sabato 8 agosto 2020

Falcone dimezzato per zittire i pm. - Gian Carlo Caselli

Strage di Capaci, 28 anni fa l'uccisione di Giovanni Falcone - Il ...
Con l’avvio del dibattito parlamentare, il confronto sulla separazione delle carriere fra pm e giudici si fa sempre più rovente. Chi non è d’accordo è liquidato – senza complimenti – come un troglodita irrecuperabile, un giustizialista nemico giurato dello Stato di diritto. Per taluno, l’argomento tranchant (definibile, se si trattasse di dialettica processuale, “pistola fumante”) è che anche Giovanni Falcone era favorevole alla separazione! Et de hoc satis: basta con le menate sull’indipendenza della magistratura e via cavillando.
Ora, non v’è dubbio che le opinioni di Giovanni Falcone meritano il massimo rispetto. Ma rispetto sempre, in un quadro di coerenza: non semplicemente quando fa comodo. Ora, coloro che osteggiano la separazione delle carriere sono di solito nemici irriducibili anche del “concorso esterno” e del 41-bis. Mentre si dà il caso che su questi temi Falcone (mai citato!) fosse invece schierato su posizioni di indiscusso favore. Anzi, il 41-bis è stato addirittura ideato da lui nonostante sapesse perfettamente che la riforma avrebbe fatto inferocire le belve mafiose (Riina dirà ai suoi che si sarebbe giocato i denti, intendendo quel che di più prezioso aveva). Vediamo allora come stanno le cose.
Quanto al concorso esterno, Falcone e gli altri magistrati del pool, nell’ordinanza-sentenza del “maxi-ter” (17 luglio 1987), hanno sostenuto che le “manifestazioni di connivenza e di collusione […], tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti [sono] sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Parole chiare e univoche, scritte in atti giudiziari ufficiali (quindi in linea col mantra dei giudici che devono parlare solo con le sentenze…), per cui il Falcone ricordato ora sì ora no rischia di essere – parafrasando Calvino – un Falcone “dimezzato”.
Quanto al 41-bis è noto che Falcone, umiliato e cacciato da Palermo, trovò al ministero una specie di asilo politico-giudiziario che utilizzò da par suo elaborando la moderna antimafia, fatta di Procure specializzate (nazionale e distrettuali), Dia e banche dati. In questo “arsenale” rientrava pure il 41-bis – approvato dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio – con cui Falcone voleva un “regime differenziato” per i mafiosi che mettesse fine a una situazione di grave illegalità all’interno del sistema carcerario. Prima del 41-bis, infatti, i boss in carcere potevano permettersi di tutto, perfino decidere e organizzare delitti, mentre un collaudato circuito di informazione, assistenza e solidarietà dall’esterno garantiva la continuità e coesione dell’organizzazione. In sostanza, per Cosa Nostra era “naturale” essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre, ma così il discredito dello Stato era devastante. Tutto ciò andava bene a chi la battaglia antimafia la voleva perdere. Falcone invece la voleva vincere anche con il 41-bis, che difatti funzionò alla grande creando una slavina di “pentiti”. Queste verità, oggi, sono tutta una “fuffa” forcaiola per coloro che vedono nel “famigerato” 41-bis solo sistematiche violazioni dei diritti umani equiparabili di fatto a torture. E quasi sempre si tratta dei medesimi soggetti che armano crociate alla conquista della separazione delle carriere.
In verità, se c’è un’operazione che presenta margini amplissimi di azzardo se non di arbitrarietà è proprio evocare i morti. Bisognerebbe chiedersi cosa mai penserebbero oggi, ma è impossibile saperlo. Tuttavia, pur con ogni ragionevole cautela e assumendo il dubbio come chiave di lettura, si possono formulare alcune osservazioni. Vari processi (in particolare Tangentopoli a Milano e Mafiopoli a Palermo) hanno dimostrato che i rapporti di parti consistenti della politica con il malaffare sono una questione di respiro nazionale. Ma la politica non ha saputo bonificarsi essa stessa neutralizzando le spinte malefiche. Purtroppo l’Italia è ancora oggi caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da mala-amministrazione nelle più svariate accezioni, vale a dire da vicende oscure che coinvolgono pezzi rilevanti della politica. Conviene che proprio “questa” politica (refrattaria a ogni forma di responsabilità extra-giudiziaria) possa anche ordinare ai pm dove indagare e dove invece far finta di niente, come di fatto avviene ovunque vi sia separazione delle carriere? Per l’Italia che ancora spera nella legge uguale per tutti sarebbe un suicidio. Financo le odiose leggi ad personam diverrebbero inutili se la persona interessata (o qualcuno della sua cordata) potesse pretendere dal pm quel che più le piace. Per l’Italia delle regole sarebbe una forma di “masochismo istituzionale”.
Infine, un accenno alla tesi (propagandata da avvocati e politici) che con la separazione il nostro Paese si allineerebbe alle democrazie più avanzate. In realtà, l’allineamento potrebbe comportare un pesante arretramento. Un riscontro viene da Le Monde del 28/29 giugno, che ha pubblicato un intervento di Katia Dubreuil e Céline Parisot, presidenti di due sindacati della magistratura, intitolandolo “È tempo di garantire l’indipendenza dei magistrati del parquet” (cioè dei pm). Vi si parla di un “cocktail esplosivo” di cui sono ingredienti la nomina dei pm da parte dell’esecutivo e il fatto che ogni decisione in affari “sensibili” è analizzata in base ai possibili interventi del potere; concludendo che soltanto una riforma istituzionale potrebbe mettere fine ai sospetti di interferenze del potere esecutivo sul corso della giustizia. Ne deduco che le anime candide nostrane che propugnano la separazione delle carriere (inesorabilmente destinata a far dipendere il pm dell’esecutivo) vorrebbero costringerci a una situazione che i francesi gelosi dello Stato di diritto stanno disperatamente cercando di cambiare. Quanto basta per convincersi che gli epigoni del teatro dell’assurdo sono fra noi.

La scienza è disumana ma soffre d’Alzheimer. - Massimo Fini

FameLab: a Trieste, sfida a colpi di scienza con il talent show ...
La Scienza, che tempo fa definimmo “più pericolosa dell’Isis”, ma oggi potremmo anche dire del Covid-19, continua imperterrita, senza che nessuno possa e tantomeno voglia disturbarla, nella sua marcia trionfale verso la propria demenza senile.
Secondo uno studio di un gruppo di giovani ricercatori dell’Università di Bologna, premiati dal ministero della Salute, attraverso “la stimolazione magnetica transcranica (Tms)” si potrebbero rimuovere i ricordi spiacevoli, dolorosi, tormentosi, traumatici e la paura che ne è conseguita. Siamo in linea con la tendenza tutta moderna a eliminare dall’essere umano tutto ciò che è umano, per omologarlo a un normotipo astratto, “politicamente corretto”, diciamo così, dal punto di vista fisico, psichico, emotivo (la legge Mancino, oggi rafforzata dalla subnorma antiomofobia, ha già messo le manette all’odio che è un sentimento e, come tale, non può essere abolito per legge).
Non pensavamo però che i ricercatori di Bologna non capissero quello che anche la casalinga di Voghera sa. Noi non siamo fatti solo di ciò che abbiamo vissuto, ma anche del suo ricordo. Si chiama esperienza. E il dolore, la paura e i ricordi, buoni o cattivi che siano, fanno parte di ogni esperienza umana. Facciamo un esempio molto semplice. Un bambino avvicinandosi troppo a un fornello del gas o al fuoco che crepita allegramente in un camino ci mette la sua candida manina, si scotta e prova dolore. È chiaro che da lì in poi si guarderà bene dal ripetere quella brutta esperienza. E questo vale per ogni aspetto del vivere umano. Soprattutto la paura (e quindi il suo ricordo) è una componente essenziale della specie umana ma anche di animali di livello superiore (se un topo, attirato da un formaggio, resta secco in una trappola, i suoi compagni vedendo un appetitoso cacio lo avvicineranno con giudiziosa prudenza).
Se siamo sopravvissuti a tutto è proprio perché la specie umana è una delle più paurose del Creato. Se continueremo sulla linea dei giovani ricercatori di Bologna, tentando di rimuovere i ricordi, la paura e soprattutto la memoria sulla cui importanza fondamentale sono state scritte intere enciclopedie da parte di studiosi un po’ più accreditati (L’arte della memoria, Frances A. Yates, per tutti), finiremo in trappola. Sopravviveranno solo i topi.
Ma siccome gli scienziati, giovani o meno, sono inesausti, adesso abbiamo l’ultimo grido della medicina preventiva o, per meglio dire, del terrorismo diagnostico. La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association ci informa che con un particolare test del sangue focalizzato sulla proteina Tau saremo presto in grado di prevedere l’insorgere dell’Alzheimer in una persona con vent’anni d’anticipo. Ma a che ci serve se contemporaneamente non ci sono, né si prevedono, cure per l’Alzheimer? A far vivere da malato un uomo sano con vent’anni d’anticipo.
La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association stima anche che entro il 2050 i malati di Alzheimer saliranno dai 30 milioni attuali a 100 milioni. Su questo sarebbe interessante indagare, sulle cause, evidentemente ambientali e sociali, cioè sull’attuale modello di sviluppo (perché nelle Isole Andamane non c’è nessun aumento di Alzheimer, anzi l’Alzheimer non esiste proprio) a cui si deve il formidabile incremento di questa malattia. Ma di ciò gli scienziati non si occupano. Sono già malati di Alzheimer, sia pur in incubazione.

“Questo non è autoritarismo, il resto solo opinioni private”. - Silvia Truzzi

“Questo non è autoritarismo, il resto solo opinioni private”

L’ultima volta che abbiamo parlato dello stato d’emergenza, il professor Zagrebelsky ha iniziato così: “Quando scendono in campo i giuristi vuol dire che non siamo molto ben messi. Ci si rivolge a loro per avere una parola chiara e normalmente se ne ottengono molte e oscure, spesso contraddittorie. Una delle più frequenti prestazioni dei giuristi, nel loro insieme, è di rendere ‘meravigliosamente oscure’ (Rabelais) persino le questioni chiare”. “Mi sono permesso una battuta, perché anch’io appartengo alla categoria”, spiega l’interessato.
Anticipando su Repubblica un testo che uscirà in autunno per Laterza, il professore ha sostenuto che bisogna distinguere tra emergenza ed eccezione. La prima è interna al sistema, e lo difende da una minaccia; la seconda lo frantuma per travolgerlo e superarlo. Lo stato di emergenza, nel nostro caso, ha un fine: la tutela della salute pubblica. È strumento di garanzia di un diritto fondamentale.
La sua posizione ha innescato diverse repliche: proviamo a sottoporle le principali. Protrarre lo stato di emergenza costituisce una “forzatura illegittima e inopportuna”: illegittima, perché non essendoci emergenza, non c’è il presupposto per prorogarla; inopportuna, perché produce le note conseguenze sul piano economico.
Lo stato di emergenza come condizione generale che giustifica qualunque misura ad arbitrio del governo è non solo in-costituzionale, ma anche anti-costituzionale. Parlo, per intenderci, dei “pieni poteri”. È invece previsto che, nella normalità della vita del diritto, possano “emergere” casi straordinari (cioè non previsti) di necessità e urgenza. Quando ciò accade, il governo può adottare decreti con forza di legge che entrano in vigore immediatamente ma sono “provvisori”, cioè decadono se non sono convertiti in legge dal Parlamento entro sessanta giorni. In più, il governo agisce “sotto la sua responsabilità”: la conversione in legge, oltre a riportare l’eccezione nei binari della legalità, convalida il giudizio del governo circa l’esistenza delle condizioni straordinarie ecc. e lo esonera dalle sue responsabilità. Chi giudica sull’esistenza delle suddette condizioni? Ciascuno di noi può avere la sua visione delle cose: chi ha avuto l’infezione vicina a sé, chi ha operato e opera nelle strutture sanitarie e “ha visto”, avrà una convinzione; chi è lontano e filosofeggia nobilmente, ne avrà un’altra. Ma si tratta, in entrambi i casi, di opinioni private. Dal punto di vista costituzionale, ciò che conta sono le valutazioni del governo convalidate dal Parlamento, salvi i controlli che esistono presso il presidente della Repubblica e, alla fine, presso la Corte costituzionale.
Obiezione: dei decreti legge si è fatto larghissimo utilizzo, quasi mai nella ricorrenza di situazioni di necessità e urgenza…
E con ciò? Nei decenni passati s’è fatto abuso. Ma ciò significa forse che il decreto-legge non può più essere usato quando è lecito usarlo? L’abuso avrebbe abrogato l’uso?
L’osservatorio che porta il nome del professor Rodotà definisce la proroga una “rottura costituzionale”, annunciando ricorsi alla Consulta. Le libertà individuali, dicono, sono state limitate illegittimamente dai Dpcm che hanno alterato il sistema delle fonti del diritto, tanto che il governo ha goffamente cercato di porre riparo coi decreti legge. Che ne pensa?
Innanzitutto, sarebbe saggio non sfruttare l’autorità d’una persona che non c’è più. I ricorsi ci saranno, vedremo che esiti avranno. Sulla legittimità dei provvedimenti, è prevista dalla Carta la possibilità di limitare la libertà di circolazione per motivi di sanità e incolumità pubblica. Se si parte dal presupposto che tali motivi esistono, la conseguenza ovvia è la legittimità delle restrizioni alla libertà di circolazione. Si dice che queste restrizioni incidono su altri diritti: di riunione, di studio e socializzazione scolastica, di attività lavorativa, perfino di esercizio comunitario della libertà di culto. Ma queste sono conseguenze, di cui non è lecito sminuire la gravità, che tuttavia derivano dall’esigenza precauzionale relativa alla tutela della salute. È una questione logica: la circolazione può far circolare anche il virus. Del resto, che sarebbe di tali altri diritti se la pandemia dilagasse al punto che, nel panico, si dovessero rimpiangere le cautele e le restrizioni omesse in tempo utile. Col passare del tempo e la diminuzione dell’allarme, la ragionevolezza delle misure deve essere, però, bilanciata al sacrificio degli altri beni costituzionali.
Invece sulla questione dei Dpcm?
I famigerati Dpcm hanno o non hanno base legale nei decreti legge e nelle leggi di conversione e sono proporzionati alla gravità dell’infezione? La questione è tutta qui.
I giuristi hanno messo sul tavolo la vecchia legge sulle calamità naturali.
Ma non c’è bisogno di appellarsi a questa norma. La situazione attuale è regolata dalle leggi del Parlamento, dai decreti del governo e dai Dpcm.
Il premier Conte sostiene che negli ultimi 4 anni lo stato d’emergenza è stato dichiarato 84 volte e rinnovato 154 volte. Gli è stato però obiettato che si tratta di casi circoscritti, legati a terremoti, alluvioni… È la prima volta, poi, che lo stato di emergenza riguarda tutta l’Italia. Questa è una anomalia?
È una caratteristica della situazione! La dimensione spaziale (e temporale) della legislazione d’emergenza dipende dalla dimensione dell’emergenza. Mi pare ovvio. Che finora non si sia verificato un allarme così vasto da investire potenzialmente l’intero territorio nazionale significa solo che siamo stati fortunati. Purtroppo, ci può essere sempre una prima volta.
Il timore che l’emergenza venga normalizzata è fondato?
Su questo veglieranno il presidente della Repubblica, i giudici e la Corte costituzionale e, alla fine, l’opinione pubblica che è la vera garanzia. L’assuefazione è un pericolo e, tanto più in situazioni come l’attuale, l’attenzione di coloro che amano la democrazia deve essere vigile. Ci sono contromisure istituzionali e ci siamo noi che stiamo all’erta responsabilmente.
Qualcuno pensa che queste misure siano comunque autoritarie.
Sì, ci sono alcuni che, per il gusto del beau geste libertario assomigliante al “menefreghismo” estetizzante dei futuristi d’altri tempi, non esitano a mettere in pericolo la salute altrui. Ma, qui non c’è il diritto di fare della propria salute quello che si vuole, ma c’è il dovere di non giocare con la salute degli altri. Sono degli irresponsabili che hanno della loro libertà un concetto totalmente egoistico.
Un giudice di pace ha annullato la multa di 400 euro comminata a padre e figlia, trovati fuori dalla loro abitazione durante il lockdown, sostenendo anche che la misura di permanenza domiciliare può essere stabilita solo dall’autorità giudiziaria. Neppure una legge potrebbe prevedere nel nostro ordinamento un simile obbligo.
Si invoca l’art. 13 e la garanzia della libertà personale. Ma questa norma ha a che vedere con la libertà della persona rispetto a misure personali. Non c’entra nulla con la pandemia. Mi stupisco che non si trovi nulla di assurdo nel postulare che, per stabilire limiti che valgono per tanti e, al limite, per tutti, sia ragionevole ipotizzare per ciascuno di essi un provvedimento (quanti milioni, nell’insieme?) dell’autorità giudiziaria, naturalmente in altrettanti procedimenti, con le garanzie del contraddittorio, la presenza di avvocati, impugnazioni, ecc. Quanto ai poteri del giudice, certamente egli può, anzi deve disapplicare gli atti amministrativi illegittimi. Ma bisognerebbe dimostrare che essi “non stanno” nella legge. Se invece stanno nella legge ma questa è costituzionalmente illegittima, allora non si dà disapplicazione, ma ricorso alla Consulta contro la legge che si suppone incostituzionale. C’è una logica nel sistema.
Quindi torniamo all’inizio: quando entrano in campo i giuristi…
Siamo abituati a partire dall’astrattezza delle leggi e delle nostre costruzioni teoriche per planare sulla contingente realtà. Nell’emergenza, bisogna ragionare al contrario, cioè partire dalla realtà e cercare nelle leggi il modo per gestirla. Sennò si fa fare una brutta figura al diritto.

venerdì 7 agosto 2020

L’anniversario del Papeete. - Tommaso Merlo



È passato un anno dal tentativo maldestro di Salvini di prendersi i pieni poteri. Un anno per lui davvero tremendo. Ha perso oltre dieci punti percentuali e continua a calare. Un crollo davvero impressionante se si considera che Salvini ha trascorso quest’anno comodamente all’opposizione. Potendo cioè fare quello che gli riesce meglio. Lagnarsi e criticare il lavoro degli altri. Ormai la Meloni insidia la sua leadership sovranista e Zaia è più popolare di lui in casa leghista. Cresce la fronda padana che vorrebbe rimettersi la camicia verde lasciando quella nera ad altri. Salvini ha sempre rivendicato l’harakiri del Papeete, ma da allora dentro di lui qualcosa sembra essersi incrinato visto che non ne ha azzeccata più una neanche per sbaglio. Forse si credeva davvero infallibile ed aver commesso l’incommensurabile scempiaggine di regalare il potere politico ai suoi avversari deve aver frantumato le sue certezze interiori facendogli perdere lucidità. Con la maldestra mossa del Papeete, Salvini dimostrò di non aver capito una mazza di chi fosse Conte sia come persona che come potenziale politico al punto che era convinto di potersene sbarazzare in quattro e quattr’otto. Ma Salvini non aveva capito una mazza neanche del contesto politico e dell’esistenza di una maggioranza alternativa in parlamento. E se non bastasse Salvini non aveva capito una mazza nemmeno di cosa passava per la testa del popolo sovrano che il 4 marzo aveva votato per quel vento “populista” e che soprattutto grazie al Movimento si stava togliendo delle soddisfazioni. Errori gravissimi per un politicante navigato come lui. Dopo una vita spesa a far comizi di nicchia, Salvini era al centro della vita politica nazionale ed un punto di riferimento sovranista anche all’estero. Si giocava la partita della vita. Ed ha fallito clamorosamente. Dimostrandosi non all’altezza della situazione e delle sue ambizioni da premier. Ma ad un anno dal Papeete, Salvini avrebbe potuto perlomeno tenere. Ed invece sta precipitando in un vortice che ricorda ogni giorno di più quello che si è inghiottito la stella di Renzi. Una via crucis fatta di dolorose stazioni. Il disastroso all-in in Emilia-Romagna. Gli scandali che da Mosca si son trasferiti nei meandri brianzoli. La linea sciagurata sul virus con un Salvini incapace di comprendere la gravità non solo sanitaria ma anche politica della pandemia e scivolato in uno sciacallaggio autolesionista. Il tutto condito con abbondanti dosi di gaffe. Il Salvini occhialuto degli ultimi mesi è la brutta copia dell’intrepido leader sovranista del Papeete. Ma ad essere cambiato è anche il contesto. La pandemia ha disinnescato certi slogan sovranisti. E ad essere cambiati sono anche gli italiani che non hanno smesso d’innamorarsi del pifferaio magico di turno, la differenza è che oggi la cotta gli dura molto meno. A furia di fregature si son fatti più esigenti e dalle corna facili. A gonfiare la bolla salviniana erano milioni di leghisti last-minute che non sanno neanche dove sia Pontida e che tra il Papeete e tutto il resto han tirato le somme su chi sia Salvini come leader e come uomo scappando a gambe levate. Tutto qui. Salvini sta tentando disperatamente di reagire ma lo fa nel modo peggiore. Attaccando, tentando di ricreare artificialmente il clima del Papeete che tanta fortuna gli stava portando. Rispolverando l’invasione, puntando allo sfascio e scagliandosi contro l’odiato Conte che però vola mentre lui precipita. È passato un anno dal tentativo maldestro di Salvini di prendersi i pieni poteri. Un anno davvero tremendo. Non resta che attendere che la Meloni se lo pappi e che Zaia passi il Rubicone. Di questo passo la carriera di Salvini potrebbe concludersi inaspettatamente molto prima del previsto.

https://repubblicaeuropea.com/2020/08/07/lanniversario-del-papeete/?fbclid=IwAR0wvFVnm6F_nO4QpnGerkEIgzJiL8FdWT9Kw4mj1HdikfLMS0U3F2qJa24

“Quaranta nuove atomiche Usa entro tre anni in Italia”. - Stefania Maurizi

“Quaranta nuove atomiche Usa entro tre anni in Italia”

È il bombardamento che ha cambiato per sempre la Storia. Settantacinque anni fa, la città giapponese di Hiroshima veniva distrutta dalla prima bomba atomica. Uccise istantaneamente 70mila persone – appena 4 mesi dopo erano 140mila – e aprì una nuova era: l’era nucleare, in cui l’uomo acquisì la capacità di sterminare l’intera specie umana in un colpo solo. Tre giorni dopo Hiroshima, toccò a Nagasaki: nei due bombardamenti furono uccise circa 300mila persone e da allora si affermò “il tabù nucleare”. A oggi non sono mai state più usate in combattimento. Ma ne sono state costruite decine di migliaia: nel pieno della Guerra fredda, ce ne erano almeno 70.300. Secondo l’esperto americano Stephen Schwartz, si stima che, dagli anni 40 al 1996, gli Usa da soli abbiano speso 5.800 miliardi di dollari in valuta del 1996 per queste armi. Quanti sono 5.800 miliardi? Se prendiamo banconote da un dollaro e le mettiamo una sopra l’altra arriviamo fino alla Luna e torniamo indietro. E oggi? Il Fatto Quotidiano ha intervistato l’autorità in materia di questi armamenti: Hans Kristensen della Federation of American Scientists.
Settantacinque anni dopo Hiroshima e Nagasaki, quante armi nucleari ci sono nel mondo?
Dalle nostre stime, ne risultano circa 13.400.
Nel novembre scorso, lei ha pubblicato una ricerca secondo cui gli Usa hanno 150, forse 100, ordigni nucleari stoccati in Europa e l’Italia rimane il paese europeo col più alto numero di bombe e l’unico con due basi nucleari: Aviano e Ghedi. Lei ha stimato che ci siano 20 armi nucleari ad Aviano e 20 a Ghedi. Queste cifre sono ancora attuali?
Sì, sono le mie stime aggiornate.
Le vecchie bombe stoccate ad Aviano e Ghedi sono le B61-3 e B61-4, ma verranno presto rimpiazzate dalle nuove: le B61-12. Quante ne arriveranno e cosa avranno di diverso?
A meno che la Casa Bianca non dia nuove disposizioni, il numero rimarrà lo stesso di quelle già oggi presenti e la potenza sarà la stessa delle B61-4: la nuova bomba B61-12 usa la stessa struttura in termini di testata nucleare. Il potenziamento, dal punto di vista militare, non è da ricercare nella testata, ma nel kit di coda che triplicherà la precisione della bomba.
Che cosa sappiamo dell’accordo Usa-Italia che consente agli americani di stoccare le loro armi nucleari nel nostro Paese?
L’accordo bilaterale è segreto, ma è noto da anni col nome in codice Stone Ax. A meno che non siano intervenuti, rimane quello. Contiene le regole che Usa e Italia hanno concordato per lo stoccaggio, la custodia e, potenzialmente, l’uso. L’accordo disciplina in particolare come vengono custodite le bombe nelle basi di Aviano e Ghedi.
L’Italia aderisce al più importante strumento per limitare le Atomiche: il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp). La loro presenza sul territorio italiano è legalmente compatibile con esso?
Sì, il Tnp non limita in alcun modo né regola il dispiegamento delle armi nucleari. Tuttavia, proibisce il trasferimento diretto o indiretto di questi ordigni da una potenza nucleare a una non nucleare. Poiché, però, il trasferimento delle bombe Usa all’Italia e le intese di condivisione di queste armi risalgono a un periodo precedente alla data in cui il Tnp fu firmato, né lo stoccaggio né le intese violano il Trattato dal punto di vista legale. Detto questo, però, poiché questi ordigni sono stati consegnati per essere usati dall’Italia in caso di guerra e poiché l’Aeronautica militare italiana è stata dotata di essi ed è stata addestrata al loro uso, a mio avviso, non c’è dubbio che le intese violino eccome lo spirito del Trattato, nonostante da un punto di vista strettamente legale non sia così.
Quando arriveranno le nuove bombe in Italia?
Probabilmente tra il 2022 e il 2023.
Chi le sta costruendo?
Tutte le armi nucleari vengono prodotte negli Usa: la testata nucleare viene costruita e gestita dal Los Alamos National Laboratory, le componenti non nucleari sono sviluppate dal Sandia National Laboratories e assemblate al Kansas City Plant, e il kit di coda verrà prodotto dalla Boeing. Una volta pronte tutte le componenti, le bombe vengono assemblate al Pantex Plant in Texas.
Se le truppe americane e gli F-16 verranno spostati dalla Germania, la decisione avrà impatto sulle armi nucleari americane stoccate in Italia?
No. Lo squadrone di F-16 che verrebbe spostato dalla base di Spangdahlem ad Aviano non è assegnato a missioni nucleari. Quel ruolo è assegnato a due squadroni di F-16 che si trovano già ad Aviano.

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata. - Maria Cristina Fraddosio

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata

Una delle più ampie discariche di scarti industriali - con un danno ambientale stimato in 200 milioni di euro - è da trent'anni in attesa di una soluzione. Ma finora si sono registrati solo tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie e malformazioni alla nascita.
Era l’8 marzo 1959 quando l’allora presidente del Consiglio, Antonio Segni, si recò a Brindisi, in Puglia, per deporre la prima pietra del polo petrolchimico di proprietà della società Montecatini. Disse che quella doveva essere “una pietra lanciata in uno stagno che (avrebbe dovuto allargarsi, ndr) in cerchi di benessere”. Nessuno immaginava che quell’area si sarebbe trasformata in una delle più grandi discariche di scarti industriali. Nel ’61 gli impianti entrarono in funzione. Veniva trattato il petrolio grezzo e si avviò la produzione di materie plastiche. Nel frattempo i rifiuti venivano sversati in prossimità degli impianti, nell’area a ridosso del mare che successivamente prese il nome di Micorosa dall’azienda subentrata in uno degli innumerevoli passaggi societari.
Fanghi di idrossido di calcio, acetilene, cloruro di vinile, dicloroetano si accatastarono al suolo, compromettendo anche la falda. Ma il sogno industriale continuò, fino al boato che la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1972 stravolse la città. Lo scoppio dell’impianto di cracking causò la morte di tre operai e 50 feriti. Negli anni gli impianti passarono di società in società, ovvero da Edison a Eni, con un breve intervallo nel ’92 della srl Micorosa, poi fallita. Nel ’90 Brindisi fu dichiarata area ad alto rischio di crisi ambientale. Qualche anno dopo i nomi di circa 200 operai morti di cancro finirono agli atti della Procura. Il processo al petrolchimico durò un decennio e si concluse con l’archiviazione per l’infondatezza della notizia di reato (Allegato 3).
Il piano di risanamento (Allegato 1) e l’istituzione del Sito di interesse nazionale vennero approvati nel ’98. La perimetrazione per la bonifica fu fatta nel 2000 e incluse più di 11mila ettari, 5.700 di terra e 5.600 di mare. Ad oggi la caratterizzazione, ovvero la ricostruzione dettagliata della contaminazione, risulta effettuata per l’89% e i progetti di messa in sicurezza approvati riguardano il 16% della falda e il 12% della terra. In entrambi i casi si è concluso meno del 10%. All’interno del Sin vi è l’area industriale, il porto, 30 chilometri quadrati di costa, il petrolchimico e la centrale termoelettrica a carbone Enel di Cerano. Vi è pure un’ampia zona agricola, attraversata dall’asse attrezzato per il trasporto del carbone, che è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria. E un Parco naturale regionale “Saline di Punta della Contessa”, istituito nel 2002, al cui interno c’è la discarica Micorosa. Un paradosso venuto alla ribalta nel 2014.
In quest’area di circa 50 ettari, l’unica al momento soggetta a bonifica, che in realtà consiste in un confinamento dei rifiuti, si calcolano 1,5 milioni di metri cubi di fanghi a cielo aperto fino a 5 metri di profondità. Con l’Accordo di Programma del 2007 (Allegato 4) si decise che lo Stato avrebbe realizzato la messa in sicurezza “rivalendosi sui soggetti obbligati che non vi provvedano direttamente o non richiedano di usufruire dei benefici del presente accordo”. Si stimò un danno ambientale di 200 milioni di euro, 135 sarebbero serviti per gli interventi di risanamento. Il costo sarebbe stato ripartito tra le società sulla base delle superfici di cui erano proprietarie e del livello di contaminazione. Le somme sarebbero state corrisposte al ministero dell’Ambiente “in 10 anni senza interessi”. “Vorremmo avere un chiarimento su dove siano finite, dovrebbero ammontare a 70 e 80 milioni,”, annuncia il sindaco di Brindisi e presidente della Provincia, Riccardo Rossi. Anche Il Fatto Quotidiano ha chiesto lumi al ministero, ma né il ministro Sergio Costa, né il sottosegretario Roberto Morassut si sono espressi. All’accordo del 2007 è seguita una convenzione tra Regione, Ministero e Sogesid, la società in house del suddetto dicastero, a cui è stata affidata la redazione dello studio di fattibilità, il progetto preliminare e il progetto definitivo della bonifica di Micorosa.
Nel 2013 a Brindisi vengono destinati 40 milioni di euro. Con lo Sblocca Italia diventano 48,6. Nel 2015 altri 25. Tutti fondi pubblici da recapitare al Comune attraverso la Regione. In città – dichiara il responsabile unico del procedimento, l’ingegnere Gaetano Padula – “ne sono arrivati 4, non ancora spesi del tutto”. L’unica società, proprietaria di 323 ettari di Sin di cui un centinaio all’interno del petrolchimico, che sta eseguendo la messa in sicurezza a proprie spese nell’area esterna a Micorosa, è Eni (Allegato 5). “Le operazioni di risanamento – fa sapere il colosso petrolifero – hanno raggiunto un avanzamento complessivo pari a circa il 65%. L’impegno economico sostenuto è pari a circa 90 milioni di euro. Si prevede il completamento della bonifica della falda tra circa 10 anni e del progetto Micorosa in 2”.
Una battuta d’arresto, però, potrebbe essere causata dallo stop ai lavori nella parte interna a Micorosa, gestita dallo Stato, giacché le operazioni di risanamento dovrebbero procedere di pari passo. Il contratto tra il Comune e il consorzio Co.me.ap, che si è aggiudicato la gara d’appalto nel 2014, è stato rescisso dal primo il 14 luglio. Sulla società aggiudicataria le polemiche non si sono mai placate. Ha fatto molto discutere quel 74% di ribasso con cui è stata scelta: la bonifica è stata aggiudicata per 17.637.966 di euro. “Abbiamo mandato tutto alla Procura e lo abbiamo segnalato all’Anac”, fa sapere Doretto Marinazzo, presidente di Legambiente Brindisi (Allegato 9). L’associazione ambientalista aveva espresso perplessità anche sulle spettanze del Comune e della Sogesid. Ambedue oggi sono considerati dal consorzio i responsabili del ritardo dei lavori, che non raggiungo il 10%: “C’è un errore nel progetto – avverte il Co.me.ap – la quantità di materiale per stabilizzare i rifiuti è inferiore a quella necessaria”. Ma Sogesid che l’ha realizzato assicura: “Il progetto definitivo è passato al vaglio della segreteria tecnica bonifiche del ministero dell’Ambiente”. Le motivazioni sono anche altre: “Abbiamo contestato alla stazione appaltante (ovvero il Comune, ndr) – chiarisce il consorzio – di non poter riprendere i lavori per i mancati piani di sicurezza conformi al Covid. Abbiamo fatto un’azione civile per inadempimento contrattuale”. La versione del Comune è diversa: “Dopo aver appreso che il costo del telo di copertura era sottodimensionato e che i volumi di terreno vegetale sono mutati, ci siamo visti notificare un ricorso – spiega Gaetano Padula – la nostra attività è monitorata dal Noe, abbiamo fatto un ordine di servizio paventando il reato di omessa bonifica e abbandono di cantiere”. Ora toccherà interpellare le altre società che avevano partecipato alla gara, per capire se vi sia disponibilità a lavorare con lo stesso ribasso.
Nel 2013 la Provincia ha stabilito che Edison, Eni, le sue due controllate Versalis e Syndial, e la curatela fallimentare Micorosa Srl avrebbero dovuto “attuare le misure di prevenzione necessarie” e procedere alla bonifica (Allegato 6). Tutti hanno presentato ricorsi al Tar di Lecce, che li ha accolti: la discarica è di competenza ministeriale, ma “è corretto affermare che sussiste la responsabilità delle imprese” (Allegato 7). L’unica a vederselo respinto è stata Edison, che nel 2014 si è appellata al Consiglio di Stato che ancora non si è espresso (Allegato 8). Al Fatto il colosso dell’energia ha chiarito: “L’area è nella proprietà, disponibilità e gestione delle società del Gruppo Eni”. Nel 2013 cinque cittadini che riconducono le loro patologie all’esposizione a idrocarburi policiclici aromatici hanno presentato un esposto contro Eni e Montedison, con successiva integrazione. Le indagini sono ancora in corso. Nel 2014, anche il comitato No al carbone e il Forum nazionale dei movimenti per l’acqua si sono rivolti alla Procura e hanno pubblicato un dossier (Allegato 12).
I rifiuti, anche a lavori di confinamento ripresi, resteranno comunque lì perché – spiega il primo cittadino – “costa troppo rimuoverli e non si saprebbe dove portarli”. Dopo anni di incertezze i dati sullo stato di salute della popolazione parlano chiaro. Li si possono consultare nell’ultimo rapporto del Progetto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale (Allegato 10), nello Studio di coorte del 2017 e all’interno della ricerca “Congenital anomalies among live births in a polluted area. A ten-year retrospective study”. Tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie, malformazioni alla nascita sono alcune delle incidenze rilevate. Ci sono familiari, come Rosangela Chirico, che non hanno mai smesso di lottare nelle aule dei tribunali.

Incompetenza e omissioni, in Sicilia la gestione dei rifiuti sembra la “Disneyland” della mafia. - Giuseppe Lo Bianco

Incompetenza e omissioni, in Sicilia la gestione dei rifiuti sembra la “Disneyland” della mafia

La commissione antimafia della regione segnala una lunga lista di omertà, disattenzioni e sottovalutazioni da parte di politici e tecnici. L'assessorato all'Ambiente in mano a dirigenti incompetenti pilotati dagli interessi dei proprietari delle discariche. "Gestione approssimativa e improvvisata, senza alcuna pianificazione".
Rossana Interlandi, Giuseppe Sorbello e Mario Milone si sono alternati al vertice dell’assessorato siciliano Ambiente, ma le variazioni miliardarie di cubatura dei rifiuti che hanno riempito le tasche dei ras delle discariche siciliane decise in quelle stanze, i primi due le hanno apprese dai giornali, il terzo “non l’ha ritenuto importante’’. Il direttore Gaetano Gullo, morto due anni fa, ha ammesso la propria totale incompetenza (“sono stato nominato d’emblée, sono arrivato nel 2013 al dipartimento Ambiente, materia che peraltro non avevo mai affrontato e alquanto complessa. Il codice è di 650 pagine. Riuscire a digerirlo richiede tempo”). Un altro direttore, Sergio Gelardi, ha preferito dare di sé l’immagine di un’Alice nel Paese delle Meraviglie della gestione rifiuti: “Non ero adeguato ed ero stato messo lì in quanto soggetto inadeguato – ha detto – però non ho avuto mai impressione che ci fossero degli affairs sul tema rifiuti’’. E quando Fava gli ha replicato che non era credibile che non si fosse accorto di nulla, Gelardi ha candidamente replicato: “la sincerità mi porta anche a denigrare la mia intelligenza”.
Il governatore Nello Musumeci ha definito nei giorni scorsi i dipendenti regionali per l’80 per cento “gratta pancia”, ma dalle 170 pagine della relazione della commissione regionale antimafia presieduta da Fava sui rifiuti viene fuori un campionario di omertà, distrazioni, omissioni e sottovalutazioni di politici e burocrati regionali preposti alla gestione dei rifiuti con il risultato di far evaporare ogni responsabilità che hanno fatto scrivere a Fava: “per anni i processi decisionali del governo regionale sono stati dettati da una sorta di regia esterna, nonostante la presenza in giunta di nomi autorevoli sul fronte della legalità. Si è, inoltre, provveduto a gestire un settore strategico come quello dei rifiuti senza attuare alcuna pianificazione, ma in maniera del tutto approssimativa ed improvvisata, con evidenti ripercussioni negative su tutto il territorio”.
Una sorta di Disneyland (come l’ha definita lo stesso Fava) siciliana del controllo burocratico sulla raccolta indifferenziata infiltrata dalla mafia, dove da oltre vent’anni, oltre dieci dei quali in regime commissariale, va in scena l’emergenza rifiuti che inghiotte miliardi di euro, tra costi esorbitanti, impianti rimasti incompiuti, differenziata decollata in ritardo, scelte mai adottate, rischi pesantissimi di inquinamento ambientale e nuove voragini nei conti pubblici. Tra il 2009 e il 2011, ha accertato la commissione Fava, il governo autonomista di Raffaele Lombardo amplia cinque discariche: una pubblica, a Bellolampo, sopra Palermo, le altre quattro private: a Siculiana (Agrigento), gestita dalla famiglia Catanzaro, a Lentini (Siracusa) della famiglia Leonardi (Sicula Trasporti), nel catanese, tra Misterbianco e Motta della famiglia Proto (Oikos) e a Mazzarrà Sant’Andrea, nel messinese, già di proprietà della società in liquidazione Tirreno Ambiente.
Autorizzazioni per circa un miliardo e 200 milioni di euro gestite, ha raccontato Sergio Gelardi, senza porsi il problema dell’impatto ambientale, senza alcuna valutazione strategica, “apponendo una firmetta”: “facevo passare quello che vedevo firmato da Zuccarello (Natale, ingegnere responsabile del servizio Via/Vas, ndr), poi l’ho saputo dopo che di fatto Zuccarello faceva passare tutto quello che gli portava Cannova”. Quest’ultimo, condannato a 9 anni per corruzione insieme con uno dei proprietari della Oikos, destinatario “di regalie (spese di viaggio e di soggiorno per lui e la famiglia in hotel) e somme di denaro e in più di un’occasione anche all’organizzazione di incontri con prostitute”, era definito dai colleghi un “ruba galline”: “Lo definivamo ‘ruba galline’ – dice Antonio Patella, dirigente del dipartimento acqua e rifiuti – perché avevamo l’impressione che fosse uno che si prendesse la tangente, però non si immaginava una cosa di questa portata…”. E quando l’ennesimo assessore, Mariella Lo Bello, decide di cacciare “160 dipendenti, sia quelli chiaccherati, che quelli che stavano nelle stanze dei chiaccherati’’ viene smentita da uno dei dirigenti, Giovanni Arnone: erano 100 i trasferiti, ha detto alla commissione, ma “non si parlò di chiacchierati! Chi erano questi chiacchierati? Di questo non è stata fatta assolutamente menzione, né in via formale, né in via informale. Completamente”.
Rifiuti come patate.
Per vigilare sulle scelte e sorvegliare le procedure a novembre del 2014 al vertice dell’assessorato Ambiente arriva un pm della Procura di PalermoVania Contraffatto. E al dirigente Domenico Armenio chiede i criteri di ripartizione dei rifiuti in discarica: “vado in Assessorato, lo chiamo immediatamente, lo convoco in stanza e gli dico ‘scusa, Armenio, me lo dici secondo quale criterio tu decidi che tot va in questa discarica, tot va in quell’altra discarica e gli altri invece se lo tengono a casa? Io avevo una busta davanti, prende questa busta, cioè un foglio A4, la gira dall’altra parte e con la penna inizia a dire ‘cinquecento vanno qua, quattrocento vanno qua, mille vanno qua…’. Io ho detto ‘scusa, ma stiamo parlando di patate? Non l’abbiamo un piano? Non c’era niente, Presidente, assolutamente niente. Questo dirigente gestiva improvvisando”.
Il pm a Crocetta: “Continua così e finirai in prigione”
In quel periodo, dice la Contraffatto alla commissione, “Crocetta (presidente della Regione, ndr) mi esautorò del tutto… veniva in assessorato e si andava a sedere al decimo piano nella stanza del dirigente generale e lì faceva le riunioni, come se fosse lui il dirigente generale”. Al punto che il suo nuovo dirigente, Maurizio Pirillo, era “uno che eseguiva quello che gli diceva Crocetta e basta, senza valutare se le cose si potevano fare, non si potevano fare… fino a quando poi alzavo il telefono, chiamavo Crocetta e gli dicevo che, continuando su questa strada, sarebbe andato a finire in prigione… e che venga arrestato un Presidente della Regione mentre ci sono io come suo assessore che quantomeno due cose di diritto le so e cerco di metterti in guardia…”.