giovedì 5 dicembre 2019

Prescrizione, La Repubblica degli impuniti: da Andreotti a Berlusconi al caso Eternit. Ecco l’antologia di chi l’ha fatta franca.


Prescrizione, La Repubblica degli impuniti: da Andreotti a Berlusconi al caso Eternit. Ecco l’antologia di chi l’ha fatta franca

Pubblichiamo una sintesi del libro La Repubblica degli impuniti, edito da PaperFirst, a firma del direttore del Fattoquotidiano.it, Peter Gomez, e delle giornaliste Valeria Pacelli e Giovanna Trinchella. Da oggi in edicola e in libreria.
L’elenco di chi, negli ultimi venticinque anni, l’ha fatta franca grazie alla prescrizione è lungo, impossibile da riassumere e impressionante. E racconta, più di un trattato, perché in tanti si oppongono alla riforma. Ci sono, ad esempio, oltre Andreottiil proprietario di Mediaset ed ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (per reati che vanno dal finanziamento illecito al falso in bilancio fino alla corruzione); l’ex editore de La Repubblica Carlo De Benedetti (corruzione nelle forniture pubbliche); l’industriale Giampiero Pesenti, presidente negli anni Novanta del patto di sindacato del Rizzoli-Corriere della Sera (corruzione); due uomini chiave per la Fiat, come Franzo Grande Stevens e Gian Luigi Gabetti (agiotaggio Ifil-Exor); l’ex numero uno di Eni e Enel, Paolo Scaroni (disastro ambientale); il multimilionario svizzero Stephan Schmidheiny (morti Eternit a causa dell’amianto); il potente finanziere Fabrizio Palenzona (conti esteri non dichiarati); l’ex padrone del calcio italiano Luciano Moggi (associazione per delinquere); il presidente della Lazio e imprenditore nel settore vigilanza e pulizie Claudio Lotito (associazione per delinquere e fatture false più un processo per frode sportiva); quasi tutti i più importanti costruttori romani accusati di aver pagato tangenti per vendere immobili agli enti pubblici: dall’editore de Il Messaggero Francesco Gaetano Caltagirone a quello del Il Tempo Domenico Bonifaci, da Pietro Mezzaroma, fino a Renato Bocchi e Elia Federici.
Rappresentano il meglio (ma per alcuni il peggio) delle élite del Paese. A volte controllano giornali, televisioni, siti internet. A volte li foraggiano con le loro campagne pubblicitarie. Sempre, o quasi, frequentano o hanno rapporti di amicizia con opinion leader e i politici che fanno le leggi. I loro legali vengono eletti in Parlamento, dove per decenni quella dell’avvocatura è stata la categoria professionale più rappresentata, e dove di salvati dalla prescrizione ce ne sono sempre stati a bizzeffe.
Decine e decine di parlamentari ed ex parlamentari come Umberto Bossi (truffa aggravata sui rimborsi elettorali)Denis Verdini (corruzione), Alberto Tedesco (associazione a delinquere), Alfonso Papa (P4), Antonio D’Alì (concorso esterno in associazione mafiosa), Roberto Calderoli (resistenza a pubblico ufficiale). Una lista infinita che se si guarda alla politica viene allungata dai nomi di sindaci, consiglieri regionali, governatori, attivisti e persino da quello di Beppe Grillo (violazione dei sigilli durante una manifestazione No Tav) il cui Movimento però si è battuto e ha approvato una legge, ora osteggiata da quasi tutti i partiti, per abolire il colpo di spugna deciso in base al calendario.
La prescrizione è insomma stata per anni la palla in corner delle classi dirigenti. Se proprio le cose andavano male, se addirittura avevi ammesso nel corso delle indagini preliminari il tuo reato, o le prove erano evidenti, grazie al codice, ai buoni avvocati e ai tribunali ingolfati dai processi potevi sempre sperare di farcela. Perché l’inesorabile scorrere del tempo giocava per te. Era tutto dichiarato, sfrontato, alla luce del sole.
Come avrebbero scoperto, loro malgrado, i cittadini nel 2005, quando il governo Berlusconi vara una riforma destinata a mettere in ginocchio la già malandata Giustizia per anni. Una riforma che di fatto dimezza i tempi di prescrizione, ma solo per gli incensurati. Condizione in cui di solito si trovano i colletti bianchi che finiscono alla sbarra. In quel 2005 il problema maggiore per Berlusconi è rappresentato dai processi per corruzione giudiziaria (il caso “Toghe sporche”) per i quali è stato condannato in primo grado il deputato Cesare Previti, storico avvocato civilista dell’allora Cavaliere. Le condanne di Previti rischiano di essere confermate in Appello e, se lo fossero pure in Cassazione, gli spalancherebbero le porte del carcere. Ecco dunque approdare alla Camera la legge Cirielli – che prende nome dal deputato di Alleanza Nazionale Edmondo Cirielli –, nata per inasprire le pene per i condannati recidivi. Una legge ispirata alla «tolleranza zero» contro la criminalità. Ma una manina furtiva decide di agganciarvi un codicillo che di fatto dimezza i termini di prescrizione per chi non ha altre condanne definitive: per la corruzione, ad esempio, la scadenza massima scenderebbe da quindici a sette anni e mezzo, anche senza le attenuanti generiche.
In pratica, se la legge passa, tutti i reati di cui sono accusati Previti, e in altri processi, lo stesso Berlusconi rischiano di essere già prescritti da tempo. Gli esperti però prevedono una falcidia di migliaia di dibattimenti per reati contro la pubblica amministrazione e anche per delitti “comuni”. Cirielli ritira la sua firma dal ddl che, spiega, è stato completamente snaturato: “Per aiutare Previti salvano i veri delinquenti” (come se chi corrompe i giudici non fosse un vero delinquente). E annuncia voto contrario. Il nuovo relatore della “ex Cirielli” sarà il forzista Luigi Vitali, un avvocato pugliese eletto a Francavilla Fontana che, per premio, diventerà presto sottosegretario alla Giustizia. Intervistato da “La Repubblica”, dopo aver ammesso di evadere le tasse (“Guadagno 220 mila euro dichiarati. Extra in nero? Condonati”), Vitali parla della legge salva-Previti che tutti, a cominciare da Previti, negano esser fatta apposta per Previti: “Non nego che la legge in qualche modo possa servire a Previti”. E rivela che l’amico Cesare se n’è interessato personalmente: “Una volta Previti mi ha chiesto: ‘Hai messo mano a questa cosa?'”. Anche Berlusconi l’ha chiamato: “Si è voluto informare sulla qualità di questa legge: ‘Molti giornali scrivono che è una porcheria’ mi ha detto ‘tu che ne dici?’ Io gli ho risposto: ‘Guarda, Presidente, è molto meno porca di quel che si dica’”. Rassicurato da quel “molto meno porca”, il premier l’ha incoraggiato: “Vai avanti”.
La Repubblica degli impuniti (Paper First), dal 5 dicembre in edicola e in libreria. Clicca qui per acquistarlo subito online.
Leggi anche:
Se la legge è uguale per tutti perché mantenere la prescrizione utilizzabile solo da chi ha tanti soldi per pagare gli avvocati?
E' anticostituzionale, oltre che illegale!! C.

La Lumaca di Mare che sembra una Foglia è l’Unico Animale che produce Clorofilla. - Matteo Rubboli

Lumaca Mare Foglia Clorofilla 1
Fotografia di Karen Pelletreau condivisa con licenza Creative Commons via Wikipedia.

Il mimetismo nel mondo animale è un’arma preziosa, utilizzata sia in fase di attacco sia come strumento di difesa, da moltissime specie. La Elysia chlorotica, una lumaca di mare a forma di foglia, era già nota nel mondo della ricerca per essere in grado di sfruttare la fotosintesi per il proprio nutrimento, ma una recente ricerca a cura dell’università della Florida ha spiegato che non solo la lumaca è in grado di trattenere i cloroplasti delle alghe di cui si nutre, ma che possiede alcuni geni dell’alga stessa incorporati all’interno del proprio DNA.

Grazie a questa combinazione di caratteristiche biologiche, la piccola Elysia chlorotica è il primo animale scoperto in grado di produrre la clorofilla come una pianta, e sfruttare quindi il sole in modo analogo ad un vegetale per produrre l’energia necessaria alla vita.

Già nel 1970 gli scienziati avevano scoperto che la lumaca era in grado di acquisire i cloroplasti della Vaucheria litorea, l’alga di cui si nutre, e che era in grado di trattenerli all’interno del proprio complesso sistema digerente. Sino ad oggi però, nessuno era stato ancora in grado di comprendere il meccanismo per cui i cloroplasti venivano trattenuti dalla lumaca per lunghissimi periodi. Lo studio dell’Università della Florida ha spiegato che i cromosomi della lumaca contengono i geni che codificano le proteine dei cloroplasti acquisiti dalle alghe.

Ogni lumaca deve, quindi, mangiare i cloroplasti dalle alghe, ma è già dotata dei geni necessari a farli funzionare con il meccanismo della fotosintesi clorofilliana.

La lumaca infatti è di colore bruno/rosso durante la giovane età, e diventa di colore verde durante l’età più adulta. La Elysia chlorotica deve infatti acquisire con il tempo i cloroplasti che le donano il color verde smeraldo tipico delle foglie, ma ha già i geni nel DNA che le consentono di processarli correttamente. Questo sistema le consente di utilizzare la fotosintesi per un periodo fino a 10 anni dopo essersi nutrita.

https://www.vanillamagazine.it/la-lumaca-di-mare-che-sembra-una-foglia-e-l-unico-animale-che-produce-clorofilla/

Luoghi ed immagini che invitano a sognare.





martedì 3 dicembre 2019

Conte vs. Salvini e Di Maio... Il Mes fa scoppiare il M5S. - Luca De Carolis

Conte vs. Salvini e Di Maio Il Mes fa scoppiare il M5S

Distanza - Nelle informative alle Camere il premier bastona la Lega ma non risparmia il numero 1 dei 5Stelle. In serata smorza i toni: “Comprensibile che Luigi parli di criticità”.

Alle sette della sera di un lunedì che sembra una porta sulla fine, e dopo due informative alle Camere su quel Mes che la porta l’ha spalancata, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si decide a citare Luigi Di Maio. Cioè il ministro degli Esteri e capo politico dei Cinque Stelle, che a Montecitorio si siede alla sua sinistra e lo ascolta, immobile, e invece a Palazzo Madama no, neanche si fa vedere. “Di Maio ha espresso delle criticità sul Mes per conto del Movimento ma in un negoziato così complesso è pienamente comprensibile” assicura Conte. Ma i discorsi alle Aule erano contro di lui? “Assolutamente no” giura per forza il presidente. Così gli chiedevano di dire gli sherpa di Palazzo Chigi e Farnesina, palazzi che sono fronti contrapposti. E c’è tutta, quella distanza, nelle informative a Camera e Senato del premier che, certo, con la sua valanga di parole (26 pagine) demolisce innanzitutto il solito nemico, Matteo Salvini. “La disinvoltura e la resistenza a studiare i dossier di Salvini mi sono ben note” morde subito.
Però il bersaglio più rumoroso è quello di cui Conte non fa nome e cognome, quel Di Maio che gli siede accanto. “Alle riunioni sul fondo salva stati ministri e viceministri c’erano” ricorda il premier, sciorinando date e passaggi. Alla sua destra il ministro dell’Economia, il dem Roberto Gualtieri, annuisce: alla sua sinistra Di Maio pare di sale. Perché tra i ministri che non rammentano c’è pure lui, ex vicepremier. Anche se Conte se la prende prima di tutto con l’opposizione: “Sta dando prova di scarsa cultura delle regole e mancanza di rispetto per le istituzioni”.
Ma dà una sberla anche al M5S, quando afferma che il Mes è “a vantaggio di tutti”. E saluti al capo del M5S, che da giorni lo ripete: “Sull’accordo c’è molto da rivedere, va migliorato”. Logico che a Di Maio non piaccia il discorso di Conte. E a Palazzo Chigi i suoi lo fanno sapere in tempo reale. Tanto che si discute di una correzione, ossia dell’inserire qualche parola a favore del capo e dei 5Stelle nel discorso a Palazzo Madama. Però non è usanza modificare l’informativa nel passaggio da una Camera all’altra. E forse l’avvocato non ha voglia di farlo. Di certo ci sono le facce scure dei grillini. “Così com’è per noi il Mes è invotabile, il rinvio è il minimo sindacale” ringhia il deputato Raphael Raduzzi, uno dei due 5Stelle che voleva presentare una mozione contro il vecchio fondo salva stati.
L’altro è l’ex sindaco di Mira, Alvise Maniero: “Mi accusano di essere filo-leghista, ma è una sciocchezza. La verità è che noi siamo sempre stati contro il Mes”. Qualche metro più in là, un paio di grillini di governo: “Conte e Di Maio ormai nelle riunioni si parlano tramite battute, hanno fatto così domenica”. Cioè nel vertice di maggioranza che è andato male, più o meno come il dialogo tra i Palazzi a 5Stelle. Così alle 15 in Senato Di Maio non si fa vedere. E assieme a lui marcano visita un bel po’ di grillini, 35. “Se il governo può cadere sul Mes? Magari…” scandisce Gianluigi Paragone. Attorno a lui, volti da tutti a casa. “Se dobbiamo continuare così forse è meglio chiudere ora” sibila un veterano. Stanco, grosso modo come il Dario Franceschini che ascolta con aria plumbea Conte dai banchi del governo. Un altro frammento che dice molto. Invece il senatore romano Emanuele Dessì si schiera: “Il merito di questa vicenda si può discutere, ma il metodo è ineccepibile, ed è quello di Conte”. In Aula il premier ripete la sua verità, ma poi arriva Salvini, in facile contropiede: “Condivido le richieste del gruppo M5S, vogliamo capire”. Un bacio al cianuro, o magari no. Perché il sospetto che riemerge tra i dem è che Di Maio e Salvini abbiano tanta voglia di riabbracciarsi.
Un cattivo pensiero che ritorna anche tra i 5Stelle (un auspicio, per alcuni), mentre Salvini infierisce: “Presidente, guardi quanti banchi vuoti nella maggioranza, io mi preoccuperei”. Conte però ha un’altra urgenza, rassicurare Di Maio. Così ecco le frasi serali, a cui segue la replica del capo politico: “Il premier ha messo a tacere le falsità diffuse dalle opposizioni, e abbiamo apprezzato la posizione circa la logica di pacchetto come richiesto ieri al vertice di maggioranza dal M5S”. E comunque la riforma “presenta criticità evidenti”.
Per questo, Di Maio riunisce i suoi ministri e dà mandato ai capigruppo e alla sottosegretaria agli Affari europei Laura Agea di lavorare alla risoluzione sul Mes, da presentare in Parlamento l’11 dicembre come documento di tutta la maggioranza. Ma sarà maledettamente complicato. Per Di Maio, per i 5Stelle e per tutto il governo, quello di Conte.

Si gioca con la faccia del Paese. - Gaetano Pedullà



Si era partiti con le accuse di alto tradimento dello Stato fatte da Matteo Salvini e Giorgia Meloni e si è terminato con il presidente leghista della Commissione Finanze del Senato, Alberto Bagnai, che si arrampicava sugli specchi per mettere in imbarazzo il premier Giuseppe Conte riferendosi a una nuova inchiesta delle Iene sui rapporti di molti anni fa tra l’attuale premier e il suo maestro nella professione di avvocato, Guido Alpa. Vabbè, da giorni si era capito che la riforma del Meccanismo europeo di stabilità era solo l’ultimo disperato tentativo delle forze sovraniste per attaccare il Governo e in particolare il Presidente del Consiglio, ormai diventato l’arcinemico di un sempre più rancoroso leader del Carroccio, surclassato per affidabilità dalla più coerente presidente di Fratelli d’Italia. Che però una montagna di accuse ripetute per giorni finisse addirittura in farsa, agitando lo spauracchio delle Iene, non era affatto prevedibile.
Purtroppo per i rottweiler della Destra, Conte ha letteralmente demolito la ricostruzione di un trattato europeo condotto all’insaputa del Parlamento e dell’Esecutivo, allegando copiosa documentazione e una quantità di prove che se ci fossimo trovati in un processo avrebbero portato alla completa assoluzione dell’accusato e quanto meno al ricovero in una gabbia di matti per l’accusatore. Quando in questi casi non c’è più niente da fare e la frittata è finita rovinosamente a terra, lo stolto cerca scuse mentre il saggio chiede scusa. Ma di saggezza in questa stagione della politica italiana se ne vede così poca da farci apparire illuminate le sardine, un movimento che se non altro ha il pregio di ricordarci quanta parte del Paese sia delusa e confusa dai partiti, di cui infatti vieta nelle sue piazze l’ingresso alle bandiere.
Dunque Salvini, Meloni e compagnia imbrogliando continueranno a raccontarci che il Fondo Salva Stati in realtà (la loro) è un Fondo Salva banche tedesche, e Conte di nascosto da tutti ha promesso di metterci dentro 125 miliardi – pinzillacchere – per salvarsi la poltrona. La teoria, insomma, di una tangentona allungata alle cancellerie estere in cambio delle pressioni di quest’ultime per farlo confermare a Palazzo Chigi. Per questo – si rimpallano su Facebook i leghisti più scaltri – il presidente americano Trump si è speso addirittura con un tweet per Giuseppi, mentre dalla Merkel a Macron era tutto uno spedire letterine di raccomandazione a Mattarella per blindare l’avvocato del popolo alla guida del Governo di Roma.
Un’ipotesi tanto strampalata da non tener conto che nei complessi equilibri tra Washington e Berlino (o Parigi) chi sta con gli americani non può stare anche con chi litiga con loro su dazi, web tax e multe antitrust. Agli elettori leghisti però questa storiella va bene lo stesso, e se avessero dubbi ecco che tutto il sistema televisivo gli ricorda la menzogna, sulla scia di quanto diceva Goebbels, cioè quello che oggi definiremmo lo spin doctor di Hitler: se racconti mille volte una bugia questa poi diventa una verità.
Così in casa nostra cresce l’incertezza, s’insinua il messaggio che la politica è tutta uguale, che Conte e i 5 Stelle sono cinici quanto i vecchi partiti, anzi di più, perché a differenza di chi occupa da decenni i Palazzi del potere il Movimento è stato votato alle ultime elezioni politiche da 11 milioni di italiani per spazzare via quel vecchio sistema. In questo modo la propaganda delle opposizioni mette nuova legna in cascina, a prezzo di far scadere la credibilità del Paese. Dalle istituzioni europee ai mercati, nessuno dovrebbe permettersi di dire pio sull’Italia, tra i maggiori contributori netti e puntualissima nell’onorare tutti gli impegni finanziari, ma a furia di inventarci giochetti tipo i mini bot per pagare la spesa corrente delle pubbliche amministrazioni, accarezzare il pelo all’uscita dall’euro o promettere manovre senza copertura per decine di miliardi (almeno cinquanta solo per fare la flat tax) poi i mercati ci prendono per lo scemo del villaggio, e come tale ci trattano.
Invece siamo un grande Paese e la linea del Movimento recepita da Conte e Gualtieri per inserire la riforma del Mes dentro una nuova architettura complessiva dell’Europa può portarci benefici. Prima ancora che sul Fondo Salva Stati – un ombrello da aprire quando ormai diluvia – su tutti gli altri piani in cui l’Italia è penalizzata nel suo rapporto con Bruxelles.

Luoghi di delizia.





Renzi, per lui 40mila euro a conferenza. E’ top secret la lista delle destinazioni. - Luigi Franco e Thomas Mackinson

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ESCLUSIVO, L'ANTICIPAZIONE DI FQ MILLENNIUM IN EDICOLA DAL 14 DICEMBRE - Leader politico e oratore a pagamento: il tariffario delle sue agenzie. I nostri cronisti hanno finto di organizzare una conferenza, richiedendo l'intervento del leader di Italia Viva.
Per avere Matteo Renzi? “Forty thousand euros. Quarenta, qu-a-tro siii-ro”, scandiscono al telefono dalla Pro Motivate, una delle agenzie che propongono online l’ex premier come speaker. “Dovete contare anche un viaggio in business per una e a volte due persone”. Tanto costa ingaggiare il fondatore di Italia Viva a una conferenza che – facciamo credere all’interlocutore – sarà in programma l’anno prossimo a Barcellona, titolo “Populismo e dinamiche economiche”. Tema su cui Renzi – ci viene garantito – saprà dire la sua.
Del resto “politica globale, “affari correnti”, “finanza e tendenze future” sono solo alcuni degli argomenti elencati online di quello che è stato “il più giovane primo ministro in Italia e il più giovane leader del G7”. Analogo curriculum sponsorizza l’agenzia Chartwell Speakers, ma per “appena” 25mila euro. C’è un però: a sentire l’agente che risponde da Dublino, Renzi non è la scelta più azzeccata. Di conferenzieri che possano parlare di populismo ce ne sono altri, pure meno esosi: con 16mila euro, per esempio, ti porti a casa Anne Applebaum, un premio Pulitzer che “in quanto giornalista, e non politico, può affrontare il tema in modo più indipendente di Renzi”.
Dalla Chartwell quasi ci convincono, spendere tutti quei soldi per Renzi non conviene. È diventato troppo caro, più dei 20mila euro di cui parlava solo un anno fa Marina Leo, responsabile per l’Italia di un’altra agenzia che vende i suoi discorsi, Celebrity Speakers. “Sembrano tanti, ma la metà se ne va in tasse e lo speaker deve pagare le persone che mettiamo a disposizione, in quei soldi c’è pure il compenso dell’agenzia”, diceva alla stampa allora. Oggi che con i giornali non parla più, le si strappa solo: “È un’attività privata, non ha niente a che vedere con la sua attività di leader politico perché quando era primo ministro non poteva fare queste cose”.
Non c’entrerà la sua attività politica, ma è proprio questa ad averlo lanciato nel nuovo business. Il suo reddito dai 29mila euro dichiarati per il 2017 è salito a 830.000 euro nel 2018 e supererà il milione nel 2019. Dato per spacciato, non ha mai guadagnato tanto in vita sua. Dopo aver rottamato il Pd, Renzi è diventato una vera macchina da soldi. Altro che i 4.300 euro netti al mese percepiti come sindaco, i 6.700 che prendeva da Presidente del consiglio, ma anche i 14.634 che percepisce ora da senatore semplice.
Di quante conferenze parliamo? “Una cinquantina in due anni”, risponde il leader di Italia Viva. In media, un ingaggio ogni due settimane in giro per il mondo. Con viaggi e preparazione dei discorsi, sembra ormai un lavoro a tempo pieno, che però non lascia tracce. Non è infatti dato sapere dove sia stato di preciso, davanti a che pubblico abbia parlato, di cosa e chi l’abbia poi pagato. “La dichiarazione dei redditi è pubblica, la lista delle conferenze no”, taglia corto in uno dei messaggi che ci scambiamo nei giorni in cui la Finanza sta ricostruendo le vicende della sua fondazione Open. Dei suoi speech non c’è traccia nemmeno in rete o negli archivi dei giornali, al di là di qualche puntata a Pechino, Riad e poco altro.
A esplicita richiesta del calendario degli incontri, rivendica il diritto a non far sapere. “Capisco la vostra amarezza ma devo rispettare le regole di ingaggio”. Cioè? “Per molte conferenze vigono le regole Chatham house” dice, citando un impegno che dal 1927 vincola chi prende parte a certe riunioni a porte chiuse a non divulgare l’identità dei partecipanti. Gli incontri del gruppo Bilderberg ne sono un esempio.
Insistiamo, e non per curiosità morbosa. Fin dall’esordio nel 2018, la sua attività da oratore è fonte di polemiche. Come nel caso della visita a Riad di fine ottobre, dove al Future Investment Iniziative ha glorificato l’Arabia Saudita come “superpotenza, non solo nell’economia, ma anche nella cultura, nel turismo, nell’innovazione e nella sostenibilità”, sorvolando su bombardamenti allo Yemen e omicidio Khashoggi. Questione di opportunità, ma anche rischio di potenziale conflitto di interessi. Se va a Timbuctù o Washington pagato da industriali, fondi di investimento o lobby, lo fa privatamente o per conto del partito? “I compensi sono redditi personali, nulla va al partito”, dice Renzi. “Non c’è alcun conflitto di interessi tra l’attività di conferenziere e il ruolo di parlamentare. Né problemi di opportunità che invece ci sarebbero in caso di ruolo istituzionale come ministro in carica”. Tuttavia, a parlare non è un ex leader ma il capo di un partito che esprime due ministri e un sottosegretario, nonché 41 tra deputati e senatori.
Da qui, il legittimo sospetto. L’indomani di una “conference” in cui il loro leader è stato ospite (a pagamento) di un privato, saranno del tutto liberi e imparziali o subiranno qualche condizionamento? Anche la gestione dei soldi solleva punti di domanda. A maggio Renzi ha fondato la società Digistart, a settembre si è fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall’amico di sempre Marco Carrai, oggi indagato nell’inchiesta sulla fondazione Open.
Come mai quel fugace passaggio a cavallo del debutto di Italia Viva? “La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche – rivela -. Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell’annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica”. La Digistart, sottolinea, non ha fatturato nulla. Renzi, invece, continua a farlo. E con gran profitto.