Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 30 giugno 2010
Quanto ci costa il porto voluto da Scajola - Ferruccio Sansa
La colata di cemento
I riflettori si accendono ancora una volta su quest’opera faraonica: 1.440 posti barca più 117 appartamenti. Il tutto realizzato dall’Acquamare di Francesco Bellavista Caltagirone (non indagato), noto anche per aver partecipato alla cordata Alitalia sponsorizzata dal Governo. L’Acquamare a sua volta detiene il 33 per cento della società Porto di Imperia spa. Un altro terzo è del Comune di Imperia. L’ultima fetta è in mano a imprenditori locali tra cui risultava anche Pietro Isnardi, consuocero di Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro, ma soprattutto suocero diMarco Scajola, fino a pochi mesi fa vicesindaco della città.
Il nuovo scalo è forse la più grande colata di cemento in una Liguria dove i porticcioli – benedetti da centrodestra e centrosinistra – sono stati il cavallo di Troia per milioni di metri cubi di costruzioni. Proprio quel porto di cui Angelo Balducci era stato nominato commissario. E la presenza nella Riviera dei Fiori di uno dei protagonisti delle indagini sulla Cricca sta attirando sul progetto l’attenzione delle procure. Non soltanto di quella imperiese. Gli investigatori stanno valutando molti elementi, “come il mancato svolgimento di gare di evidenza europea”.
Caltagirone, Scajola e Fiorani
Ma il mega-porto, perfino nella Liguria scajolizzata, aveva suscitato perplessità già prima che arrivasse il cemento. Così qualcuno ricorda quel volo in elicottero compiuto nel 2003 per visionare dall’alto le opere. A bordo, oltre a Bellavista Caltagirone, c’erano Scajola e Gianpiero Fiorani che nel cemento ligure sognava di investire cento milioni.
L’episodio, nonostante le inchieste sulle scalate bancarie dell’estate 2005 (Francesco Bellavista Caltagirone partecipò all’operazione Antonveneta attraverso Hopa, ma non fu indagato), fu presto dimenticato. Nel 2006 ecco il taglio del nastro dei cantieri, presenti Scajola e il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Soltanto la Cgil, guidata allora da Claudio Porchia, tentò di sollevare la questione. Scajola replicò: “Caro Porchia, non sei il sindaco di Imperia, sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”. L’ex ministro si beccò una querela, ma invocò l’immunità parlamentare. Le ruspe andarono avanti, nonostante un’inchiesta per le variazioni in corso d’opera (ammesse dagli stessi costruttori) per un enorme capannone portuale. Una situazione paradossale: per autorizzare la costruzione era necessaria una variante dello stesso comune che è proprietario di un terzo della società. Per non dire dell’ipotesi di una condanna: il Comune rischiava di pagare, attraverso la società, una sanzione a se stesso. Alla fine, però, è giunta la contestata richiesta di archiviazione.
Basta? Neanche per sogno, perché qui si affaccia Balducci. All’inizio del 2008 gli enti pubblici dovevano nominare la Commissione incaricata di verificare la conformità del porticciolo alla concessione demaniale. Bisognava esaminare le opere a mare realizzate, ma soprattutto andavano stabiliti gli oneri che il concessionario doveva pagare allo Stato. Una verifica amministrativa, ma anche contabile, su cui puntavano gli occhi Bellavista Caltagirone e Beatrice Cozzi Parodi (sua compagna e socia, soprannominata “Nostra Signora dei porticcioli”). La prassi, in questi casi, è che si scelga un membro dell’amministrazione. Invece venne designato anche Balducci. Chi lo scelse? Tutti puntano il dito sull’allora sindaco di Imperia, Luigi Sappa (Pdl), vicino a Scajola (è stato poi scelto dal Pdl come presidente della Provincia di Imperia). Balducci venne nominato presidente della Commissione, ma dopo un paio di mesi si dimise.
Intanto i lavori procedevano: nel 2009 ecco l’inaugurazione del molo lungo, presenti Scajola e Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset.
Adesso, però, l’ultima tegola: il parere dei tecnici della Regione Liguria. Che non usano mezzi termini: “Il concessionario non ci ha fornito la documentazione necessaria per svolgere pienamente i propri compiti… nonostante richieste in tal senso siano state espresse e reiterate più volte”. E il documento conclude: “La Commissione ritiene che il comportamento del concessionario costituisca una violazione degli obblighi previsti”. La Commissione così sospende la propria attività chiedendo alle autorità di “valutare l’opportunità di procedere all’avvio del procedimento di decadenza della concessione”. Firmato: ingegner Roberto Boni, il tecnico indicato dalla Giunta Burlando che negli ultimi anni ha mostrato cautele sul progetto.
La concessione e le accuse
Il ritiro della concessione sarebbe un terremoto. La Porto di Imperia Spa replica alle accuse: “Le osservazioni sono incongruenti e fuorvianti, nonché destituite di fondamento. Abbiamo sempre fornito tutte le informazioni utili, l’assistenza necessaria e la massima disponibilità per i controlli a cui la Commissione è tenuta per legge”. E i costi cresciuti di 110 milioni? “L’aumento è dovuto a una maggiore qualità, bellezza e durata dell’opera. La spesa resta a carico della Acquamare, gli enti pubblici non pagheranno un euro”.
Tutti tranquilli? Niente affatto. Giuseppe Zagarella e Paolo Verda, consiglieri comunali del Pd, da anni si oppongono al porticciolo: “Adesso devono essere fornite alla Commissione tutte le carte richieste sulle spese sostenute e la loro fatturazione. La società cui sono rivolte le fatture è partecipata dal Comune. Abbiamo paura che un terzo dei costi aggiuntivi, cioè quasi 40 milioni, possano essere a carico dei cittadini”. Anche di questo si occuperà la Procura.
Sette anni, ne dimostra di più - Marco Travaglio
Dopo il 1992, cioè negli anni delle stragi politico-mafiose e della successiva nascita di Forza Italia (un’idea sua), mancano le prove che abbia seguitato a farlo per il Cavaliere politico. Questo, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, è quanto si può dire a una prima lettura del suo dispositivo.
Qualche sito e qualche cronista (tra cui, sorprendentemente, quello di Sky) si sono subito affannati a concludere che “è stato smentito Spatuzza”: ma questo, finchè non saranno note le motivazioni, non lo può dire nessuno. Molto più probabile che i giudici abbiano stabilito, com’è giusto, che le sue parole – né confermate né smentite – da sole non bastano, senza riscontri. Riscontri che avrebbe potuto fornire Massimo Ciancimino, se i giudici Dell’Acqua, Barresi e La Commare avessero avuto la compiacenza di ascoltarlo, prima di decidere apoditticamente, senza nemmeno averlo guardato in faccia, che è “inattendibile” e “contraddittorio”.
Riscontri che già esistevano prima che Spatuzza e Ciancimino parlassero: oltre alle dichiarazioni ultra-riscontrate di Nino Giuffrè e altri collaboratori sul patto Provenzano-Dell’Utri, è proprio sul periodo successivo al 1992 che i magistrati hanno raccolto la maggiore quantità di fatti documentati e inoppugnabili: le intercettazioni del mafioso Carmelo Amato, provenzaniano di ferro, che fa votare Dell’Utri alle europee del 1999; le intercettazioni dei mafiosi Guttadauro e Aragona che organizzano la campagna elettorale per le politiche del 2001 e parlano di un patto fra Dell’Utri e il boss Capizzi nel 1999; le agende di Dell’Utri che registrano due incontri a Milano col boss Mangano nel novembre del 1994, mentre nasceva Forza Italia; la raccomandazione del baby calciatore D’Agostino per un provino al Milan, caldeggiato dai Graviano e propiziato da Dell’Utri; e così via. Vedremo dalle motivazioni come i giudici riusciranno a scavalcare questi macigni.
Ora, per Dell’Utri, il carcere si avvicina. Quello di oggi è l’ultimo giudizio di merito sulla sua vicenda: resta quello di legittimità in Cassazione, ma le speranze di farla franca attraverso una delle tante scappatoie previste dall’ordinamento a maglie larghe della giustizia italiana sono ridotte al lumicino. La prescrizione, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa doppiamente aggravato dall’elemento delle armi e da quello dei soldi, scatta dopo 22 anni e mezzo dalla data ultima di consumazione del reato: quindi dal 1992. Il calcolo è presto fatto: se la Cassazione deciderà che davvero il reato si interrompe nel 1992, la prescrizione scatterà nel 2014-2015, quanto basta alla Suprema Corte per confermare definitivamente la condanna a 7 anni. Che non potranno essere scontati ai domiciliari secondo la norma prevista dalla ex Cirielli per gli ultrasettantenni (Dell’Utri compirà 70 anni nel 2011), perché non vale per i reati di mafia (altrimenti sarebbero a casa anche Riina e Provenzano).
Se invece la Cassazione cassasse senza rinvio la condanna, Dell’Utri avrebbe risolto i suoi problemi. Ma c’è pure il caso che la Cassazione cassi la sentenza con rinvio, accogliendo il prevedibile ricorso della Procura generale contro l’assoluzione per i fatti post-1992. Nel qual caso si celebrerebbe un nuovo appello, ma per Dell’Utri sarebbe una magra consolazione: rinvierebbe soltanto di un paio d’anni l’amaro calice del carcere, visto che, allungandosi il periodo del suo reato, si allungherebbe anche il termine di prescrizione. Semprechè, naturalmente, non venga depenalizzato il concorso esterno in associazione mafiosa.
Questa sentenza, per quanto discutibile, compromissoria e anche un po’ furbetta, aiuta a comprendere la differenza che passa tra la verità giudiziaria e quella storica, politica, morale. Nessuna persona sana di mente potrebbe credere, alla luce del dispositivo, che Cosa Nostra sia un’accozzaglia di squilibrati che si alleva un concorrente esterno, lo infiltra nell’abitazione e nelle aziende di Berlusconi per tutti gli anni 70 e 80 fino al 1992 e poi, proprio quando diventa più utile, cioè quando s’inventa un partito che riempie il vuoto lasciato da quelli che avevano garantito lunga vita alla mafia fino a quel momento, lo scarica o se ne lascia scaricare senza colpo ferire.
Una banda di pazzi che per un anno e mezzo mettono bombe e seminano terrore in tutt’Italia per sollecitare un nuovo soggetto politico che rimpiazzi quelli decimati da Tangentopoli e dalla crisi finanziaria e politica del 1992, e quando questo soggetto politico salta fuori dal cilindro non di uno a caso, ma del vecchio amico Dell’Utri, interrompono le stragi, votano in massa per Forza Italia, ma rompono i rapporti col vecchio amico Dell’Utri, divenuto senatore e rimasto al fianco del nuovo padrone d’Italia.
I giudici più benevoli mai incontrati da Dell’Utri, dopo cinque anni di appello e cinque giorni di camera di consiglio, non hanno potuto evitare di confermare che, almeno fino al 1992, esistono prove insuperabili (perfino per loro) della mafiosità di Dell’Utri. Cioè dell’uomo che ha affiancato Berlusconi nella sua scalata imprenditoriale, finanziaria, editoriale, televisiva. E che nel 1992-’93 ideò Forza Italia, nel 1995 fu arrestato per frode fiscale e nel 1996 entrò in Parlamento per non uscirne più.
Intervistato qualche mese fa da Beatrice Borromeo per il Fatto quotidiano, Dell’Utri ha candidamente confessato: “A me della politica non frega niente. Io mi sono candidato per non finire in galera”. Ecco, mentre i giudici di Palermo scrivono le motivazioni, ora la palla passa alla politica. Un’opposizione decente, ma anche una destra decente, semprechè esistano, dovrebbero assumere subito due iniziative.
1) Inchiodare Silvio Berlusconi in Parlamento con le domande a cui, dinanzi al Tribunale di Palermo, oppose la facoltà di non rispondere. Perché negli anni 70 si affidò a Dell’Utri (e a Mangano)? Perché, quando scoprì la mafiosità di almeno uno dei due (Mangano), non cacciò anche l’altro che gliel’aveva messo in casa (Dell’Utri), ma lo promosse presidente di Publitalia e poi artefice di Forza Italia? Da dove arrivavano i famosi capitali in cerca d’autore degli anni 70 e 80? Si potrebbe pure aggiungere un interrogativo fresco fresco: il presidente del Consiglio è forse ricattato o ricattabile anche su queste vicende (ieri il legale di Dell’Utri, Nino Mormino, faceva strane allusioni al prodigarsi del suo assistito fino al 1992 per “salvare dalla mafia Berlusconi e le sue aziende”)?
2) Pretendere le immediate dimissioni di Marcello Dell’Utri dal Parlamento. Quello di oggi non è un avviso di garanzia, una richiesta di rinvio a giudizio, un rinvio a giudizio, una sentenza di primo grado: è la seconda e ultima sentenza di merito. Che aspetta la politica a fare le pulizie in casa? Che i carabinieri irrompano a Palazzo Madama per prelevare il senatore e condurlo all’Ucciardone?
Guai, a non considerare Mangano ''un eroe'' - Gioacchino Genchi
I rinnovati richiami all’eroismo di Vittorio Mangano del sen. Marcello Dell’Utri e dei suoi amici nell’ambito dei festeggiamenti per la condanna a soli 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa mi impongono di anticipare alcuni passi delle giustificazioni che ho prodotto, nel procedimento disciplinare per la “destituzione dal servizio“, promosso nei miei confronti dal Capo della Polizia a seguito dell’intervento pronunciato (mentre ero già sospeso dal servizio, Sic!) al congresso nazionale dell’Italia dei Valori del 6 febbraio 2010.
Sembra un assurdo, ma sono stato pure costretto a difendermi per avere osato criticare le affermazioni del Presidente del Consiglio che, come il sen. Marcello Dell’Utri, considera Vittorio Mangano “un eroe“.Censurare una affermazione di tal guisa, con l’intento di “screditare il Capo del Governo” è stato ritenuto nella contestazione disciplinare “un comportamento eticamente scorretto e non ammissibile per un Funzionario dello Stato” e per questo io dovrei essere destituto dalla Polizia di Stato. In attesa di pubblicare per intero gli atti del procedimento disciplinare e della sospensione dal servizio (avverso la quale ho proposto ricorso al TAR), anticipo la parte delle giustificazioni riguardanti le considerazioni “sull’eroe” Vittorio Mangano e sui suoi fan, pronunciati al congresso dell’Italia dei Valori:
- OMISSIS -
Nel corpo della sua contestazione, nel susseguirsi del costrutto dei virgolettati di alcune espressioni pronunciate nel corso dell’intervento al congresso nazionale dell’Italia dei Valori del 6 febbraio 2010, manca la parte in cui, stigmatizzando l’originale modalità dell’on. Silvio Berlusconi di auto-gestire la propria sicurezza personale (con riguardo all’anomala composizione della scorta), ho riferito dell’arruolamento alla villa di Arcore del boss Palermitano Vittorio Mangano.
Nello stigmatizzare l’episodio ho anche considerato le definizioni con le quali l’on. Berlusconi ha nel tempo commentato i suoi rapporti con Mangano, fatto passare per “fattore” (e non per “stalliere”) quando era in vita, fino a definirlo “un eroe” dopo la morte, con la quale si sono estinti per Vittorio Mangano i giudizi in corso per i quali era già stato condannato in primo grado a due ergastoli, in due distinti giudizi per omicidi ed in uno anche per associazione mafiosa, oltre alle pene già espiate per le condanne riportate per associazione per delinquere con la mafia al processo Spatola, oltre che per traffico di droga al maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed altri tre omicidi.
Insomma a ben considerare, Vittorio Mangano era un “eroe” con un curriculum criminale di tutto rispetto. Anche in questo, come noterà, mi sono limitato a riferire al congresso dell’Italia dei Valori fatti storici e dichiarazioni dello stesso Silvio Berlusconi, rese nel corso dell’intervento alla trasmissione di RadioDue “28 minuti” del 9 aprile 2008, che può riascoltare su YouTube al link audio che segue, o nei numerosissimi altri blog che le propongono e le commentano, tanto in Italia che all’estero.
Il 9 aprile 2008, peraltro, quando l’on. Silvio Berlusconi ha rilasciato l’intervista in cui ha sostanzialmente definito un eroe Vittorio Mangano, non ricopriva nemmeno la carica di presidente del Consiglio dei Ministri, posto che il capo del Governo era ancora, sia pure ancora per pochi giorni (fino al 28 aprile 2008), l’on. Romano Prodi. Sulla base delle sue contestazioni, quindi, per avere esternato ”negative asserzioni” storicamente accertate sul conto dell’on. Silvio Berlusconi, quale quella di avere definito Vittorio Mangano un eroe, io dovrei essere destituito dalla Polizia di Stato.
Al riguardo voglio solo augurarmi che la definizione di “negative asserzioni”, riportata nella sua contestazione, era riferita al comportamento ed alle dichiarazioni dell’on. Silvio Berlusconi su Vittorio Mangano e non alle mie, che confermo e delle quali non intendo in alcun modo giustificarmi con riguardo al giudizio di valore che può desumersi, tanto sul conto di Vittorio Mangano, che dell’on. Silvio Berlusconi che l’ha considerato “un eroe”.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it del 30 giugno 2010
Il Pdl e la pornografia dell’esultanza - Peter Gomez
Il punto importante è però un altro. Per fortuna di tutti questo Paese è migliore di chi immeritatamente lo rappresenta in Parlamento. È migliore di quelli che a destra esultano. E di quelli che a sinistra, nelle file del Pd, per ore e ore hanno saputo solo stare in silenzio (Bersani dove sei?).
Questo infatti non è solo il Paese dei Previti, dei Dell’Utri, dei molti furbetti del quartierino che fanno scempio della decenza e dei beni della collettività. Questo è, invece, il Paese che ha dato i natali a Falcone, Borsellino. È il Paese che ha visto morire Libero Grassi, un imprenditore ucciso perché si rifiutava pizzo proprio mentre, dice il verdetto di oggi, il Cavaliere pagava e taceva. Questo è il paese della Confindustria siciliana che espelle dalla sua organizzazione non solo i collusi, ma pure chi versa tangenti alla mafia. Industriali che, codice penale alla mano, non commettono reati, ma sono vittime di un reato. Gente però che col proprio comportamento (la mancata denuncia) finisce oggettivamente per rafforzare Cosa Nostra.
Questo è il Paese delle centinaia di migliaia di associazioni di volontariato – laiche e cattoliche – che senza chiedere nulla in cambio, tutti i giorni, danno una mano a chi soffre. Questo è il Paese dei sindacati che mandano i loro iscritti a lavorare nelle terre confiscate. Ed è il Paese di chi si alza ogni mattina alle 6, paga le tasse e cerca d’insegnare qualcosa di buono ai suoi figli.
Questo è il nostro Paese.
E lo è anche se le televisioni ce lo nascondo. Anche se Augusto Minzolini continua ad usare trucchi semantici per non utilizzare nei titoli e nei servizi la parola condanna (“pena ridotta a Dell’Utri, il senatore assolto per la trattativa Stato mafia”). Anche se la nostra classe dirigente, ormai in putrefazione, continua a pensarsi specchio di una realtà che non esiste.
Perché chi esulta oggi è doppiamente truffatore. Verso il proprio elettorato, formato in maggioranza da persone per bene che mai si sognerebbero di avere rapporti continuativi con mafiosi e camorristi. E verso la Storia e la verità.
Chiunque abbia superato gli esami di procedura penale sa infatti benissimo che in appello le sentenze possono essere solo confermate o riformate. Dire, prima di averne lette le motivazioni, che il verdetto di oggi esclude i rapporti mafia e politica dopo il 1992 è un falso clamoroso. Nel dispositivo della sentenza (se è il caso) i giudici possono solo scrivere che “il fatto non sussiste”, anche se a queste conclusioni sono arrivati perché non hanno trovato abbastanza riscontri alle parole dei collaboratori di giustizia. O perché gli elementi raccolti (questi sì indiscutibili) non bastano per dimostrare che Dell’Utri, oltre aver frequentato mafiosi o loro amici anche in anni recenti, abbia loro fatto dei favori. Prima di parlare dunque è necessario aspettare.
Ma gli ipocriti e i bugiardi oggi smascherati hanno fretta. Urlano per nascondere la loro vergogna. E lo fanno forte.
Noi però, anche davanti alla furia di chi sta al Potere, non dobbiamo aver paura. Le cose, anche se a volte ci facciamo prendere dallo sconforto, stanno rapidamente cambiando. Chi mai, solo qualche anno fa, magari dopo la sentenza Andreotti, avrebbe potuto pensare che un giorno il braccio destro dell’uomo più ricco e potente d’Italia, sarebbe stato condannato in primo grado e in appello? Chi mai avrebbe potuto pensare che Berlusconi, pur forte di un’amplissima maggioranza elettorale e parlamentare, si sarebbe trovato alla guida di un governo che di settimana in settimana diventa più instabile?
Il futuro insomma è dalla nostra parte.
Noi ora dobbiamo solo immaginarlo e costruirlo.
lunedì 28 giugno 2010
domenica 27 giugno 2010
CASO BRANCHER Dal Canada l'ordine di Berlusconi "Brancher si deve sacrificare"
Pdl nel caos. I big: questo pasticcio ci costerà molto caro Il premier ora teme contraccolpi sulle intercettazioni e anche sull'iter del lodo Alfano.
HUNTSVILLE - Arriva in sala stampa con l'umore sotto i tacchi, stanco e teso. I boschi di Muskoka, le marmotte davanti al cottage, nulla lo può distogliere dall'incendio che da due giorni divampa in Italia sul caso Brancher. Silvio Berlusconi si aspetta la domanda sullo scontro con il Quirinale e l'accoglie con gelido distacco: "Ripeto quanto detto ieri dal mio portavoce Paolo Bonaiuti: nessun commento di nessun tipo". Del resto, il premier aveva con puntiglio chiesto ai giornalisti "attenersi ai temi del vertice, trascurando le nostre piccole questioni nazionali". Anche la vicenda Brancher una piccola questione? "Esattamente", taglia corto il Cavaliere. Il problema sollevato da Napolitano, sembra intendere, non merita che il silenzio. Così, quando il cronista di questo giornale gli chiede un commento sulla dura nota del Quirinale sul neoministro Brancher, a Berlusconi scappa la pazienza: "Io potrei rispondere in maniera fantasiosa, come fantasiosi sono di solito gli articoli di Repubblica che mi riguardano: completamente infondati".
Ecco, il presidente del Consiglio prova ad aprire un ombrello per ripararsi dall'uragano di Roma. Raccontano che per davvero Berlusconi abbia provato ad isolarsi completamente dall'Italia. Provano a chiamarlo il capogruppo Fabrizio Cicchitto, ci prova Sandro Bondi, Ignazio La Russa, Denis Verdini, ministri vari. Ma il premier risponde solo a Gianni Letta. Per la prima volta non sa cosa fare. "Brancher non può dimettersi - ragiona - perché daremmo ragione a quelli che ci attaccano. Né può avvalersi del legittimo impedimento, altrimenti sembrerebbe che vogliamo fare la guerra a Napolitano". L'unica soluzione è quasi obbligata: rinunciare allo "scudo" offerto dalla legge.
Questo il "consiglio" che il premier invia al neoministro, sapendo di chiedergli molto. Il rischio tuttavia è che, insieme con Brancher, crolli il castello che Berlusconi sta mettendo in piedi per ripararsi dai magistrati: dal lodo Alfano al provvedimento sulle intercettazioni. Come confida amareggiato un capogruppo del Pdl, "con questa storia (e cioè il pasticcio-Brancher-ndr) stiamo sputtanando quindici anni di battaglie garantiste".
Ma c'è di più. Perché il premier non si preoccupa solo per l'attacco delle opposizioni, la mozione di sfiducia contro Brancher, il rapporto sfregiato con il Quirinale. Il fatto è che si sente "tradito" dai suoi stessi alleati. Umberto Bossi, dicono i suoi, "l'ha lasciato con il cerino in mano". È tutto il partito a ribollire e Berlusconi lo sa. Lo sfogo di un ministro del Pdl riassume l'umore da fine impero che si respira in queste ore: "Berlusconi e Bossi sono stati ingannati sul caso Brancher. Da chi? Si sono mossi Calderoli e Brancher, sotto la regia del loro Lord Protettore".
L'identità di questo "Lord Protettore" non è un mistero, visti gli stretti rapporti di Calderoli e Brancher con Giulio Tremonti. In questo clima di sospetti anche il premier, per la prima volta, viene messo sotto accusa: si sarebbe lasciato "abbindolare" dalla cosiddetta "triade" (appunto Tremonti-Calderoli-Brancher). Gli rimproverano di non aver informato nessuno di cosa si stava preparando, lasciandosi andare a una gestione "frettolosa e disastrosa" delle deleghe del neo-ministro. Sullo sfondo si anima la guerra delle correnti, con gli ex forzisti che si oppongono alla richiesta di aprire davvero il tesseramento per il timore di essere cannibalizzati dagli ex An. Una guerra di tutti contro tutti, da cui il premier vorrebbe tenersi il più lontano possibile. Ma l'incendio impone di tornare a Roma e, per questo, pare destinata a saltare la tre giorni ad Antigua che il Cavaliere si era riservato alla fine del tour americano. Non lo rincuora nemmeno il calcio. "Nessuno parlato della nostra eliminazione - dice - anche perché eravamo in due a soffrire: io e Sarkozy".
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/27/news/berlusconi_brancher-5186534/?ref=HREA-1