Ieri, in stereofonia, quei due bocciuoli di rosa di Francesco Gaetano Caltagirone e Matteo Salvini hanno notificato l’ingiunzione di sfratto a Virginia Raggi. Il primo l’ha fatto con editoriale a tutta prima pagina del suo Messaggero, dal titolo: “Raggi incapace, Roma muore. Perché la sindaca deve passare la mano dopo tre anni di non governo”. Il secondo, sincronizzato al minuto, ha annunciato il programma della Lega per prendersi Roma con due anni di anticipo sulla scadenza della sindacatura. Nulla di strano, intendiamoci. La Lega è all’opposizione della giunta dei 5Stelle, anche se governa con loro a livello nazionale. E il Messaggero, cioè Caltagirone, è all’opposizione della Raggi fin da prima che la Raggi fosse eletta. Il 20 marzo 2016, in campagna elettorale, la candidata M5S aveva detto a Sky che, se eletta, avrebbe “cambiato il management di Acea, composto da un’accozzaglia di nomi in gran parte scelti da Caltagirone con il lasciapassare del suo amico Renzi”. Quattro giorni dopo il Messaggero sparò in prima pagina: “Il caso Acea. La Raggi parla e i romani perdono 71 milioni. Dopo le imprudenti dichiarazioni della candidata-sindaco, le azioni Acea crollano del 4,7%. Bruciati 142 milioni. Il danno maggiore è per il Campidoglio, azionista al 51%”. Morale: cari romani, non votate per una tizia che pronuncia “parole demagogiche e irresponsabili”, di cui “non comprende assolutamente la portata distruttiva”, un’ignorante “inesperta” che “parla senza rendersi conto dei danni che fa”. Figurarsi “che succederà se diventerà sindaco”.
Nella fretta, le zelanti penne caltagironiche si scordarono di indicare i consoci del Comune in Acea: soprattutto il principale, col 15,8%, cioè Caltagirone che pagava loro lo stipendio. Quanto al crollo del titolo a causa della Raggi, era una fake news. L’intervista fu domenica 20 (a mercati chiusi) e il calo azionario mercoledì 23: difficile che in Piazza Affari se ne stiano tre giorni paralizzati a compulsare le frasi di una candidata prima di organizzare la fuga dal titolo. Ma soprattutto: il crollo del titolo non costò un euro (figurarsi 71 o 142 milioni) al Comune né ai “romani”: a meno che costoro non avessero venduto titoli Acea proprio in quei giorni. Purtroppo i romani non credettero al Messaggero e plebiscitarono la Raggi col 67,15%. L’ottavo re di Roma, abituato con gli altri sindaci a scriversi i piani regolatori a domicilio per riempire la città di capolavori come le Vele di Tor Vergata, i cantieri della MetroC, i quartieri-alveare nelle periferie e candidarsi al Premio Attila alla carriera, si listò a lutto.
Ma le provò tutte per convincere la Raggi a tradire l’impegno elettorale di ritirare la candidatura alle Olimpiadi 2024. Era chiaro che, se la sindaca avesse garantito ai palazzinari l’ennesima mangiatoia a spese nostre, avrebbe avuto cinque anni di buona stampa, anche se l’avessero beccata a rapinare le banche o a scippare le vecchiette. Invece la Raggi mantenne la promessa e salvò la città dal default che di solito segue ai Giochi (vedi Atene, Rio de Janeiro e figurarsi Roma con i suoi 15 miliardi di debiti). E si attirò addosso un bombardamento atomico permanente, quotidiano, preconcetto su tutti i media, a prescindere dai suoi errori (tanti) e dai suoi meriti (pochi). Una guerra senza quartiere che, se fosse stata ingaggiata prima contro i sindaci precedenti, avrebbe risparmiato a Roma quasi tutti i suoi guai. Prima l’assalto all’ottima assessora all’Ambiente Paola Muraro, dipinta come una Riina in gonnella fino alle dimissioni e poi prosciolta da tutto. Poi la mostrificazione della stessa Raggi, un giorno Messalina mangia-uomini, uno corrotta, uno riciclatrice di polizze, uno fascista, uno comunista, uno vecchia e racchia, sempre colpevole di tutto, anche dei topi ottuagenari, delle buche secolari, delle piogge autunnali.
La infilarono persino nel dossier prefettizio dei complici di Mafia Capitale, salvo poi scoprire (e nascondere) che i Casamonica vogliono farle la pelle per aver demolito i loro villini abusivi, sempre tollerati dai sindaci bravi e capaci, quelli che avevano consegnato le chiavi del Campidoglio a Buzzi&Carminati&C. e accumulato 15 miliardi di debiti. La Raggi e la sua giunta hanno colpe enormi: molti assessori e manager delle municipalizzate scelti male e cambiati come calzini, ritardi abissali su rifiuti, strade, trasporti, degrado e periferie. Ma, come sempre accade ai 5Stelle, pàgano i loro pochi meriti: l’onestà personale e la correttezza amministrativa, i bandi di gara (prima pressoché sconosciuti) per ogni appalto e iniziativa pubblica, il freno alla deriva poliziesca salviniana, la lotta agli affitti non pagati dai compagnucci de sinistra e dai camerati okkupanti di Casa Pound, il via libera allo stadio della Roma (purtroppo appannaggio di un concorrente di Caltagirone) ma senza speculazione, il salvataggio di Atac col concordato preventivo, le battaglie contro la privatizzazione dell’acqua (meraviglioso ieri, sul Messaggero del socio Acea, il peana all’“Acea gioiello dai conti floridi, a riprova che la cura e il controllo dei privati giova anche a chi vorrebbe addirittura l’acqua pubblica”). Ora infatti tutti, Messaggero in testa, lavorano indefessi per un bel sindaco leghista anche a Roma, e pretendono che la Raggi gli liberi la poltrona con due anni d’anticipo perché i caltagirini han deciso così. Salvini è pronto: non si dà pace che “la giunta neghi perfino il taser ai vigili come previsto dal Dl Sicurezza” (ecco cosa manca a Roma: il taser ai vigili!). E annuncia: “Stiamo lavorando in tutti i quartieri per un programma alternativo. L’obiettivo è rilanciare la città e confermare anche qui il buon governo della Lega”. Tipo alla Regione Lombardia o a Legnano, per dire.