigi Di Maio). Forse però non possono più tornare indietro. “Il treno è andato troppo avanti per fermarsi, lentamente arriverà dove deve arrivare” riassume un veterano del Pd. In sintesi, il segretario dem e il capo politico dei Cinque Stelle questo governo devono davvero cercare di farlo. Magari partendo proprio da Giuseppe Conte, su cui il veto di Zingaretti rimane, ma di domenica sera pare più fragile, perché tante voci di dentro del Pd e parecchie voci da fuori ripetono senza fermarsi che non bisogna formalizzarsi, meglio inghiottire il premier dimissionario a Palazzo Chigi e passare all’incasso sui ministeri, a partire dal Viminale.
VERTICE AL NAZARENO.
In giornata la linea dei democratici su Conte. Poi la palla torna ai grillini
Però è ancora maledettamente difficile questa guerra fredda, perché il Movimento forza i toni e le parole: troppo, per i pontieri delle rispettive parti. Quasi urla il Di Maio che non vuole sentire ragioni, anche perché altri nomi non ne ha. “La soluzione è Conte, e solo lui” tambureggia per tutta la domenica il Movimento. E lo stesso capo politico ripete il concetto a Zingaretti in una telefonata mattutina, l’unico contatto tra i due vertici.
Ma per il segretario del Pd, vecchia scuola comunista, non si può recedere da quella “richiesta di discontinuità” che predica da giorni, cioè dal veto su Conte. Per questo nel pomeriggio appare in maniche di camicia al Nazareno, la sede del Pd dove i dem tengono tavoli un po’ surreali sui temi, e tiene il punto: “L’Italia non capirebbe un rimpastone, noi pensiamo che in un governo di svolta la discontinuità deve esser garantita anche da un cambio di persone”. Però, aggiunge il segretario, “noi faremo di tutto per trovare una soluzione positiva, che si troverà in un confronto reciproco, senza ultimatum”. Ce l’ha con il Movimento che ripete Conte o morte, che gioca sempre di aut aut. Ma in controluce fa capire che serve tempo. Poi magari si potrà fare. Dall’altra parte dovrebbero cogliere il messaggio, ragionano i dem. Invece un nanosecondo dopo il M5S già spara: “L’Italia non può aspettare il Pd, è assurdo”. Una gamba tesa che non ci voleva, a leggere la reazioni. E che rende tutto più difficile, nella domenica in cui i renziani tornano a spingere pubblicamente per il sì a Conte. Tanto che Dario Franceschini, quello che parla pochissimo perché conta davvero, chiede pubblicamente a tutti i dem di fare i bravi: “Fino alla fine della crisi parli solo il segretario Zingaretti”. È più di un suggerimento, dal big che il veto a Conte lo sta corrodendo da giorni, con consigli, segnali, suggerimenti. E il segretario ovviamente ha preso nota. Sa che per l’accordo, e per il presidente del Consiglio che fu gialloverde, si sono mossi in parecchi. Ambasciate, per esempio, e l’eterno potere, la Chiesa. “Conte ha entrature in Vaticano che forse nessuno del Pd ha” sussurra un altro dem. Però Zingaretti e i suoi non vogliono prove di forza dal Movimento. Si irrigidiscono, e anche per questo si trincerano dietro la linea ufficiale: “Non cediamo sul premier, anche se ci stanno offrendo di tutto”. Dal fronte M5S negano: “Figurarsi, al limite potremmo nominare un commissario europeo condiviso”.
E si irritano per un’agenzia che narra di Di Maio che a Zingaretti avrebbe offerto “quasi” un monocolore Pd in cambio del sì a Conte. “Non si fanno scambi o giochini” giurano. Però sanno bene che ai democratici bisognerà dare ministeri di peso, come quello dell’Interno, a cui pure il capo politico puntava per sè. “Ma Luigi può prendere anche gli Esteri” ragiona un maggiorente del Movimento. Certo, dal M5S assicurano che, per carità, “non abbiamo mai parlato di ministri”. Ma i segnali dicono che i 5Stelle sicuri della riconferma sono solo Di Maio e i suoi due pretoriani, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede. Mentre sul fronte Pd si ragiona su varie opzioni. Con l’attuale capo della Polizia Franco Gabrielli che rimane un nome per il Viminale. E con l’ex governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, in ottimi rapporti con la sindaca 5Stelle di Torino Chiara Appendino, che è dato tra i papabili.
Ma siamo già troppo oltre, perché ci sono ancora mille passi da fare. “Di Maio è troppo sfuggente” si lamentano dal Pd. Cioè sfugge a un nuovo incontro, che ieri Zingaretti è tornato a chiedergli. “Fino alle consultazioni di domani dovrebbero vedersi solo le delegazioni” insistono dal M5S. Di Maio vuole continuare a giocarsela a distanza, puntando sul pressing delle varie anime del Pd su Zingaretti e sullo scorrere delle lancette. Ma il segretario dem risponde invocando tavoli anche “con la sinistra”, ossia con Leu (e Federico Fornaro risponde: “Il governo di svolta è possibile”). Oggi però si dovranno trovare se non tutte molte delle risposte. Tradotto, potrebbe essere un lunedì decisivo.
Con il Pd che si riunirà per un vertice che dovrebbe chiarire la linea, cioè dare la risposta definitiva su Conte. E dopo sono previste le 48 ore delle consultazioni. Ma in mezzo ci sono tante botole possibili. Per esempio, il Pd potrebbe rilanciare chiedendo Di Maio fuori dall’esecutivo in cambio del sì a Conte. “Impossibile” dicono i 5Stelle. Ma non è detto. Come non è affatto dato capire cosa farà Di Maio in caso di no al premier. La bomba che potrebbe fare saltare davvero tutto.

domenica 25 agosto 2019

Scippo al Sud. - Primo Di Nicola



Decine di miliardi destinati al Mezzogiorno usati per altri scopi. Dai trasporti sul lago di Garda ai debiti del Campidoglio. E persino per coprire il deficit causato dall'addio all'Ici.

Un tesoro da oltre 50 miliardi di euro disponibile solo negli ultimi due anni. Che poteva servire per terminare eterne incompiute come l'autostrada Salerno-Reggio Calabria e che invece è andato a finanziare i trasporti del lago di Garda e i disavanzi delle Ferrovie dello Stato. Una montagna di denaro che avrebbe dovuto rilanciare l'economia del Sud e che è stata utilizzata per risanare gli sperperi e i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania e per la copertura finanziaria dell'abolizione dell'Ici.

Un fiume di denaro destinato a colmare i ritardi delle zone sottoutilizzate del Paese e che è stato impiegato invece dal governo per pagare le multe delle quote latte degli allevatori settentrionali cari ai leghisti e la privatizzazione della compagnia di navigazione Tirrenia. Sono alcuni brandelli di una storia incredibile, il grande scippo consumato ai danni delle regioni meridionali. La storia delle scorribande sul Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, manomesso e spremuto negli ultimi anni dal governo Berlusconi per finanziare misure economiche e opere pubbliche che niente hanno a che fare con i suoi obiettivi istituzionali. Un andazzo che, nonostante qualche isolata protesta, è andato sinora avanti indisturbato. Fino alla soglia della provocazione. Come per gli sconti di benzina e gasolio concessi agli automobilisti di Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige, denunciati dal deputato Pd Ludovico Vico.

La Corte dei conti ha provato a stoppare lo sperpero lamentandosi apertamente per l'utilizzo dei soldi del Fas che hanno finito per assumere"l'impropria funzione di fondi di riserva diventando uno dei principali strumenti di copertura degli oneri finanziari" connessi alla politica corrente del governo. Ma con scarsi risultati: qualche riga sui giornali, poi il silenzio. Anche Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, ha chiesto al governo di "smetterla di utilizzare i Fas come un Bancomat". Così come Dario Franceschini al tempo in cui era segretario del Pd: "Ogni volta che è stato necessario finanziare qualcosa, dall'emergenza terremoto alle multe per le quote latte", ha affermato, "si è fatto ricorso al Fas togliendogli risorse". Quante per l'esattezza? Cifre precise non ce ne sono. Interpellata, persino la presidenza del Consiglio getta la spugna dichiarandosi incapace di fornire un rendiconto dettagliato delle spese fatte con i fondi Fas. Secondo una stima de 'L'espresso' però i soldi impropriamente sottratti al Sud solo negli ultimi due anni sono circa 37 miliardi. Una cifra ragguardevole confermata dal senatore democratico Giovanni Legnini: "Siamo di fronte ad una dissipazione vergognosa che certifica come il Pdl stia tradendo il Sud". Giudizio condiviso persino da Giovanni Pistorio, senatore siciliano dell'Mpa, il Movimento politico per le autonomie, parte organica della maggioranza di centrodestra: "Gli impegni verso il Mezzogiorno erano al quinto punto del programma elettorale del Pdl, il governo li ha completamente disattesi". 

Quante promesse.
E già, chi non ricorda le sparate a favore del Meridione con le quali il Cavaliere giurava che stava "lavorando con tutti i ministri per mettere a punto un piano innovativo per il Sud, la cui modernizzazione e il cui sviluppo ci stanno da sempre a cuore"? O quelle del sottosegretario Gianfranco Micciché che, sebbene da quasi dieci anni come viceministro o sottosegretario gestisca i fondi per il Meridione, più volte ha minacciato la fondazione di un partito del Sud se Berlusconi non avesse "sbloccato i fondi Fas e reso i parlamentari meridionali protagonisti della elaborazione delle strategie"? Parole al vento. 

La storia del Fas e dei suoi maneggiamenti comincia nel 2003 con il secondo governo Berlusconi quando tutte le risorse destinate alle aree sottoutilizzate vengono concentrate e messe sotto il cappello del ministero per lo Sviluppo economico. Il compito di ripartire le risorse viene invece affidato al Cipe con il vincolo di destinarne l'85 per cento al Sud e il 15 al Centro e al Nord. Intenti lodevoli, ma si parte subito con il piede sbagliato. Nel solco della peggiore tradizione della Cassa per il Mezzogiorno, i fondi finiscono per essere in gran parte utilizzati per quella politica delle mance tanto cara ai ras locali di tutti i partiti e alle loro fameliche clientele. Il 2003 è un anno destinato a rimanere negli annali degli sperperi. A colpi di milioni di euro si realizzano fondamentali infrastrutture come il museo del cervo a Castelnuovo Volturno e quello dei Misteri a Campobasso; il visitor center a Scapoli; si valorizza la palazzina Liberty di Venafro; si implementa il sito Web della Regione Molise; si restaurano conventi, chiese e cappelle a decine come a Montelongo, Castropignano e Gambatesa; si acquistano teatri come a Guglionesi; si consolida il santuario di Montenero di Bisacce. Per carità, si fanno pure le reti fognarie nei paesi e strade interpoderali sempre utili alle popolazioni; si recuperano siti turistici e pure aree naturalistiche, ma a fare epoca sono sicuramente il fiume di regalie come quelle legate al recupero e la valorizzazione della collezione Brunetti e agli studi sulle valenze naturalistiche dell'aerea di Oratino, al museo ornitologico di Montorio dei Frentani, per non parlare della realizzazione dell'enoteca regionale del Molise.

Progetti inutili.
Insomma, una insaziabile vocazione a spendere. Che continua a prosciugare il Fas anche negli anni successivi, pure quando a Palazzo Chigi torna Prodi. Tra il 2006 e 2007, accanto a tanti impeccabili interventi per il Sud, come il finanziamento ai programmi per l'autoimprenditorialità e autoimpiego gestiti da Sviluppo Italia (90 milioni) o agli interventi per il risanamento delle zone di Sarno e Priolo, appaiono una miriade di contributi a progetti che con il Sud hanno poco a che vedere: 180 milioni vanno per esempio al progetto 'Valle del Po'; 268 al ministero dell'Università per i distretti tecnologici; 119 al ministero per le Riforme per l'attuazione di programmi nazionali in materia di società dell'informazione; altri 36 milioni al ministero dell'Ambiente per finanziare tra l'altro il 'Progetto cartografico'. E non è finita: un milione finisce al ministero per le Politiche giovanili e le attività sportive per vaghe attività di assistenza; un altro milione al Consorzio nazionale per la valorizzazione delle risorse e dei prodotti forestali con sede in Frontone nella meridionalissima provincia di Pesaro e Urbino; 4 milioni al completamento dei lavori di ristrutturazione di Villa Raffo a Palermo, sede per le attività di alta formazione europea; 2 milioni alla regione Campania per la realizzazione del museo archeologico nel complesso della Reggia di Quisisana; 20 milioni al Cnipa per l'iniziativa telematica 'competenza in cambio di esperienza: i giovani sanno navigare, gli anziani sanno dove andare'; quasi 4 al ministero degli Esteri per il sostegno delle 'relazioni dei territori regionali con la Cina'. 

Sarebbe già abbastanza per gridare allo scandalo. Ma non è finita: da conteggiare ci sono pure i trasferimenti di risorse Fas ai vari ministeri e che si sono tradotti tra l'altro in uscite di 25 milioni a favore della presidenza del Consiglio per coprire le spese della rilevazione informatizzata delle elezioni 2006; 12 per finanziare le attività di ricerca e formazione degli Istituti di studi storici e filosofici di Napoli; 5 milioni al comando dei carabinieri per la tutela ambientale Regione siciliana per interventi di bonifica; 52 per coprire i crediti di imposta di chi utilizza agevolazioni per investimenti in campagne pubblicitarie locali; 106 milioni per l'acquisto di un sistema di telecomunicazione in standard Tetra per le forze di polizia. E vai a capire perché.

Cavaliere all'attacco.

Insomma, un autentico pozzo senza fondo al quale si attinge per le esigenze più disparate rendendo vane le richieste di un disegno organico per il rilancio dell'economia meridionale. Sarà anche per questo che tra il 2007 e il 2008 arriva una mezza rivoluzione per il Fas. L'intento sembra quello di fare ordine e voltare pagina, in concreto si gettano le premesse per l'ultimo grande scippo. Cominciamo dai soldi. Il governo Prodi riprogramma le risorse per il Meridione e con la Finanziaria 2007 stanzia a carico del Fas 64 miliardi 379 milioni, un autentico tesoro. Con tanti soldi a disposizione e l'esperienza negativa dei decenni di intervento straordinario a favore del Mezzogiorno, sembra l'inizio di una nuova era: il Sud deve solo pensare a spendere con raziocinio. Invece all'inizio del 2008 esce di scena Prodi e rientra in gioco Berlusconi. Che, per coprire le spese dei pochi interventi di politica economica che riesce a varare, ricomincia a saccheggiare proprio il Fas, una delle poche voci di bilancio davvero carica di soldi. Non è un caso perciò se a fine 2008 il Fondo si vede sottrarre altri 12 miliardi 963 milioni per finanziare una serie di provvedimenti tra cui quelli che foraggiano le aziende viticole siciliane carissime al sottosegretario Micciché (150 milioni); l'acquisto di velivoli antincendio (altri 150); la viabilità di Sicilia e Calabria (1 miliardo) e la proroga della rottamazione dei frigoriferi (935 milioni); l'emergenza rifiuti in Campania (450); i disavanzi dei comuni di Roma (500) e Catania (140); la copertura degli oneri del servizio sanitario (1 miliardo 309 milioni); le agevolazioni per i terremotati di Umbria e Marche (55 milioni) e perfino la copertura degli oneri per l'assunzione dei ricercatori universitari (63).

Tagli dolorosi-
E siamo solo all'assaggio. Un altro taglio da un miliardo e mezzo arriva per una serie di spese tra cui quelle per il G8 in Sardegna (100 milioni) marchiato dagli scandali; per l'alluvione in Piemonte e Valle d'Aosta (50 milioni); la copertura degli oneri del decreto anticrisi 2008 e gli accantonamenti della legge finanziaria; gli interventi per la banda larga e per il finanziamento dell'abolizione dell'Ici (50 milioni). 

Il secondo elemento della 'rivoluzione' del 2008 è costituito dalla trovata di Berlusconi e Tremonti di riprogrammare e concentrare le risorse del Fas (ridotto nel frattempo a 52 miliardi 400 milioni) su obiettivi considerati "prioritari per il rilancio dell'economia nazionale". Come? Anzitutto, attraverso la suddivisione dei soldi tra amministrazioni centrali (25 miliardi 409 milioni) e Regioni (27 miliardi). Poi con la costituzione di tre fondi settoriali: uno per l'occupazione e la formazione; un altro a sostegno dell'economia reale istituito presso la presidenza del Consiglio; un terzo denominato Infrastrutture e che dovrebbe curare il potenziamento della rete infrastrutturale a livello nazionale, comprese le reti di telecomunicazioni e energetiche, la messa in sicurezza delle scuole, le infrastrutture museali, archeologiche e carcerarie. Denominazioni pompose ma che in realtà nascondono un unico disegno: dare il via al saccheggio finale. 

Al Fondo per l'occupazione e la formazione vengono per esempio assegnati 4 miliardi che trovano i primi impieghi per finanziare la cassa integrazione e i programmi di formazione per i lavoratori destinatari di ammortizzatori sociali. Quanto al fondo per il sostegno all'economia reale finanziato con 9 miliardi va a coprire le uscite per il termovalorizzatore di Acerra (355 milioni); gli altri sperperi per il G8 alla Maddalena (50), mentre 80 milioni se ne vanno ancora per la rete Tetra delle forze di polizia in Sardegna; un miliardo per il finanziamento del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese; 400 milioni per incrementare il fondo 'conti dormienti' destinato all'indennizzo dei risparmiatori vittime delle frodi finanziarie; circa 4 miliardi per il terremoto in Abruzzo; 150 milioni per gli interventi dell'Istituto di sviluppo agroalimentare amministrato dal leghista Nicola Cecconato; 50 milioni per gli interventi nelle zone franche urbane; 100 per interventi di risanamento ambientale; 220 di contributo alla fondazione siciliana Rimed per la ricerca biotecnologica e biomedica.

Senza fondo.

Ma la vera sagra della dissipazione si consuma all'interno del fondo Infrastrutture (12 miliardi 356 milioni di dotazione iniziale) dove il Sud vede poco o niente. Le sue dotazioni se ne vanno per mille rivoli a coprire i più svariati provvedimenti governativi: 900 milioni per l'adeguamento dei prezzi del materiale da costruzione (cemento e ferro) necessario per riequilibrare i rapporti contrattuali tra stazioni appaltanti e imprese esecutrici dopo i pesanti aumenti dei costi; 390 per la privatizzazione della società Tirrenia; 960 per finanziare gli investimenti del gruppo Ferrovie dello Stato; un altro miliardo 440 milioni per i contratti di servizio di Trenitalia; 15 milioni per gli interventi in favore delle fiere di Bari, Verona, Foggia, Padova. 
Ancora: 330 milioni vanno a garantire la media-lunga percorrenza di Trenitalia; 200 l'edilizia carceraria (penitenziari in Emilia Romagna, Veneto e Liguria) e per mettere in sicurezza quella scolastica; 12 milioni al trasporto nei laghi Maggiore, Garda e Como. Pesano poi sul fondo Infrastrutture l'alta velocità Milano-Verona e Milano-Genova; la metro di Bologna; il tunnel del Frejus e la Pedemontana Lecco-Bergamo. E poi le opere dell'Expo 2015 che comprendono il prolungamento di due linee della metropolitana milanese per 451 milioni; i 58 milioni della linea C di quella di Roma; i 50 per la laguna di Venezia; l'adeguamento degli edifici dei carabinieri di Parma (5); quello dei sistemi metropolitani di Parma, Brescia, Bologna e Torino (110); la metrotranvia di Bologna (54 milioni); 408 milioni per la ricostruzione all'Aquila; un miliardo 300 milioni a favore della società Stretto di Messina. E non per le spese di costruzione della grande opera più discussa degli ultimi 20 anni, ma solo per consentire alla società di cominciare a funzionare.


http://m.espresso.repubblica.it/palazzo/2010/05/10/news/scippo-al-sud-1.21161?fbclid=IwAR1go6guvOzUrGraTjAoe3W0Pkvvp8GPNUQZBr5_j7khb16gfqrAiI8XIRY

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa). - Martina Castigliani

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa)

Il dialogo tra 5 stelle e Partito democratico si è incagliato sulla figura che dovrebbe guidare l'esecutivo giallorosso. Per i 5 stelle il presidente del Consiglio uscente è e rimane l'opzione più seria e quella capace di far partire un progetto di legislatura. Il segretario dem però non è convinto e, anche andando contro i suoi, insiste per cercare un nome terzo. Anche per questo ha buttato nel flusso di queste ore l'ipotesi Fico. Ma sa che corre il rischio di spaccare definitivamente il fronte avversario e far naufragare l'accordo.
“Giuseppe Conte non si tocca”. “Tutto ma non Giuseppe Conte”. Si è bloccata qui la trattativa tra Movimento 5 stelle e Pd, nel punto dove sarebbe stato più facile che si bloccasse: il nome del presidente del Consiglio di un futuro governo giallorosso. E’ il vicolo cieco che i pontieri hanno cercato di evitare il più a lungo possibile, ma nel quale i partiti, consapevolmente o meno, si sono infilati dopo poche ore. “Così non si va da nessuna parte”, commentano a mezza voce nei corridoi. La figura di chi dovrà guidare la futura squadra, se mai vedrà la luce, è il cappello di un progetto che entrambe le parti devono riuscire a far digerire ai propri elettori. Non è solo un garante, è il volto politico che dà legittimità al grande cambio di schieramento e nessuno è disposto a fare un passo indietro. Nessuno, soprattutto, è in condizione per farlo a cuor leggero. I 5 stelle stanno in trincea e da lì non si muovono: l’avvocato lo hanno voluto loro e, grazie alla spinta pubblica di Beppe Grillo, è anche l’unico che per ora mette tutti d’accordo (eletti e base di attivisti). Il Partito democratico è ancora più in difficoltà: i parlamentari, non solo i renziani, rifuggono le urne e sono pronti ad accettare Conte, ma il segretario Nicola Zingaretti (con il sostegno del fronte Gentiloni) insiste nel mettere il veto. Anche a costo di far saltare il tavolo. Le fonti M5s dicono che ora Luigi Di Maio si prende tempo per aspettare che i dem elaborino l’ultimatum su Conte e qualsiasi altra alternativa sarebbe difficile da digerire; le fonti Pd prima replicano dicendo che sono i 5 stelle a dover pensare ad un altro nome. Poi buttano sul tavolo la carta: Roberto Fico, presidente M5s della Camera. Sembra la via per uscire dal vicolo cieco, ma il rischio è che sia la strategia perfetta per farli schiantare: non solo è un “ni” per il Pd, ma divide pure i grillini (e men che meno piace a Di Maio). Insomma, per non sbagliare, non si muove nessuno. E intanto il tempo scorre. Sergio Mattarella martedì farà partire il secondo e, molto probabilmente, ultimo giro di consultazioni e i partiti dovranno farsi trovare pronti con un nome. L’irritazione del capo dello Stato di fronte alla sfilata di esponenti politici incapaci di trovare un’intesa è stata chiara al termine del primo round e nessuno riuscirà a strappare una terza occasione.
La carta Roberto Fico – L’idea è cominciata a circolare nel tardo pomeriggio di ieri e porta la firma degli zingarettiani. “Se proponiamo il loro presidente della Camera, come possono rifiutare”, è il ragionamento. “Pensano sempre che siamo un partito come gli altri”, è il commento che arriva dai vertici M5s. “E che questa sia una trattativa da vecchia Repubblica”. Non lo è, soprattutto perché le mosse per ora restano caotiche e poco organizzate. “Fico buttato così nel mucchio”, fanno sapere i grillini, “è un altro modo per bruciare i ponti”. Cosa non convince il fronte M5s? Intanto la resistenza di Di Maio. E’ stato lui il primo a far sapere, al momento dell’avvio delle trattative, che su Fico leader non avrebbero dato il via libera. Era tre giorni fa, che a livello politico equivale a dire un’epoca fa. Ma difficile che il capo politico abbia cambiato idea così in fretta, soprattutto perché in tanti, tra i 5 stelle, ritengono che non sia il nome che può convincere la base all’accordo. Sarebbe la scelta naturale (profilo, stima istituzionale e capacità di dialogo con il Pd), ma Zingaretti sa bene che è invece la strada che può spaccare il mondo grillino definitivamente.
La trincea M5s – Per i 5 stelle in questi momenti di confusione c’è una sola bussola da seguire: la parola di Beppe Grillo. Il fondatore che si era fatto da parte e taceva da mesi ormai, è tornato in campo e non solo ha chiesto un accordo con il Partito democratico, ma ha scritto un post per sostenere l’ex premier. Un endorsement arrivato nel momento più critico, mentre da una parte Luigi Di Maio rialzava la posta e Alessandro Di Battista chiedeva di tenersi pronti al ritorno alle urne. Secondo alcuni una strategia coordinata per mettere pressione al Partito democratico, secondo altri, semplicemente, i tentativi scomposti di tenere aperte più strade possibili. La vera preoccupazione è come spiegare ai propri attivisti la necessità di sedere al tavolo con il Pd, poche settimane dopo aver loro fatto accettare il decreto Sicurezza bis. E soprattutto dopo anni che i democratici (Matteo Renzi in primis) sono additati come nemici pubblici. L’eventuale accordo infatti, dovrà per forza passare dalla piattaforma Rousseau per avere il via libera degli iscritti del Movimento. Ecco, proprio quel passaggio, se non dovesse avere la faccia di Conte sopra, rischia di essere più difficoltoso del previsto. C’è poi da fare i conti con le ambizioni interne dei vari esponenti: Di Maio sa che il Pd potrebbe chiedere la sua testa, senza dimenticare che lui stesso è già al secondo mandato e non è detto possa avere una deroga se si tornasse al voto; Di Battista punta alle urne dall’inizio della crisi o almeno spera di tornare ad avere un ruolo istituzionale per poter avere più peso sulla linea del Movimento; il gruppo parlamentare vuole evitare le urne a tutti i costi per il rischio di non essere più candidato. Nell’ombra, cercando di proteggere il suo ruolo super partes da presidente della Camera, si muove appunto Fico: non parla ma coltiva i contatti con i democratici. E Zingaretti, proprio come si aspettavano in tanti, ha scelto proprio lui per buttare altri nomi nel fuoco delle trattative. “Si rassegni chi vuole andare alle urne”, ha detto uno dei suoi protetti, il deputato Giuseppe Brescia, “Di Maio ha ricevuto mandato pieno dall’assemblea, lasciamolo lavorare in silenzio”.
La guerra interna del Pd- Di quello che avviene dentro il Pd in queste ore, ci sono almeno due versioni. La prima, quella che in teoria dovrebbe essere considerata ufficiale, viene dallo staff di Nicola ZingarettiIl segretario venerdì sera ha avuto un confronto “cordiale” con il leader Di Maio. I colloqui tra i capigruppo sul programma sono stati “costruttivi” e non sono emersi “ostacoli insormontabili”. Ma, c’è un “ma” molto grosso e si chiama, appunto, Giuseppe Conte. Gli zingarettiani assicurano che il segretario non vuole far passare il nome del premier uscente perché non sarebbe accettabile per i suoi: rappresenta il passato e il governo gialloverde. Su questo, dicono le stesse fonti, ci sarebbe anche l’intesa con Renzi. Addirittura, la terza via, ovvero l’idea di proporre Fico, avrebbe già il via libera di tutte le correnti democratiche. La seconda storia invece, la raccontano i renziani e l’ala sinistra (quella che guarda ad Andrea Orlando e agli ex Ds). Conte va bene a tutto il gruppo parlamentare Pd, che per la maggior parte è pronto ad accettare l’intesa. Insomma, non pensano che sia il grande statista, ma non vedono alternativa che, in così pochi giorni, possa mettere d’accordo tutti e soprattutto sembra la soluzione migliore in chiave anti Salvini. Tesi confermata dallo stesso Renzi sabato sera, dopo le parole di Conte che ha escluso un suo ritorno con la Lega. Il discorso in Senato, affrontato facendo leva sulla Costituzione, ha dimostrato che per il momento l’avvocato può essere lo scudo all’avanzata della destra. Lo dicono i renziani, ma non solo, lo dicono in tanti, anche tra ex ministri dei governi Renzi e Gentiloni e intellettuali di riferimento dell’ala sinistra. E sempre loro, raccontano diverse fonti qualificate a ilfattoquotidiano.it, si chiedono come mai Zingaretti insista sul veto a Conte, senza che nel mandato votato all’unanimità dalla direzione Pd, si fosse mai fatto esplicito riferimento al nome del premier. Insomma, nessuno ha dato il via libera al segretario a mettersi di traverso esplicitamente su questo punto. Anche l’idea Fico lascia tiepidi: il volto forte c’è già e le altre opzioni sembrano proposte per far naufragare le trattative (soprattutto se, come dicono, Zingaretti farà direttamente quel nome al capo dello Stato). La convinzione del leader è dall’inizio e rimane, che per il Pd sarebbe meglio andare alle urne e fare la campagna elettorale come fronte contro l’avanzata delle destre. Una posizione legittima, ma che non è condivisa, questa sicuramente no, all’unanimità. Specie da chi rischia seriamente il posto in Parlamento. Eccolo il vicolo cieco. Lo è per i 5 stelle. Ma pure per i democratici. E, se non trovano l’intesa, a Mattarella non resterà che rimandare tutti a elezioni anticipate.

Salta la giuntura di un ponte sulla statale Agrigento-Caltanissetta: danni ad auto.

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Foto Grandangolo Agrigento

Numerose auto hanno subito danni ieri sera a causa del movimento di un giunto su un viadotto della statale 640 Agrigento-Caltanissetta, nel territorio comunale di Racalmuto. Il giunto ha creato un gradino sulla sede stradale e al buio non era visibile. Le auto hanno riportato danni prevalentemente alle gomme e ai cerchioni.

Sul posto sono intervenuti polizia stradale, carabinieri e Anas (che gestisce l’arteria). Gli automobilisti saranno risarciti su richiesta e presentazione dei giustificativi di spesa. Non si registrano danni a persone.

La statale 640 è stata recentemente battezzata la «Strada degli scrittori» perché attraversa luoghi che hanno dato i natali a importanti nomi della letteratura come Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Un tratto dell’arteria - che presenta numerosi viadotti e doppia corsia - è stato inaugurato nella primavera del 2017.

https://agrigento.gds.it/articoli/cronaca/2019/08/25/salta-la-giuntura-di-un-ponte-sulla-statale-agrigento-caltanissetta-danni-ad-auto-51560b8b-3607-4794-af7e-9d1a29742adb/?fbclid=IwAR0424BAXLucmvYUu3gWJf-wXqnV_pL3gS3fDXNV70rSjqEP-5CGW2_Tiok


Mi domando, a fronte delle salatissime tasse che paghiamo, che cosa ci foriniscono?

«Alexa, quanto fa 327 diviso 3?». I compiti ai tempi dell’assistente virtuale. -Francesca Milano



Sempre più studenti ricorrono ad app e ad altri dispositivi tecnologici per svolgere gli esercizi a casa. E si riapre il dibattito sull’utilità o meno dello studio fuori dagli orari di lezione.


«Alexa, quanto fa 327 diviso 3?». Altro che divisioni in colonna e calcoli a mente. Oggi i compiti si fanno con la tecnologia. Anzi, si fanno fare alla tecnologia. Il che riapre il dibattito sulla loro efficacia. Servono ancora? Oppure è inutile fingere di esercitarsi sulle operazioni matematiche se per avere il risultato basta chiedere aiuto a un dispositivo e per tradurre la versione di latino basta cercare online? Il dibattito è aperto.
Si potrebbe obiettare che da quando i docenti hanno inventato i compiti a casa, gli studenti hanno trovato il modo di alleggerire l’onere, sempre grazie agli strumenti tecnologici. Un tempo ci si dettavano gli esercizi per telefono, oggi ce li si fa dettare dall’assistente virtuale.
Esistono siti e app che contengono le risposte alle domande di tutte le materie che si studiano in ogni ordine e grado scolastico. E addirittura si può copiare senza leggere, risolvere gli esercizi di matematica fotografando la pagina del libro o ancora farsi leggere dall’assistente virtuale un testo. E poi ci sono le app per condividere i compiti e farsi dare una mano da chi è più bravo, o ancora le app che spiegano in maniera sintetica i principali concetti di storia, filosofia e letteratura.
«Tutto questo dimostra che i compiti a casa sono inutili - spiega Maurizio Parodi, dirigente scolastico e autore del libro “Così impari: Per una scuola senza compiti” -, anzi sono dannosi: l’unico effetto che sortiscono è la repulsione per lo studio e il rifiuto del libro, che viene visto come strumento di tortura».
Secondo Parodi è a scuola che bisogna imparare, non a casa. Come avviene in Finlandia, per esempio, dove i compiti sono stati aboliti ma allo stesso tempo (o forse proprio grazie a questo?) il livello di istruzione è tra i più alti. «La Francia - racconta Parodi - sta sperimentando lo studio accompagnato, strumento utile per evitare le disuguaglianze sociali causate proprio dai compiti». Infatti, secondo Parodi, i bambini svantaggiati a scuola, lo sono doppiamente se a casa non possono contare sull’aiuto dei genitori.

sabato 24 agosto 2019

Soldi della Lega, ecco i documenti che incastrano Matteo Salvini. - Giovanni Tizian e Stefano Verde

Soldi della Lega, ecco i documenti che incastrano Matteo Salvini

Una lettera di diffida. Un file del Senato. E i rendiconti interni al partito. Pubblichiamo le carte che smentiscono la versione del ministro sullo scandalo che fa tremare il Carroccio.

È un processo politico, che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». Matteo Salvini si è difeso così dall'accusa di aver beneficiato dei quasi 50 milioni di euro frutto della truffa firmata Bossi e Belsito. La tesi del ministro è quindi semplice: tutta colpa del vecchio leader, io non c'entro niente. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano invece che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori.

Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Il nostro giornale lo aveva già scritto in una lunga inchiesta nell'ottobre 2017. Qui sotto riprendiamo alcuni stralci di quell'articolo e pubblichiamo i documenti che dimostrano quanto da noi ricostruito già dieci mesi fa.

Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.

A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’ex governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie.


Da questo momento in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro in nome della Lega. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato.

Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Lo dimostrano i mastrini, i registri contabili del partito che L'Espresso è riuscito a ottenere. Perché allora il segretario della Lega continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E come poteva non sapere che erano frutto di truffa?

Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010. 
Due giorni dopo l’ultimo prelievo, Salvini riceve persino una lettera (inviata anche al tesoriere Giulio Centemero) dall'allora avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.
http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/07/04/news/soldi-lega-la-lettera-che-incastra-salvini-1.324561?fbclid=IwAR00zvWRbdhjWs3T85Clbk0BAODvUdTw4SV1R4I4UUFIbFyEgtO2Zep4ZSw

venerdì 23 agosto 2019

Mutande di ghisa. - di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 23 Agosto

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Che il Pd non fosse un partito, ma un manicomio, era noto, anche se dopo un anno passato a parlare di Salvini molti l’avevano dimenticato. Ora però è bastato che i riflettori tornassero a illuminarlo per rammentarlo anche ai più distratti. Basti pensare che per due anni nessuno in quel partito osava aprire il benché minimo spiraglio ai 5Stelle, per paura di essere fucilato sui social da Renzi&renzini: gli stessi che adesso fulminano chiunque rifiuti di spalancare le porte ai 5Stelle. Perciò non vorremmo essere nei panni di Di Maio che, dopo mesi di sevizie salviniane, ora rischia la labirintite all’inseguimento delle varie correnti pidine. Né in quelli di Mattarella, al cui cospetto ieri Zingaretti e Delrio sono riusciti a dire l’uno il contrario dell’altro. Trattare col Pd è come trattare con la Libia: fai l’accordo con Al Sarraj, poi scopri che non controlla neppure la scala del palazzo presidenziale perché quella è presidiata da Haftar, però il tetto è occupato dalla milizia di Misurata, peraltro assediata dal capotribù dei Warfalla, diversamente dalle cantine contese dai clan Gadadfa e Magharba. Così uno o se li compra tutti, o si spara.

Ieri Di Maio ha illustrato i suoi 10 punti, un po’ più precisi dei 5 di Zingaretti. Belli o brutti, sono molto più di sinistra del Pd e non nascondono veti. Invece il buon Zinga, dopo aver sciorinato il programma esistenziale di Miss Italia (manca solo la pace nel mondo), ha fatto trapelare il veto su Conte premier e attaccato il taglio dei parlamentari: due dita negli occhi del promesso sposo, che notoriamente vuole anzitutto Conte premier e meno casta. E infatti Renzi, che ha costretto il Pd alla giravolta, accetta sia Conte sia il taglio. Ora, delle due l’una: o Zinga vuol far saltare la trattativa per andare alle elezioni e garantirsi un bel quinquennio di opposizione parolaia a Salvini con gruppi parlamentari di fiducia, e allora la scelta di stracciare le due bandiere M5S ha un senso; oppure pensa che in un governo che nasce nello spirito del proporzionale debba comandare chi ha 163 parlamentari su chi ne ha 339, e allora ha sbagliato i suoi calcoli. Se mai Di Maio e “i Pd” si incontreranno, si capirà se i veti sono roba seria o le solite fumisterie politichesi. Ma al posto di Di Maio ci muniremmo di mutande di ghisa e cammineremmo rasente ai muri. Se il M5S non vuol proprio suicidarsi, fra un governo modello Libia e il voto subito, ha molto meno da perdere dalla seconda opzione. L’occasione d’oro di sfidare un Salvini in stato così comatoso e confusionale (ora vuole un governo uguale a quello che ha appena affossato), magari con Conte candidato premier, non durerà in eterno.