domenica 12 luglio 2020

Le concessioni sono solo l’inizio. Ora il Paese può cambiare. - Gaetano Pedullà

AUTOSTRADE

A prendere sul serio quello che si dice su tutti i canali tv, l’Italia è spacciata. Nessuno è stato aiutato, a settembre ci saranno milioni di licenziamenti, e ovviamente il Governo dorme. Morale della favola: votate Salvini con Berlusconi e la Meloni, che toglieranno le tasse, ci libereranno dagli immigrati che rubano il lavoro agli italiani e tutti vivremo felici e contenti. Se però non crediamo agli asini che volano, è tutto un altro scenario quello che abbiamo di fronte. In un Paese con regole bizantine, indebitato da decenni di politiche di manica larga, per non parlare delle ruberie, mai si era fatto tanto per le fasce sociali più deboli, e mai si era messo con le spalle al muro il sistema come sta avvenendo con la concessione delle autostrade.
Per la propaganda delle destre, con il seguito dei loro giornalisti parolai, tutto questo è troppo poco, così come sono sempre pochi i miliardi erogati dall’Inps ai lavoratori autonomi e a chi è finito in cassa integrazione, sono pochi i miliardi che sta erogando il sistema bancario grazie alla garanzia pubblica, ed è poco il contributo a fondo perduto già accreditato alle imprese. Per chi ha un minimo di memoria e altrettanta onestà intellettuale non sarà difficile ricordare che storicamente in tutte le situazioni di crisi – terremoti, alluvioni o cicliche fasi di recessione – lo Stato ha sempre messo le mani in tasca agli italiani per prendere e mai per dare. Ma il livello delle opposizioni italiane è quello che è.
Prendiamo ad esempio gli Stati Generali dell’economia dove erano state invitate a dare un contributo di idee al Governo. Dopo aver frignato che la sede di Villa Pamphilj non gli piaceva, non si sono presentate per poi lamentarsi di non essere stati ascoltate. Il premier Conte allora le ha invitate di nuovo, e a quel punto la Lega ha risposto di averci ulteriormente ripensato e non andrà, Fratelli d’Italia ha accettato ma a condizione di trasmettere l’incontro in streaming e Forza Italia aspetta ancora ordini dai soci maggiori. Basterebbe questo per certificare quanto dobbiamo tenerci caro un Esecutivo che invece ha varato due manovre finanziarie gigantesche, si è dato da fare per non lasciare indietro nessuno e per trovare i soldi che ci servono in Europa.
Dove la maggioranza giallorossa, con tutte le sue contraddizioni e difficoltà interne, sta segnando però il gol decisivo è nell’affermare dopo decenni che lo Stato non è più il garage dei poteri forti, e per lor signori la pacchia è finita. Si comincia entro domani con i Benetton, che non sono più brutti e cattivi di altre decine di (im)prenditori privilegiati dalle privatizzazioni folli benedette da politici e lobby al loro servizio. Al momento non c’è ancora una decisione, ma a meno di sorprese le strade rimaste sono due. La prima prevede che i Benetton cedano il controllo di Autostrade per l’Italia o della holding Atlantia alla Cassa Depositi e Prestiti e al Fondo strategico pubblico F2i.
In questo modo parte dei proventi della rete viaria torneranno alla collettività, che garantirà anche le manutenzioni e il livello delle tariffe. In alternativa, la società dei Benetton può resistere, farsi togliere la concessione e fare causa per questo allo Stato, sperando che le vada meglio di com’è finita due giorni fa alla Consulta, dove aveva tentato di invalidare persino il diritto del Governo di affidare la costruzione del nuovo ponte di Genova a un soggetto diverso da quello che l’aveva fatto cadere.
Questo contenzioso legale potrebbe durare anni, e alla fine dare pure ragione all’attuale concessionario, per via di un contratto di affido della rete autostradale che l’Anas firmò a suo tempo tutelando all’inverosimile il contraente privato anziché quello pubblico. In ogni caso all’ex ministra renziana Maria Elena Boschi, che ieri ha difeso apertamente la concessione ad Autostrade proprio per questo rischio di dover pagare risarcimenti miliardari, andrebbe ricordata una frase ripresa da Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Ecco, qui sta la vera cifra di un Governo che non potrà piacere mai all’establishment, inserendo in tale categoria le Confindustrie e combriccole simili, oltre alla stampa apparentemente di opposizione e in realtà beatamente serva di un padrone.
Sotto la spinta non certo del Pd, ma decisamente del Cinque Stelle, un pezzetto alla volta si sta smontando una montagna di potere costruita sulla pelle degli italiani. Un gigante blindato da leggi scritte per fare gli interessi di Lor signori e non dei cittadini, difeso da parrucconi e giannizzeri fuori dal tempo, come quelli che solo pochi giorni fa hanno ripristinato i vitalizi per gli ex senatori. Un sistema inscalfibile, che nel caso dei Benetton è riuscito ad allungare il brodo per due anni, nonostante 43 morti a Genova e 40 ad Avellino, e tutt’ora minaccia di fare cause aggrappandosi a qualche furbizia legale. Perciò dal disastro del ponte Morandi è passato tanto tempo, ma alla fine indietro non si torna. E questo si chiama cambiare il Paese.

Il paese della Fase come vi pare. - Antonio Padellaro

Fase 2, la diretta - Mezzi pubblici, parchi aperti e il ritorno ...
“Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne”.
Michael Ende, “Lo specchio nello specchio”
Lo scorso 23 giugno, con apposita disposizione a tutte le compagnie aeree, l’Enac ha vietato ai passeggeri l’uso delle cappelliere, quegli utili vani posti sopra i sedili dove riporre i trolley e le altre borse di piccole dimensioni. “La misura”, recita rigoroso ma giusto il comunicato, “è per evitare assembramenti delle persone nel momento in cui devono posizionare il proprio bagaglio a bordo dell’aeromobile”. Infatti, chi avesse la disavventura di frequentare lo scalo di Fiumicino per motivi (indovinate un po’) di viaggio sarà costretto a file mostruose per raggiungere gli sportelli del check-in (pur essendo già provvisto di check-in) onde spedire nella stiva il bagaglio (se eccedente la misura 36 per 45 per 20, praticamente la calza della befana). Si posizionerà accanto ad altri sventurati, che avranno almeno la soddisfazione di imbarcare degli armadi a quattro ante. Infatti, in forza della prima legge della termodinamica, secondo la quale dei corpi umani in fila (anche soltanto un paio) tendono comunque a premere gli uni sugli altri, per evitare qualche assembramento a bordo se ne creano altri, di massa, in aeroporto, perfetti per la trasmissione di eventuali contagi (coronavirus o peste bubbonica). Infatti, stremati, accaldati e incazzati dalle attese, una volta seduti e allacciate le cinture condivideremo una distanza di circa venti centimetri con il passeggero accanto, che potrà tranquillamente starnutirci addosso milioni di germi, naturalmente protetto dall’indispensabile mascherina (che va tenuta comodamente sulla bocca e sul naso fino ad avvenuta asfissia). È il “Comma 22” del comitato tecnico scientifico: il modo migliore per evitare gli assembramenti è crearne di nuovi.
Capitolo sotto la banca il cliente crepa. Come sanno i comuni mortali, negli istituti di credito si può entrare uno alla volta. Capita quindi che sul marciapiede, e sotto il saettante sole estivo si creino vasti assembramenti, con anziani stramazzati sull’asafalto. Del resto, può capitare che proprio nel bar accanto si creino davanti al bancone degli allegri assembramenti (e senza mascherina non potendosi altrimenti sorbire il caffè). Del resto, siamo il paese dove negli stadi, rigorosamente senza pubblico, i giocatori, dopo ogni segnatura, festeggiano con veri e propri amplessi, poco profilattici. Siamo il paese dove ci si assembra e senza precauzione alcuna nelle strade della movida. E dove nelle spiagge carnaio ci si assembra gli uni sugli altri (tanto, come dice Jair Bolsonaro, tutti dobbiamo morire). Siamo il paese dove il dibattito politico si accende sullo stato d’emergenza che il governo intende prorogare a fine 2020, con politici e giornalisti dell’opposizione che evocano (senza ridere) la dittatura di Pinochet. Siamo il paese della Fase Come Vi Pare. Dove per uscire dal labirinto delle proibizioni basta non entrarci, direbbe Michael Ende. Perché siamo il paese dove sarebbe bello se il ministro della Salute, Roberto Speranza, con codazzo di esperti, prima di escogitare nuove misure per tormentare inutilmente il prossimo, si facessero un giretto negli aeroporti, tra le cappelliere, davanti alle banche, al bar sottocasa, sulla spiaggia di Ostia (ma anche Fregene e Ladispoli vanno bene). Per vedere l’effetto che fa.

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Mia figlia Sara

Rsa Lombardia, altro che 147 pazienti dimessi: quasi 5 mila. - Natascia Ronchetti

Rsa Lombardia, altro che 147 pazienti dimessi: quasi 5 mila

Sullo scandalo lombardo dei pazienti Covid inviati nelle Rsa ora sta emergendo quello che il Fatto scrive da mesi. E cioè che quelli trasferiti sono stati molti di più di quanti ne ha sempre dichiarati la Regione: “Ne sono stati accolti solo 147, in 15 strutture”, ha continuato a dire l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Ma le cose non sembra affatto che stiano così. Non in base ai documenti sequestrati dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria (come ha riportato ieri La Stampa), nel centro di smistamento dei pazienti che la Regione ha istituito al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Documenti, acquisiti su ordine della Procura meneghina, che parlano di 7.500 pazienti, dei quali 4.700 Covid a bassa intensità e 2.800 negativi (anche se non tutti erano stati sottoposti al doppio tampone per escludere definitivamente la positività). Ma riavvolgiamo il nastro.
Era il 28 marzo quando il Fatto scriveva che i dimessi dagli ospedali perché clinicamente guariti, cioè senza più sintomi ma ancora con carica virale, venivano dirottati su hospice e Rsa. Scelta che allora aveva già riguardato almeno il 30 per cento di ottomila dimessi: vale a dire 2.400 persone, come precisato dallo stesso portavoce di Gallera, da noi interpellato nell’occasione. Dichiarazione stranamente ritrattata alcune settimane dopo: “Un mio errore”, il dietrofront del portavoce.
Arriviamo al 24 aprile, quando il Fatto, di fronte al silenzio della Regione Lombardia e delle Ats scopre, chiamando una per una le case di riposo, che il numero è ben diverso da quello dichiarato da Gallera: sono almeno 225. E i trasferimenti, a quella data, stanno proseguendo. Il presidente Attilio Fontana, l’assessore Gallera e le Ats continueranno a non rispondere, limitandosi a sostenere che le Rsa accoglievano i pazienti su base volontaria e solo a determinate condizioni, come la presenza di un’area autonoma, per evitare il possibile contagio degli anziani.
Non risponderanno nemmeno quando il Fatto, il 25 marzo, pone loro dieci domande. Primo: come è possibile che si parli sempre di 147 pazienti Covid e che a distanza di giorni e settimane il numero rimanga sempre invariato? Nel frattempo la “strage dei nonni” è già iniziata. La Regione Lombardia ha sempre sostenuto che gli anziani morti nelle case di riposo non possono dipendere dal ricovero di pazienti Covid. Ma è un fatto che l’Istituto superiore di sanità ha appurato, con una indagine che ha coinvolto il 43,1 per cento delle 678 Rsa presenti in Lombardia, che sono stati quasi 2.100 i decessi dall’1° febbraio al 5 maggio.
Ancora non si sa quanti dei 7.500 pazienti movimentati dal centro di smistamento del Trivulzio siano effettivamente finiti nelle Rsa, quanti in altre strutture sociosanitarie o centri per le cure intermedie: gli investigatori dovranno analizzare i documenti per ricostruire il percorso ospedaliero. “Ma era evidente fin dall’inizio che non potevano essere solo 147 in tutto – dice Cesare Maffeis, medico, presidente dell’associazione delle case di riposo del Bergamasco –. Solo nella nostra provincia ne abbiamo accolti molti di più. I numeri la Regione ce li ha ma non li fornisce. E non ha nemmeno un esperto di strutture socio sanitarie, si vede da come è stata scritta l’ultima delibera sulla riapertura delle Rsa, che non hanno ancora ricevuto nulla per aver aperto le porte ai pazienti Covid: cornuti e mazziati. La Regione Lombardia è sorda ma siamo pronti ad alzare la voce”.
Quanto all’effettivo numero dei morti, restano i dati dello Spi-Cgil, che ha fatto una indagine sul territorio regionale: cinquemila. “Un tasso di mortalità superiore del 400 per cento a quello degli anni precedenti”, dice il segretario regionale del sindacato, Valerio Zanolla.

Aria SpA: 344 appalti Covid E si dimette il dg (indagato). - Andrea Sparaciari

Aria SpA: 344 appalti Covid E si dimette il dg (indagato)

Nuovo colpo di scena ieri nella vicenda “Camici regalati” dalla Dama spa: il direttore generale di Aria spa, la centrale acquisti della Regione Lombardia, Filippo Bongiovanni, ha rassegnato le proprie dimissioni. Si tratta di uno dei due indagati, insieme con il cognato del presidente Attilio Fontana, Andrea Dini, amministratore della Dama: finiti nel fascicolo della procura di Milano nell’indagine per turbata scelta del contraente per l’affidamento da 513mila euro concesso alla società dei familiari di Fontana.
Secondo il Pirellone Bongiovanni avrebbe chiesto di essere assegnato ad un altro incarico. Fonti vicine a Bongiovanni confermano che si tratta di vere e proprie dimissioni, sebbene tecnicamente si tratti di “richiesta di altro incarico”. Le stesse fonti poi ribadiscono il massimo rispetto per il lavoro degli inquirenti da parte dell’ex direttore, che attende con fiducia di chiarire i fatti.
E l’avvocato ed ex finanziere, fino a poche ore fa a capo dell’ente regionale finito nella bufera non solo per i camici, ma anche per le mascherine Fippi, probabilmente sarà una preziosa fonte di informazione per i magistrati.
Ed è chiaro che il suo addio – non del tutto inaspettato, visti i mai celati attriti col presidente di Aria, il forzista Francesco Ferri – lascia presagire nuovi sviluppi in una vicenda che si sta rivelando sempre più imbarazzante per il governatore lombardo. Nonostante il rifiuto di Fontana di presentarsi in Consiglio regionale per spiegare, l’inchiesta sta proseguendo spedita su tre filoni: la mancata sottoscrizione del patto di integrità (con la relativa dichiarazione di conflitto di interessi); il presunto “ruolo attivo” del governatore (che non è indagato), il quale si sarebbe adoperato per trasformare la vendita dei camici in donazione, dopo l’intervista a Report su Rai3; il mancato perfezionamento della fornitura – a quel punto “regalata” – con 2 mila camici mancanti.
Ma Bongiovanni, da dg di Aria, ha seguito anche molti degli acquisti effettuati dalla controllata regionale durante l’intera crisi Covid. Un oceano di affidamenti diretti, fatti in emergenza, rimasto a lungo oscuro, visto anche il continuo rifiuto dei vertici di Aria di riferire in commissione bilancio sulla propria attività. Ma il Fatto Quotidiano ha avuto la possibilità di consultare in esclusiva il rendiconto generale dei contratti stipulati da Aria tra il 23 febbraio e il 18 giugno. Si tratta di 344 appalti in totale, che vanno dalle mascherine, ai camici, dai test, ai tamponi, passando per le visiere. Una gigantesca lista della spesa dal valore di centinaia di milioni di euro.
Tra i fornitori, i grandi di Big Pharma, come Roche (16 affidamenti tra il 30 marzo e il 2 giugno per complessivi 2.746.233 euro), Arrow (16 affidamenti per 3.212.719 euro), Diasorin (quattro affidamenti, per complessivi 2.486.000), a sconosciuti che si accontentano di poche centinaia di euro, come Farmac-Zabban spa che per 40 mila cuffie copricapo fattura 1.152 euro. Nell’elenco degli acquisti della centrale lombarda figura anche il colosso multinazionale Amazon: sulla piattaforma, infatti, Aria spa diretta da Bongiovanni acquista altri camici, guanti, cuffie e mascherine per 795.647 euro.

Sala vuole gabbie salariali. “Qui la vita è troppo cara”. - Lorenzo Giarelli

Sala vuole gabbie salariali. “Qui la vita è troppo cara”

Secondo il sindaco di Milano è sbagliato che a parità di ruolo in Calabria si guadagni quanto in Lombardia. Critiche da FdI e 5S, Provenzano si dissocia.
Un dipendente della pubblica amministrazione a Milano dovrebbe guadagnare di più rispetto a un pari ruolo che lavora a Reggio Calabria. La ricetta viene da Beppe Sala, sindaco di Milano che un paio di giorni fa – ma la polemica politica è tutta di ieri – è stato intervistato in diretta Facebook sulla pagina di InOltre – Alternativa progressista, gestita da un gruppo di giovani vicini al Partito democratico.
Parlando delle difficoltà e dello sfruttamento dei ragazzi nella sua città, Sala ha quindi citato l’elevato costo della vita milanese, proponendo poi la sua soluzione: “Io capisco che sia un discorso difficile da fare, ma è chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”.
Una visione che ricorda quella che nel Dopoguerra portò alle gabbie salariali, il sistema che ancorava gli stipendi al costo della vita di una certa area geografica. Rimaste in vigore per una ventina d’anni (non sempre a pieno regime), in Italia le gabbie salariali furono abolite tra gli anni 60 e 70 perché ritenute discriminanti nei confronti di chi lavorava in una città rispetto ad un’altra. Solo la Lega Nord di Umberto Bossi e qualche leader di Confindustria proposero di riesumarle.
Ora Sala sembra invece riproporre proprio quella scuola di pensiero: “Adesso o mai più. Quello che non possiamo fare è immaginare di tornare allo status quo precedente al coronavirus il più in fretta possibile. Bisogna approfittare di questa situazione per cambiare un po’ le regole del gioco”.
Inevitabile, però, che l’uscita di Sala prestasse il fianco a facili attacchi politici. Dall’opposizione la calabrese Wanda Ferro, deputata di Fratelli d’Italia, ne fa una questione di appiattimento nei confronti dei poteri forti: “Non ci meraviglia che da sinistra vengano proposte ricette economiche che coincidono con quelle che la grande finanza internazionale cerca di imporre all’Italia”. E ancora: “Il sindaco Sala racconti a un lavoratore calabrese che si trova davanti alla necessità di farsi curare fuori Regione, o che deve accudire un familiare in disabilità, che merita di avere uno stipendio più basso perché vive dove la vita costa meno”.
Dal governo invece è il ministro per il Sud Peppe Provenzano a bocciare Sala: “Si tratta di una discussione arcaica. Come facciamo a valutare la produttività di un lavoratore di Scampia, oppure di un quartiere di Palermo senza servizi? Questo lavoratore dovrebbe essere pagato il doppio per la socialità del suo lavoro”.
Stessa linea del ministro degli Affari europei Enzo Amendola: “Non voglio polemizzare con Sala, ma il problema non è quello delle gabbie salariali. La proposta non è una scelta condivisa né dai partiti né dai sindacati”. E in effetti nessuno segue il sindaco. Né dal Pd né, tantomeno, dai 5 Stelle, da cui semmai si utilizzano toni ancor più decisi: “Le ultime affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti – scrive la deputata calabrese Federica Dieni – Per il sindaco di Milano dovrebbero esistere due Italia, in ognuna delle quali il lavoro dovrebbe avere un certo grado di dignità, alto al Nord e basso al Sud. È inaccettabile che, nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.
Peraltro Sala non è nuovo a controversie del genere. Un paio d’anni fa polemizzò con l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio e la sua proposta di chiudere i centri commerciali la domenica: “Chiudano ad Avellino, a Milano non ci rompano le palle”. Parole a cui Di Maio replicò definendolo “sindaco fighetto” per cui “i diritti della persona sono una rottura di palle”.
A fine giugno, invece, durante un’altra diretta social Sala aveva snobbato il tele-lavoro, riconducendolo a poco più che una ricreazione ed esortando le aziende a far rientrare in ufficio i dipendenti dopo l’emergenza coronavirus: “Adesso basta con lo smart working, è ora di uscire dall’effetto grotta e tornare a lavorare”.
La vita sarà anche più cara al nord, ma solo marginalmente, genericamente.
Vogliamo valutare, invece, ciò che paghiamo noi del sud in termini di sanità, trasporti, viabilità?
I parametri si fanno su tutto, non ci si sofferma al banale.
 
Ripariametriamo il tutto, livelliamo le differenze, ristabiliamo l'uguaglianza, così come sancito dalla Costituzione! 
cetta


La vita agra dei rampolli delle ’ndrine in Lombardia. - Gudo Visconti

La vita agra dei rampolli delle ’ndrine in Lombardia

La nebbia sale dall’acqua del Naviglio, rimonta oltre la strada provinciale verso i campi che un tempo furono del ducato della famiglia Visconti. Tra Milano e Pavia, mondo sospeso oltre il caos della metropoli. Eccolo il nuovo santuario delle cosche. Campi, marcite, cascine abbandonate, piccoli comuni, tre strade, un bar: il Jolly di Calvignasco. Ci passano camionisti e agricoltori, qualche agente di commercio.
È il 14 dicembre del 2018. Luigi Virgara, giovane calabrese di Platì affiliato alla ’ndrangheta con dote di “picciotto” oggi è felice. “Auguri!” dice al telefono appena fuori dal bar. “Ti giuro su Dio sto morendo per la contentezza. Ora si gioca in casa, berrò due bicchieri di vino per te!”. Poi attacca e ridigita un altro numero. “Mi ha chiamato u Sceiccu”. “Ti chiamò? E che ti disse?”, risponde una voce dal chiaro accento dell’Aspromonte. “Lo hanno fatto uscire, ci fu un errore, abbiamo gioito”. Poche ore dopo, i due sono a bordo di una utilitaria bianca. Sul sedile di dietro alcune bottiglie prese al bar Jolly. Da Calvignasco guidano piano verso Gudo Visconti, ancora poche case, le solite tre strade, un sindaco e un assessore. U Sceiccu vive qui. Scarcerato il giorno prima, ora sta ai domiciliari. Virgara e Pasqualino Barbaro, incensurato e fratello minore di Saverio, secondo la Procura trafficante di cocaina affiliato alla mafia di Platì, stanno andando da lui per festeggiare. Già, perché lo Sceicco è il 39enne Domenico Marando, così descritto dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta, alias Micu McDonald: “È il picciotto di Micu Murruni ed è affiliato alla ‘ndrina di Platì”. In galera ci era finito per una tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. U Sceiccu ha diversi fratelli. Uno di loro vive a Calvignasco, un altro, Giuseppe, detto u Parpigliuni viene descritto nelle carte come “affiliato”. E vive sempre a Gudo Visconti. Qualche via più su, hanno domicilio gli Zappia, altro nome noto da inserire negli organigrammi delle cosche della Montagna. Tutte bandierine sulla nuova mappa della ‘ndrangheta di Platì in Lombardia.
La Platì del Nord non è più Buccinasco
Alcuni comuni storici come Buccinasco, definito negli anni Novanta la Platì del nord, si sono svuotati. “Qui – suggerisce la definizione un investigatore esperto – è rimasta solo la sede legale della Mafia spa”. Già perché quella operativa ora sta qua, tra Calvignasco e Gudo Visconti, tra Bubbiano, Casorate Primo, Vermezzo, Zelo Surrigone. Un agro-mafioso al confine con la provincia di Pavia, dove gli spazi da controllare sono vasti e i numeri delle forze dell’ordine molto piccoli. Dove comuni da meno di mille abitanti si trasformano in fortini inaccessibili, circondati solo da campi, cascine, capannoni. Luoghi ideali per summit e trattative. Il tutto in mano ai nuovi eredi della cosca Barbaro-Papalia.
Una rete inedita messa insieme dalla piccola squadra investigativa dei carabinieri di Corsico, guidata dal capitano Pasquale Puca e dal tenente Armando Laviola. Una compagnia al confine, composta da sentinelle in terra di mafia. Sono loro i convitati di pietra durante gli incontri di Luigi Virgara salito a Milano due anni fa con il compito di riannodare la rete delle cosche di Platì dietro la copertura di bidello, in un istituto scolastico di Buccinasco intitolato a don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso da Cosa nostra. Tutto finisce nell’inchiesta “Quadrato bis” coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci ed eseguita pochi giorni fa con 17 arresti. Ma più che la droga sono i contatti. I carabinieri e l’antimafia ripartono da questi. E così ecco Virgara di nuovo a Gudo Visconti, in via XX settembre: stradina a fondo chiuso, casette a due piani in mattoni rossi, il giusto silenzio.
“Qui – scrivono i magistrati – risultano risiedere parecchi soggetti calabresi con legami diretti con esponenti di vertice della ’ndrangheta platiota”. È impossibile arrivarci senza essere notati. I carabinieri piazzano una microtelecamera e fanno bingo. Virgara – e non solo lui – da lì passa spesso. Solita utilitaria bianca, si ferma davanti al civico 43 e incontra Domenico Papalia, alias Micu u Bruttu, nessuna condanna per mafia, ma, secondo gli investigatori, contatti importanti con vecchi e nuovi boss. Braccio operativo, sostengono i carabinieri, degli eredi di Micu Barbaro detto l’Australiano, deceduto nel 2016, con rapporti diretti, a leggere le carte, con il boss di Platì Rocco Papalia oggi tornato nella sua casa di Buccinasco, dopo anni di carcere.
Del resto, qui abita Rosario Barbaro con la moglie, qui si è trasferita Serafina Papalia, consorte di Salvatore Barbaro, altro figlio dell’Australiano, oggi in carcere per mafia dopo una breve latitanza. Qui ha abitato Antonio Barbaro, nipote del padrino di Platì Beppe Barbaro u Nigru, e già titolare di un negozio di frutta e verdura nel comune di Gaggiano, non distante da Gudo.
Quattro mesi di indagini. E una Tlc nella nebbia.
Immortalata per quattro mesi da una telecamera, quindi, la via della ’ndrangheta, con la sua vita e i suoi incontri. Dopodiché una soffiata indica a Papalia il luogo in cui è installata la telecamera. Un po’ di vernice e lo schermo si fa nero.
Eppure in quei 120 giorni, molto emerge e si chiarisce. In particolare la rete di relazioni e nuove figure come quella di Francesco Romeo detto u Pettinaru, anche lui residente a Gudo e un fratello, Pasquale, in contatto, secondo il pentito Agresta, con Giuseppe Molluso definito “una vera macchina da guerra per la cocaina”.
Ora Molluso abita a Bubbiano, a qualche chilometro da Gudo. Molluso viene definito dagli investigatori “soggetto di elevatissimo rilievo investigativo”. E se lui sta a Bubbiano, suo zio Francesco, dopo una galera trentennale per droga e sequestri di persona condivisi con i compari di Platì, ha il suo buen ritiro pochi chilometri dopo, a Zelo Surrigone che, assieme ai Gudo e a Calvignasco, costituisce un altro punto in questa nuova linea di confine.
L’agro-mafioso: l’ultimo tassello.
E arriviamo all’ultimo paese di questo inedito agro-mafioso lombardo. Si tratta di Casorate Primo. Qui vive il boss Saverio Agresta, uno degli ultimi vecchi platioti ancora attivi, secondo la procura di Milano.
Agresta oltre a essere il suocero di Molluso, frequenta abitualmente un bar assieme ad altri personaggi legati, leggendo le carte, al mondo criminale. Un perfetto ufficio dove pianificare affari: i compari lo chiamano “il praticello”. Agresta senior è poi il padre del pentito Micu McDonald che con le sue dichiarazioni ha rimesso in ordine i tasselli di questo nuovo santuario mafioso, dove tutto si tiene, rapporti e interessi.
“Sto bastardazzo di merda ha voluto rovinarci, lo ammazzo”.
Così disse il padre.