Come l’anno scorso il convitato di pietra è un Matteo. Ma se nel 2019 si trattava del Salvini ex alleato e avversario ormai sconfitto, questa volta nella conferenza finale di un calvario chiamato 2020 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte deve rispondere spesso su un nemico attualissimo, quel Renzi con cui ieri guerreggia a colpi di citazioni di Aldo Moro.
Schermaglie dietro la sostanza, evidente: Conte non arretra e non vuole “vivacchiare o galleggiare” come ripete più volte. Ergo, “se verrà meno la fiducia di un partito andremo in Aula e ognuno si assumerà le proprie responsabilità”. Quindi a inizio gennaio porterà il documento sul Recovery Fund in Consiglio dei ministri. E se Iv dovesse mostrare pollice verso, il premier sfiderà Renzi a sfiduciarlo davanti al Paese.
Perché è vero, il premier prova a giurarlo: “Il presidente del Consiglio non sfida nessuno”. E figurarsi se può ammettere di pensare al voto anticipato, magari con una sua lista: “Non mi appartiene ragionare di questo, non posso distrarmi pensando a una campagna elettorale”. Però nella conferenza in una gelida Villa Madama, tra giornalisti con mascherine e distanziamenti, l’avvertimento lo lancia e fa rima proprio con sfida. Del resto a chi gli evoca eventuali responsabili come sostituti dei renziani in Parlamento, Conte assicura: “Non cerco altre maggioranze, e non si governa senza coesione”. Sintesi: se l’attuale coalizione giallorosa non dovesse più esistere, andare avanti in qualche modo con i voti di ex forzisti e transfughi vari non gli interessa.
Meglio altro, cioè le urne. “Forse non subito ma in primavera, in un election day con le amministrative” soffiano voci trasversali dai palazzi, secondo cui “prima bisognerà comunque varare il Recovery Plan, con i numeri che si troveranno”. Poi si potrà anche votare. Anche perché nei Palazzi è diffusa un’altra convinzione: “Il Quirinale non accetterebbe la terza maggioranza diversa in tre anni”. La certezza è che Conte ha fretta. Per questo raccoglie l’invito di prevedere “percorsi accelerati” per il Recovery lanciatogli tramite Repubblica dal commissario europeo Gentiloni: “Se non si rispetta il cronoprogramma semestrale le erogazioni sono sospese o si devono restituire i fondi. Serve un meccanismo che stabilisca cosa succede se si accumulano ritardi e si rischia di perdere le somme”. Quindi arriverà “un decreto per la struttura di monitoraggio e i percorsi preferenziali”. Ma soprattutto bisognerà essere rapidi: “Dobbiamo accelerare, avremo la riunione finale sul Recovery al massimo agli inizi di gennaio. E a metà febbraio avremo la presentazione finale del documento”. Però poi ci sarebbe sempre Renzi, che pochi minuti prima in Senato aveva citato Moro: “La verità è sempre illuminante”. E un’oretta dopo Conte gli replica così: “Gli ultimatum non appartengono al mio bagaglio culturale e politico. Moro disse che non sono ammissibili in politica perché portano a un precipitare delle cose e a impedire una soluzione positiva”. Colpi di fioretto.
Ma il premier usa anche la clava, quando dice no a Renzi su un tema caldissimo, quello dei servizi segreti: “Chi chiede al premier di abbandonare la delega sui servizi deve spiegare perché: è una prerogativa del presidente del Consiglio. E poi neanche il mio predecessore Gentiloni aveva assegnato ad altri questa competenza”. Mentre è meno inflessibile sul rimpasto: “Ogni capitano difende la propria squadra, ma se il problema verrà posto lo affronteremo”. Ma entro certi limiti. Perché per esempio di avere due vicepremier proprio non ha voglia: “Nello scorso governo questa formula ha avuto scarso successo”.
E suona anche come un graffio al fu vice Luigi Di Maio. Ma ora le priorità sono altre, per il premier, che la butta lì: “La crisi? Non voglio credere a uno scenario del genere”. E sembra un esorcismo.
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