Più che una norma ben scritta e prima ancora pensata, l'articolo 13 del decreto legge sulla manovra aggiuntiva entrato in vigore il 13 agosto, sembra una grida manzoniana, «una grida fresca» che «son quelle che fanno più paura», come commentava Azzeccagarbugli nel terzo capitolo dei Promessi Sposi . Ma che poi alla fine hanno poco effetto.
Il decreto prevede che, per deputati e senatori che svolgano attività che fruttino loro un reddito pari o superiore al 15 per cento dell'indennità della carica parlamentare, essa venga dimezzata. Alla Camera attualmente corrisponde a 5.486,58 euro netti (cui vanno aggiunti i rimborsi forfettari per le spese telefoniche, di viaggio e per i collaboratori, che costituiscono gran parte dello «stipendio», che arriva a 14 mila euro netti per un qualsiasi peone, ma è molto di più per un presidente di commissione o un segretario d'aula o chiunque abbia un altro incarico interno).
Un «biglietto da visita»
In altre parole un deputato o un senatore che abbia un'attività professionale dovrà rinunciare solo a 2.700 euro netti al mese. A fronte di fatturati di molte decine o centinaia di migliaia, se non di milioni di euro. Sacrificando meno di 35 mila euro l'anno (2.700 per 12 mesi), insomma, un avvocato potrà utilizzare il brand «CD» (Camera dei Deputati) o «S» (Senato) con tutti i risvolti positivi che ciò comporta, a cominciare dal fatto che il marchio - cosa ben nota - funziona da moltiplicatore di parcelle. Adesso è semplicemente un biglietto da visita che costerà un po' di più. Ma che paradossalmente mette il deputato (speriamo non definitivamente) al riparo dal dover rispondere di piccoli e grandi conflitti di interesse tra la sua attività professionale e la sua attività legislativa. Come poi possa apparire l'articolo 13 una grida manzoniana è presto detto. Al di la del «quanto», è la logica che non torna, perché diciamo così, inverte «l'onore» della prestazione lavorativa. Un esempio opposto viene dal mondo accademico (che pure da sempre ha attirato critiche per la scarsa efficienza): i dottori di ricerca non possono svolgere una seconda attività che superi della metà l'importo della loro borsa. E non il contrario. Cioè si pretende che si svolga innanzitutto il lavoro per cui si è «stipendiati» e poi, se avanza del tempo, si permette una quota residuale di lavoro «autonomo».
Che la situazione non stia in piedi, se ne deve essere reso conto anche l'estensore materiale del prescritto dimezzamento dell'indennità, perché l'articolo 13 afferma che si prende questo provvedimento «in attesa della revisione costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari e della rideterminazione del trattamento economico omnicomprensivo attualmente corrisposto...». Una premessa che la dice lunga su come vanno le cose.
Metà del Parlamento ha un doppio lavoro
Il fatto è che i «doppiolavoristi» sono quasi la metà dei parlamentari. Una truppa considerevole: 446 in tutto (di cui 270 deputati e 176 senatori), su 945 eletti. Oltre a vantare le più alte dichiarazioni dei redditi, stando a uno studio che ha fatto scalpore del sito La voce.info, i «doppiolavoristi» hanno il record anche della percentuale più alta (37%) di assenteismo. Un dato che più che creare scandalo dovrebbe essere considerato banale, visto che non potrebbe essere altrimenti, perché nessuno di loro ha il dono dell'ubiquità, fornendo argomenti a quanti chiedono il coraggio di arrivare al dimezzamento del numero dei parlamentari. Come ha fatto Sergio Romano nell'editoriale di ieri del Corriere.
Ai magistrati «onorevoli» - che sono 17 - (come il neo Guardasigilli Nitto Francesco Palma che nei giorni scorsi si è dimesso dall'ordine giudiziario) è imposta per legge l'aspettativa dal lavoro. Agli avvocati no. Sapete quanti esponenti del libero Foro occupano un seggio? 134: la somma di 87 deputati e 47 senatori. Con il 14% del totale detengono il record assoluto delle professioni. Negli Stati Uniti fare l'avvocato è incompatibile con il seggio parlamentare e con ogni altra attività. Al secondo posto ci sono quelli che si qualificano genericamente «dirigenti»: 133. Al terzo gli imprenditori: 114, contro soli 4 operai. I docenti universitari sono 77, i giornalisti 89 (con i casi dei «doppiolavoristi» Guzzanti e Farina, arrivati in modo eclatante all'onore delle cronache giudiziarie e delle fiducie parlamentari) e 53 i medici.
Connesso al problema del doppio lavoro c'è quello della «buonuscita» a fine mandato che è una «liquidazione» completamente esentasse, perché tecnicamente si tratta di introito «non imponibile». Quello dell'onorevole infatti non è un Tfr (retribuzione differita): si tratta di una tantum o, più precisamente, di «assegno per il reinserimento nella vita lavorativa». Questo «assegno di fine mandato» dovrebbe infatti servire ad aiutare gli onorevoli a «reinserirsi» nel mondo professionale. È un grosso esborso di denaro (dopo cinque anni sullo scranno, 46.814 euro a parlamentare, dopo 15 anni oltre 140 mila euro) che non solo non ha paragoni negli altri Paesi (dove o non c'è o è estremamente contenuto), ma che è del tutto ingiustificato per quanti (avvocati, commercialisti, medici e professionisti di ogni colore politico) non hanno mai chiuso lo studio e restano in attività quando entrano in Parlamento. In proposito il decreto legge però non dice nulla.
Le incompatibilità elettiveSi contano infine sulle dita di una mano i parlamentari per cui scatta l'incompatibilità prevista dal terzo comma del medesimo articolo 13 che recita: «La carica di parlamentare è incompatibile con qualsiasi altra carica pubblica elettiva. Tale incompatibilità si applica a decorrere dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto». Per i parlamentari l'incompatibilità insomma non scatta (come direbbero i giuristi) né ex tunc (dal 1 gennaio 2011) e neppure ex nunc (dalla data di entrata in vigore del decreto). Quindi sono «salvi» i 6 parlamentari che attualmente hanno un doppio incarico: Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti e deputata del Pdl; Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania e senatore del Pdl; il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, deputato del Pdl; Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli e deputato del Pdl; Francesco Rutelli, senatore di Api e consigliere comunale a Roma e Antonio Pepe (deputato pdl) presidente della Provincia di Foggia. In base al decreto in futuro potrebbero fare gli assessori «esterni», come Bruno Tabacci, deputato di Api e al contempo assessore al Bilancio, Patrimonio e Tributi di Milano, che anche se sarà deputato nella prossima legislatura, potrà rimanere tranquillamente al suo posto di Montecitorio perché «chiamato» (dal sindaco Pisapia) e non «eletto» dai milanesi.