Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 29 marzo 2013
giovedì 28 marzo 2013
Messina, i disabili devono pagare la segnaletica per i parcheggi riservati.
A Messina i disabili che chiedono un parcheggio riservato devono pagarsi le spese necessarie per realizzare la relativa segnaletica stradale: è quanto prescritto da un provvedimento varato dal comune dello Stretto retto dal commissario straordinario Luigi Croce. Che, riferisce la ‘Gazzetta del Sud’, sul pagamento delle spese non intende fare passi indietro. “Non dobbiamo trattare i disabili da persone inferiori sono persone normali, come noi. Come pago io pagano loro, e tra l’altro parliamo di costi irrisori”, ha detto Croce difendendo il provvedimento dalle polemiche da cui è stato investito.
La determina del comune di Messina per l’assegnazione di spazi di sosta “personalizzati per invalidi in zone ad alta densità di traffico” stabilisce i criteri per l’assegnazione dei contrassegni da parte del Comune. Dalla possibilità di avere il parcheggio riservato vengono esclusi i non vedenti. E soprattutto: “il costo relativo alla realizzazione ed alla manutenzione della segnaletica stradale, sia verticale sia orizzontale, di individuazione e delimitazione dello spazio di sosta, nonché la relativa rimozione sono a carico del beneficiario”.
Siamo all'assurdo!
Chi gode di benefit oltre agli stipendi da nababbi pagati dai contribuenti e, quindi, anche dai disabili, dice a questi ultimi che debbono pagarsi le spese per la segnaletica che li riguarda?
Da non credersi!
Chi gode di benefit oltre agli stipendi da nababbi pagati dai contribuenti e, quindi, anche dai disabili, dice a questi ultimi che debbono pagarsi le spese per la segnaletica che li riguarda?
Da non credersi!
mercoledì 27 marzo 2013
Elicotteri Finmeccanica, ministro Difesa indiano ammette: “Corruzione e tangenti”.
"Qualcuno si è fregato dei soldi", ha avvertito Arackaparambil Kurien Antony, spiegando che "l'indagine è in una fase cruciale" e "non saremo misericordiosi con nessuno, per quanto grande e potente". Promesse "misure molto severe" per chi è coinvolto.
“Qualcuno si è fregato dei soldi“. Il ministro della Difesa indiano è intervenuto così sulla discussa commessa da 12 elicotteri concordata tra New Delhi e Augusta Westland, controllata di Finmeccanica, che ha portato a febbraio all‘arresto del suo numero uno Giuseppe Orsi. “C’è stata corruzione e sono girate delle tangenti“, ha avvertito Arackaparambil Kurien Antony, spiegando che “l’indagine è in una fase cruciale” e “non saremo misericordiosi con nessuno, per quanto grande e potente, che è andato contro il patto di integrità”.
“Il Central Bureau of Investigation [agenzia investigativa del governo indiano, ndr] sta portando avanti i controlli, insieme al mio impegno in parlamento”, ha ricordato secondo quanto riportano i principali quotidiano indiani, “non c’è dubbio che saranno adottate delle misure molto severe per chi è coinvolto”.
Rispondendo a chi gli chiedeva se l’India andrà avanti con l’acquisto dei siluri “black shark” da Whitehead Sistemi Subacquei, controllata di Finmeccanica, il ministro indiano ha chiarito che non è ancora stata presa una decisione finale. “Non è successo niente per ora”, ha avvertito. E ha aggiunto: “Si procederà solo ai sensi di legge, per ora stiamo aspettando che finisca l’inchiesta su Agusta Westland”.
Il ministero della Difesa indiano aveva annunciato a febbraio di avere iniziato un’azione percancellare il contratto di fornitura dei 12 elicotteri AW-101. Ma Augusta Westland aveva subito precisato che “il ministero della Difesa indiano non ha cancellato il contratto per gli elicotteri, ma ha invece richiesto alla società di fornire alcuni chiarimenti”.
Giustizia e politica, monito Commissione Ue: “Giù le mani dai giudici”.
I continui attacchi alla magistratura, culminati con la manifestazione organizzata dal Pdl al tribunale di Milano, non lasciano indifferente l’Europa. ”Giù le mani dai giudici. Se si vuole che la magistratura sia davvero indipendente, bisogna lasciarla lavorare”. Il commissario alla giustizia Viviane Reding risponde così a chi le chiede se non ritiene che in Italia il conflitto tra politica e giustizia sia una delle cause dell’inefficienza del sistema. L’appello della Commissione europea arriva forte e chiaro, a margine della presentazione di un documento di monitoraggio sulla giustizia che situa l’Italia agli ultimi posti della graduatoria. ”L’Italia e il governo Monti - aggiunge Reding – sono consapevoli che il problema dell’efficienza del sistema della giustizia civile e amministrativa ha un impatto molto negativo sugli investimenti”. Il commissario spiega che nell’ultimo anno ha “lavorato in stretto contatto con le autorità per riformare il sistema e renderlo più efficiente, affinché i casi amministrativi trovino risposte più rapide e gli investitori abbiano certezza legale”. Ma questo lavoro, sottolinea, “deve continuare”.
Tra i dati allarmanti riguardanti il nostro Paese c’è quello della durata dei processi: in Italia – segnala il rapporto – occorrono in media più di 800 giorni per risolvere i procedimenti giudiziari che riguardano cause civili e commerciali. Lo strumento presentato, spiegano a Bruxelles, servirà a individuare obiettivi strategici per il funzionamento del sistema giudiziario nei 27 paesi membri. “L’attrattiva di un Paese per essere un luogo dove investire e fare business è senza dubbio rafforzata dall’avere un sistema giudiziario indipendente ed efficiente”, spiega Reding. “E’ per questo che le riforme giudiziarie nazionali sono diventate una componente strutturale importante della strategia economica dell’Europa. La nuova ‘Classifica della giustizia europea’ avrà la funzione di un sistema di preallarme e aiuterà l’Ue e gli stati membri nei nostri sforzi per raggiungere una giustizia più efficace al servizio dei nostri cittadini e degli affari”.
Il vice presidente degli Affari economici e monetari Olli Rhen aggiunge: “Una giustizia efficiente, indipendente e di alta qualità è essenziale per un ambiente che favorisce il business. Questa nuova iniziativa della Ue aiuterà gli stati membri a rafforzare i loro sistemi legali e i loro sforzi per stimolare investimenti e creazione di posti di lavoro”.
I Ds hanno nascosto 200 milioni di euro. Il Pd: “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, cioè noi. - Stefano Feltri
Il Pd, o meglio, la sua componente ex Ds, è responsabile di un buco di quasi 200 milioni di euro nei bilanci delle principali banche italiane. “E che problema c’è? Pagherà lo Stato”, dice al Fatto l’eterno tesoriere Ds, Ugo Sposetti, appena ricandidato dal Pd.
Il Monte Paschi non c’entra, la questione riguarda quasi tutte le altre grandi banche italiane. Che, dopo anni di trattative e benevola tolleranza, sono passate all’attacco, stimolate dalla crisi: vogliono indietro i soldi. E chiedono di annullare le donazioni con cui i Ds hanno sottratto ai creditori il loro immenso patrimonio immobiliare, superiore al mezzo miliardo di euro, quando sono confluiti nel Pd. Se non riescono a rifarsi su quei beni, scatterà la garanzia dello Stato che copre quasi tutto il debito. Grazie a un apposito provvedimento del governo D’Alema. Nella lunga saga del debito post-comunista si è aggiunta una ulteriore variabile che Sposetti non controlla: un avvocato di Barletta, Antonio Corvasce, che da anni conduce nei tribunali una battaglia per presentarsi alle elezioni con lo storico simbolo dei Ds, la Quercia, di cui rivendica la titolarità.
La nullità delle donazioni La storia è complessa e conviene partire dalla fine. Il 24 giugno 2012 viene notificato ai Ds, che non solo esistono ma hanno ancora una sede a Roma, un decreto ingiuntivo: UniCredit si è stancata di aspettare, vuole indietro i suoi 29 milioni di euro più gli interessi maturati dal 2011 e le spese. Chiede quindi al Tribunale civile di Roma di annullare la donazione di un immobile di Bergamo da parte dei Ds alla Fondazione Gritti Minetti (che ne detiene 58). L’atto è “senz’altro revocabile” perché ha creato “un evidente, grave, pregiudizio alla ingente ragione di credito certa, liquida ed esigibile vantata dalla UniCredit Spa” verso i Ds. Sempre Uni-Credit, per le stesse ragioni, contesta anche la donazione di un appartamento a uso ufficio e di un magazzino a Udine, trasferiti gratis dai Ds alla Fondazione per il Riformismo nel Friuli Venezia Giulia. Anche Efibanca, gruppo Banco Popolare, rivuole i suoi 24 milioni, Intesa i suoi 13, 7 e così via. Fino ad arrivare ai 176 milioni indicati nel bilancio 2011, poi lievitati a causa degli interessi. Le banche, dice sempre il consuntivo 2011, l’ultimo disponibile, hanno già pignorato 30 milioni di rimborsi elettorali ancora da ricevere. E il resto? Niente. Nessuna garanzia o quasi, visto che tutti i beni immobili dei Ds sono stati trasferiti a fondazioni che giuridicamente non hanno alcun legame con il partito. Ugo Sposetti, al Fatto, dice: “Sono beni che erano del partito nazionale, ma che se ne fa l’UniCredit di un piccolo immobile, un circolo dove si riuniscono i lavoratori?”. E ripete la battuta con cui ha tacitato ogni obiezione in questi anni: “Lunga vita ai debitori”.
Tanta sicurezza deriva da una doppia assicurazione: gli immobili sono stati posti fuori dal perimetro del partito, lontano dagli artigli dei creditori. E sul debito una provvidenziale legge del 14 luglio 1998 (governo Prodi), ritoccata da un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri nel febbraio 2000 (quando, guarda caso, a Palazzo Chigi c’era D’Alema): la garanzia statale pensata per i giornali sovvenzionati che dovevano incassare contributi da Palazzo Chigi veniva estesa anche a “soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie”. Se le banche non riescono ad avere indietro gli immobili dei Ds, insomma, i loro debiti li pagheremo noi contribuenti.
Il patrimonio al sicuro C’era una ragione politica per conferire il patrimonio dei Ds alle fondazioni, cioè a organismi territoriali senza scopo di lucro incaricati di tenere viva la tradizione del partito e custodirne la ricchezza: in tanti, sotto la Quercia, pensavano che l’e-sperimento del Partito democratico non sarebbe durato. E allora nel 2007 si è fatto un matrimonio con la Margherita con la separazione dei beni. Casomai si dovesse tornare indietro. Anche perché i Ds erano ricchi sul territorio e poveri a Roma, al contrario dei margheriti. A Roma il partito di Francesco Rutelli poteva contare sul tesoretto dei rimborsi elettorali da gestire e da spartirsi con alcuni dirigenti, anche in quel caso in autonomia, alle spalle del Pd. Sappiamo com’è finita, con il tesoriere Luigi Lusi, ex senatore, in galera.
I Ds sembravano immuni a questo genere di problemi. Anche grazie, forse, al fatto che il debito accumulato dal Pci era stato ristrutturato nel 2003 da Sposetti, Massimo D’Alema (allora presidente dei Ds) e dal banchiere di fiducia del partito, Cesare Geronzi, all’epoca numero uno della Banca di Roma. Istituto che poi è confluito in UniCredit, capofila dei creditori, guidato a lungo da un altro banchiere non certo ostile al Pd, Alessandro Profumo. Quando è subentrato il meno politicamente connotato Federico Ghizzoni, nel 2011, UniCredit ha iniziato a farsi sotto. E la magia di Sposetti si è dissolta.
Le parti e il tutto La tesi di Sposetti è sempre stata che quasi tutto il patrimonio immobiliare non era a disposizione del partito centrale, visto che si è accumulato in gran parte grazie ai lasciti di militanti che, morendo, affidavano i propri beni ai segretari di federazione, sul territorio: “Non è che perché si chiamano uguale sono la stessa cosa”, dice. Però le banche si sono stancate di credere a questa versione in cui la testa era indipendente dal corpo. Anche perché l’unitarietà del partito traspare facilmente. Per esempio nel settembre 2009, quando l’inclusione dei Ds nel Pd è ormai compiuta, Sposetti scrive a tutti i tesorieri locali e ordina loro di chiudere i conti correnti e trasferire i soldi su un conto romano, cioè al partito centrale. Basta che venga dichiarato nullo un singolo atto di donazione e tutta la costruzione di Sposetti crollerà. Con un potenziale effetto politico interessante: se le donazioni vengono annullate, chi metterà le mani sugli immobili rimanenti, una volta soddisfatte le banche? Tutto il Pd? O se ne occuperanno di nuovo gli ex Ds, Pier Luigi Bersani incluso? Chissà.
Gli altri Ds Le banche hanno un alleato imprevisto nel tentativo di dimostrare che nel 2007 Fassino, Sposetti e la dirigenza dei Ds (c’erano D’Alema e Bersani) hanno fatto cose che non potevano fare, sottraendo gli immobili ai creditori. Si chiama Antonio Corvasce, un avvocato di Barletta che sostiene di essere l’autentico presidente dei Ds, o meglio, del “Partito dei democratici di sinistra, nuova denominazione del Partito democratico della sinistra”. Nel 2008, da consigliere comunale di Barletta eletto nelle file dei Ds, ha annunciato di non aderire al Pd e di rimanere Ds: chi ha partecipato alle primarie democratiche (questa è la sua tesi) ha perso ogni diritto sullo storico simbolo e anche sul patrimonio del partito. “Lo statuto dei Ds vieta la doppia tessera, chi si iscrive a un altro partito si mette fuori”, spiega Corvasce. Che ha riunito un comitato di base e nel 2008 ha convocato un congresso “per la continuità”, sostenendo che i veri di Ds sono quelli che lui guida ancora oggi. Finora quasi tutti i giudici hanno dato ragione a Sposetti e Fassino. Ma Corvasce insiste e, assieme al rappresentante legale del suo partito, il tesoriere Vito D’Aprile, chiede a Sposetti e Fassino di produrre in tribunale documenti per dimostrare che nel 2008 la gestione del patrimonio è stata regolare.
Il verbale misterioso La linea di Fassino e Sposetti si fonda sull’assemblea dei Ds del 26 giugno 2008, la prima dopo la nascita del Pd, decisiva per far proseguire l’esistenza del partito (e assicurarsi così i rimborsi elettorali). Quell’assemblea serve a dimostrare che c’è stata continuità, che Corvasce non può prendersi il simbolo. Fassino e Sposetti producono, nella causa civile contro Corvasce, D’Aprile e i “nuovi” Ds, il verbale di quell’assemblea. Corvasce presenta querela di falso: sostiene che quell’assemblea non c’è mai stata, che Fassino, Sposetti e gli altri hanno gestito i beni del partito come fossero cosa loro violando lo statuto. Il giudice dovrà pronunciarsi.
Ma alcuni dati sono oggettivi: allegata al verbale c’è una lettera di Fassino che, da segretario, annuncia l’apertura del tesseramento nazionale per i Ds il 16 giugno 2008 (quando già c’era il Pd). Dieci giorni dopo il tesseramento è già finito e gli iscritti si trovano all’Hotel Artemide di Roma. Nel verbale si legge che “l’assemblea è costituita in forma totalitaria essendo presenti tutti gli iscritti”. Peccato che poi, nel foglio delle firme, ci siano molti dirigenti che non hanno firmato (i veltroniani Tonini e Bettini, per esempio). Tra quelli che risultano presenti ci sono Pier Luigi Bersani, Antonio Bassolino, Massimo D’Alema. C’è anche la firma di Vincenzo Vita, senatore uscente Pd, che oggi al Fatto dice: “Ho un vago ricordo di quella riunione”. Ma c’era stato davvero un nuovo tesseramento Ds dopo la nascita del Pd? “No, ma quale tesseramento? I Ds hanno continuato a esistere come entità amministrativa, non c’è più stata alcuna attività politica”. Altri dettagli: Fassino e Sposetti producono in tribunale una prima versione del verbale in cui i fogli delle firme non sono autenticati dal notaio. Corvasce protesta ed ecco che appaiono i timbri notarili, ma l’autentica è di due anni dopo, 2010. Sposetti allega anche un video dell’assemblea, in cui Fassino esordisce dicendo che, visto che i Ds non hanno più iscritti, è ora di liquidarne il patrimonio. Il contrario di quanto afferma per iscritto.
Berlinguer sfratta Gramsci Le banche creditrici saranno ben felici di sfruttare queste informazioni per sostenere che le donazioni immobiliari sono nulle. E che le fondazioni locali servono solo a tenere i beni al riparo dal pignoramento (non si registra praticamente alcuna loro attività politica). Nella maggior parte dei casi si limitano ad affittare i locali al Pd. Che paga l’affitto. E se non lo fa viene sfrattato come a Sestu, in Sardegna: Enrico Berlinguer (la fondazione) ha sfrattato Antonio Gramsci (il partito). Uno dei tanti paradossi dovuti alle contorsioni con cui i Ds hanno cercato di far sparire i loro debiti milionari. Senza riuscirci.
Tares, Irap e Irpef: le scadenze fiscali dell’estate torrida.
Tutte le scadenze fiscali di giugno e luglio 2013: per le piccole medie imprese sarà un salasso
L’estate 2013, e in modo particolare il mese di giugno, si preannunciano molto calde, almeno dal punto di vista fiscale. Tares, Irap e Irpef si accumulano in pochi giorni: le scadenze fiscali ravvicinate e pesanti quantitativamente, rappresentano un vero e proprio salasso per lavoratori autonomi e piccoli imprenditori.
Le simulazioni realizzate presso l’ Ufficio studi della Cgia di Mestre parla di cifre preoccupanti: tra versamenti Inps, tassa annuale di iscrizione alla Camera di Commercio, saldo della prima rata Imu 2013, pagamento della nuova Tares (tassa rifiuti), autoliquidazione Irpef (con saldo 2012 e acconto 2013) si rischia di arrivare fino a 25.700 euro circa (per le società di media grandezza con 2 soci e 10 dipendenti).
In base alle stime della Cgia di Mestre, realizzate sulla base di quattro differenti tipologie di attività, “un commerciante pagherà tra i 4.452 e i 4.676 euro; un artigiano tra i 6.948 e i 7.206 euro; una società di persone con 2 soci e 4 dipendenti tra i 17.733 e i 18.409 euro; una società di capitali con 2 soci e 10 dipendenti tra i 25.401 e i 25.737 euro”. La forbice è rappresentata dall’applicazione di due scenari diversi:
“Nel primo sono state utilizzate le aliquote medie dell’Imu e delle addizionali Irpef, nonché la maggiorazione della Tares pari a 0,3 euro al metro quadrato. Nel secondo, invece, si è immaginato uno scenario più pessimistico rispetto al precedente, ipotizzando che le Regioni e gli Enti locali elevino sino al valore massimo consentito le aliquote dei tributi interessati da questa scadenza e che la maggiorazione della Tares si attesti a 0,4 euro al metro quadrato”.
Secondo i calcoli dei sindacati Cgil, Cisl e Uil tra giugno e luglio, lo Stato incasserà 11,6 miliardi di acconto Imu, 14,4 miliardi di saldo Irpef, 4 miliardi di acconto Tares e 1,8 miliardi ottenuti dall’aumento dell’Iva.
Acconto Irpef 2013: deducibilità al 20%
Per il periodo di imposta 2013 la deducibilità ai fini Irpef è passata dal 40% al 20%. La misura si applica anche per gli acconti 2013 (Aliquote Irpef 2013, ecco quali sono: http://
Agevolazioni Irap per chi assume giovani e donne
Il DL “Salva Italia” ha introdotto la deducibilità dell’Irap relativa al costo del lavoro compensando quindi, anche se solo parzialmente, il taglio della percentuale Irpef deducibile. In particolare le aziende che assumono donne o giovani sotto i 35 anni possono usufruire della deduzione fino a a 10.600 euro (fino a 15.200 per le imprese collocate nei territori del Sud e delle Isole) (Agevolazioni Imprese: deduzione Irap nel Decreto Salva Italia: http://
Contributi Inps: aumenti fino al 2018 per artigiani e commercianti
Per il 2013 aumentano anche i contributi Inps. Artigiani e commercianti pagheranno l’0,45% annuo in più. L’aumento continuerà in maniera progressiva fino al 2018: gli obiettivi sono, rispettivamente, il 24% e il 24,09%.
Nuova Tares: calcolo e rate
Nell’anno in corso, come noto, la Tares ha preso il posto della vecchia Tarsu. Le rate Tares non saranno più quattro, come inizialmente previsto, ma due. Dovendo assicurare la copertura totale del costo dello smaltimento dei rifiuti, la nuova imposta risulta più pesante. A questo si aggiunge una maggiorazione di 0,3 euro al metro quadrato (che, a discrezione del Comune, può essere elevato di un ulteriore 0,1 cent). Il pagamento della prima rata Tares è in programma proprio per il mese di luglio (Tares: tenere conto delle esigenze dei contribuenti: http://
Imu 2013: si paga di più per i capannoni
Quello che preoccupa maggiormente i contribuenti è il saldo della prima rata Imu 2013. Per quanto riguarda piccoli e medi imprenditori peraltro è previsto un aumento dell’imposta sui capannoni dovuto all’inasprimento del coefficiente per la determinazione della base imponibile (che passa da 60 a 65) (Imu 2013, tutte le novità in vigore da quest’anno: http://
Chiusura piccole medie imprese: come evitare il fallimento
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, pronostica che, allo stato dei fatti, l’inizio della stagione estiva potrebbe costringere alla chiusura delle aziende, stressate dagli oneri fiscali e senza liquidità.
L’invito ai leader politici è quello di costituire in tempi brevi il nuovo governo e affrontare immediatamente questa intervenendo in via preferenziale sull’alleggerimento dell’impatto della nuova tassa sui rifiuti (Tares) e sul ventilato aumento dell’Imu sui capannoni ma soprattutto impedendo l’aumento Iva al 22% in calendario dal primo luglio. Altre misure per impedire il fallimento delle piccole imprese riguardano la liquidità e si concretizzano nell’agevolazione dell’accesso al credito e nello sblocco immediato dei crediti che le aziende vantano nei confronti della Pubblica amministrazione (e che ammontano a circa 70 miliardi).
Fonte: http://
Un gioco al massacro!
Iscriviti a:
Post (Atom)