A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di La Democrazia in America di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare.
Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: “La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto”.
Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa dauna brutta voglia di unanimismo. Dalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono. Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming – sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare – non ha infatti senso. Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.
Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito, evitare, come scrive Alessandro Di Battista, che escano “sistematicamente” e per mesi dichiarazioni pronte “a coprire i messaggi del gruppo” o in contrasto con la linea stabilita. Ma anche se le cose sono andate così – tanto che i quattro senatori avrebbero dimostrato maggior dignità andandosene da soli da un movimento del quale non condividevano più gli obbiettivi – la questione non cambia di una virgola. Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida. Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti. Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranza potrebbe infatti votare la loro.
Consolarsi col fatto che le espulsioni (vedi il caso degli amministratori locali del Pd in val Susa fatti fuori perché anti Tav) sono spesso la regola in altri partiti, non serve. Il M5S dice infatti (e quasi sempre lo è) di essere diverso dagli altri movimenti politici. Per questo molti elettori, almeno a giudicare dai commenti e dalle mail che arrivano a questo giornale online, avrebbero trovato più intelligente e democratico che il Movimento, già in occasione del brutto e analogo caso di Adele Gambaro, avesse riformato il regolamento e il non statuto stabilendo con chiarezza cristallina diritti e doveri degli eletti. Non averlo fatto lascia spazio all’arbitrio, alla legge più forte e alle espulsioni di massa. Oltretutto votate online in blocco senza che agli iscritti fosse permesso esprimere valutazioni diverse su ogni singola posizione.
Pensare, come fa il Movimento 5 stelle, di rivoluzionare (con il voto) il Paese è perfettamente legittimo. Credere che sia possibile farlo rinunciando a dimostrare che, sempre e in ogni caso, si è meglio di ciò che si vuole combattere e abbattere non è solo sbagliato. È stupido.
Nel caso dei 4 espulsi non si tratta di difformità di opinione o di diritto di critica, ma di ben altro. Questi 4, pur essendo stati eletti nel movimento e pur conoscendone le regole, hanno cambiato opinione, hanno tradito le aspettative di chi li ha eletti, di chi ha riposto in loro la propria fiducia. Questi 4 individui, consci di aver vinto una lotteria entrando a far parte del parlamento e di tutti i privilegi che ne derivano, hanno deciso di cambiare opinione e di buttare discredito sul movimento. Io non credo che sia accettabile, ammissibile, trattenere nella propria casa chi vuole demolirla. Un ospite è gradito se gradevole. Si può accettare la critica e discuterla assieme, ma non si può parlar male di chi ospita ed in pubblico. Ciò che è venuto a mancare in tutta la faccenda sono state la sincerità e la coerenza. Fatto sta che, a quanto pare, i 4 abbiano già deciso di cambiare blusa e movimento formandone uno loro. Era scontato, comunque, che ci sarebbero stati fuoriusciti anche nel movimento, le cui regole differiscono diametralmente da quelle degli altri partiti. Cetta.
Nell'inchiesta di Firenze spuntano 'amici' di D'Alema, Dell'Utri, Alfano e Finocchiaro. Uniti per spartirsi tutto.
Il Commissario Ingravallo (“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) «diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo». E questo intreccio romanissimo che tanto colpì Carlo Emilio Gadda sembra essere diventata adesso la formula dominante dei pasticciacci contemporanei. Negli ambienti giudiziari la chiamano «larga intesa degli affari» e accomuna, di fatto, esponenti politici di destra e di sinistra. Tutti insieme appassionatamente, in un gioco abilissimo e sotterraneo di nomi e prestanome: si palesano solo i volti di professionisti e tecnici, ma le loro ombre celano segretari di partito, ministri, presidenti di gruppi parlamentari, capi correnti, deputati e senatori. I pupari.E le marionette. Per muovere affari di milioni, velocizzare pratiche di appalti pubblici, approvare decreti per favorire imprese amiche, cambiare componenti di commissioni di vigilanza e authority. Di fatto, svuotare le istituzioni e piegare le regole democratiche in uno spoil system che genera un sistema viziato. In pubblico c’è lo scontro politico o la lite dei talk show; dietro le quinte invece c’è un magma rovente che fonde gli appetiti meno nobili. Una suburra in cui tutti si scambiano favori e dialogano per concretizzare interessi senza badare a casacche e stemmi di partito.
AMICO DI LORENZETTI E FINOCCHIARO L’inchiesta giudiziaria di Firenze sui lavori della Tav in cui è stata arrestata Maria Rita Lorenzetti, esponente del Pd, presidente di Italferr ed ex governatore dell’Umbria, ha fatto emergere la larga intesa degli affari. Prima ancora che nascesse l’esecutivo di Enrico Letta, lungo l’Alta velocità andava già in scena una “grosse koalition” tessuta da personaggi che si presentano uomini di fiducia e consulenti di esponenti politici. Amici di Massimo D’Alema e Marcello Dell’Utri, Anna Finocchiaro e Angelino Alfano: pedine che garantivano il dialogo e le spartizioni tra ex fascisti ed ex comunisti.
Al centro di questo giro c’è un geologo siciliano del Pd, Walter Bellomo, arrestato dai carabinieri del Ros di Firenze: in passato ha fatto parte del Pci, e nel 1996 è stato segretario del Pds a Palermo. Come componente della commissione Valutazione impatto ambientale del ministero dell’Ambiente, fondamentale per varare qualunque opera, oggi ha la qualifica di pubblico ufficiale. Ma per gli inquirenti il suo ruolo era strategico: facilitatore di appalti. I pm scrivono che «ha tenuto una condotta assolutamente spregiudicata, svendendo la propria funzione non in maniera occasionale ma permanente, mettendosi a disposizione del gruppo criminale (di cui faceva parte anche Lorenzetti, ndr) condividendone gli obiettivi futuri».
Per gli esponenti del Pd, fra cui l’ex governatrice umbra, quelle di Bellomo sono azioni «meritevoli di riconoscimenti» e per questo viene presentato alla senatrice Anna Finocchiaro con la quale avvia un dialogo spesso mediato dal di lei consigliere politico Paolo Quinto. L’ex capogruppo del Pd al Senato negli ultimi due anni si è mossa spesso per favorire Bellomo: intercedendo con l’allora ministro Corrado Clini perché lo riconfermasse nella commissione Via, o tentando anche un pressing sul governatore siciliano appena eletto, Rosario Crocetta, suggerendolo come assessore.
GIANNI LETTA FOREVER L’esponente del Pd Lorenzetti, intercettata, rivela incosapevolmente che durante il governo Monti alcune nomine istituzionali venivano decise ancora da Gianni Letta, l’ex sottosegretario di Berlusconi. Ne parla con il consigliere politico della senatrice Finocchiaro il quale non appare scandalizzato. I due trattano la questione della nomina dei componenti dell’Authority sui trasporti che non riesce a passare al Consiglio dei ministri. Lorenzetti si è auto-candidata e afferma al telefono di aver saputo da Enrico Letta che la situazione di stallo si è creata in quanto lo zio Gianni «non recede per quanto riguarda la candidatura di De Lise». L’ex sottosegretario appoggiava l’allora presidente del Consiglio di Stato Pasquale de Lise. Lorenzetti dice al consigliere della Finocchiaro: «Secondo me devono acchiappare qualcuno del Pdl. Se la linea è quella che diceva Anna (Finocchiaro ndr) che Letta le ha detto, bisogna che chiappino questi del Pdl, ma in particolare Gianni Letta. Me lo diceva ieri durante una telefonata imbarazzata Enrico Letta. Da parte sua ovviamente l’imbarazzo, che suo zio, Gianni Letta, non vuole sentire ragioni a mollare De Lise».TRA L’AMICO DI D’ALEMA E DELL’UTRI Walter Bellomo lo scorso gennaio è intenzionato a giocarsi tutto pur di trovare un posto in lista per le elezioni nazionali. In Sicilia il Pd ha eliminato dalle candidature per una questione etica Wladimiro Crisafulli - che Bellomo conosce bene e al quale aveva inviato diversi sms nei mesi precedenti quando voleva andare a fare l’assessore di Crocetta - e Antonio Papania. Il geologo pensa che con tutti i favori politici che ha fatto è la volta buona per approdare in Parlamento, e per questo sceglie una strada diversa. Punta su un referente nuovo che prima non era emerso e con il quale sembra avere un rapporto attraverso un collega della commissione del ministero dell’Ambiente, Giuseppe Chiriatti. L’uomo da contattare è Roberto De Santis, un imprenditore considerato molto vicino a Massimo D’Alema. Chiriatti assicura il suo interessamento per procurare il contatto con De Santis: «Faccio io».
Dopo un paio di ore è tutto fatto. L’amico di D’Alema è disponibile a incontrare Bellomo. Gli inquirenti sottolineano che dalle intercettazioni «emerge l’esistenza tra i due di un rapporto di confidenzialità se non di amicizia». De Santis non è un politico, ma avrebbe potuto introdurre Bellomo a D’Alema. E a proposito di grandi alleanze, occorre ricordare che nel consiglio di amministrazione della società svizzera Avelar che commercializza metano Roberto De Santis sedeva accanto a Massimo De Caro, che le cronache giudiziarie indicano molto vicino a Marcello Dell’Utri.
COME I NAZI-MAOISTI Per costringere Sergio Santoro a lasciare la poltrona di presidente dell’Authority sugli appalti perché considerato finiano, politici di destra e sinistra stringono un accordo. Lo fanno lo scorso novembre a Roma. Il Ros intercetta la Lorenzetti, con due componenti dell’autorità di vigilanza Piero Calandra, vicino al Pd, e Alessandro Coletta, area di destra. L’occasione è l’incontro per festeggiare la nomina di Lorenza Ponzone a direttore dell’Authority ed è qui che Calandra segnala alla Lorenzetti la sua “aspirazione” a diventare presidente, pianificando l’attività «per indurre l’attuale presidente Santoro a lasciare l’incarico ovvero a “smammare”». Il piano viene messo in pratica coinvolgendo i consiglieri del Pd e gli “storaciani” che fanno capo a Storace. Calandra dice: «Con lo storaciano abbiamo commissariato il presidente, noi due estremi. Eh, be’, come i nazi-maoisti, ti ricordi, praticamente cerchiamo di fare il grosso del lavoro noi insomma, lo storaciano è quello che si è candidato a succedere a marzo 2014, quindi gradisce moltissimo con me stare in coppia».
NO, I TAGLI NON LI VOGLIAMO Lorenzetti & C. vanno in fibrillazione nel luglio 2012 perché si ventila il taglio dei posti dei cda nelle società parastatali. È una persona molto vicina a Renato Schifani (all’epoca presidente del Senato) ad avvertire la presidente di Italferr della manovra del governo. Lorenzetti sembra nel panico e chiama subito il consigliere politico della senatrice Finocchiaro al quale espone “il pericolo” a cui vanno incontro: il taglio di manager nella pubblica amministrazione. Il consigliere della Finocchiaro tenta di consolare Lorenzetti: «Ho parlato con Anna e ho due novità: uno che si interesserà personalmente con Schifani per sapere se questa cosa è vera però lei non ne sa nulla. Sicuramente nel partito non c’è stata nessuna discussione e quindi non è una linea del partito. È una linea del governo Monti, di Bondi, il superconsulente di taglio delle spese degli enti pubblici. Il partito non ha fatto assolutamente nulla. Assolutamente non è niente di certo».
L'ex capo dei vigili urbani di Roma Angelo Giuliani è stato arrestato, ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. Per la Procura di Roma avrebbe fatto ottenere irregolarmente un appalto alla Sea (Società sicurezza e ambiente), società che si occupava della pulizia delle strade della città dopo ogni incidente.
Gli arresti, eseguiti dai carabinieri del Nucleo investigativo, hanno riguardato anche altre tre persone, tutte ai domiciliari: il direttore generale della Sea, Angelo C......., il legale della società, ........... e il direttore Iano Santoro.
Nell'inchiesta risulta indagato anche l'ex direttore generale della Rai Alfredo Meocci: è accusato di corruzione in qualità di componente dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Per chi indaga, infatti, nel 2013 Meocci avrebbe dato parere favorevole sull'assegnazione dell'appalto alla Sea senza che ci fosse stata alcuna gara. Su questo appalto, però, l'Autorità nel 2012 aveva espresso giudizio negativo.
E' incredibile lo stato confusionale, e dunque caricaturale, del Pd. Civati vota la fiducia, però è contrario e nel frattempo (lo dice pubblicamente) opererà per una fronda interna che coinvolga anche Sel e dissidenti 5 Stelle.
Fassina è contrario, però vota sì anche se "non riscontro novità". Al Senato le facce dei Mineo, Casson, Tocci e Ricchiuti durante le tapioche di Renzi denotavano una mestizia - e un disgusto - siderali, però anche loro hanno votato sì. Perché? a) "Perché altrimenti ci cacciano" (alla faccia dell'art. 67 della Costituzione, quello che Grillo sbaglia a voler cancellare, ma anche quello che il Pd dimostra di non rispettare, con buona pace della millantata "democrazia interna"). b) "Perché le poltrone son comode. c) "Perché fuori dal Pd non ci vota neanche il gatto" (tranne rari casi). d) "Perché stiamo qua ai bordi del fiume ad aspettare che la corrente porti il fallimento politici dei nemici-amici al Governo". Siamo oltre la psicanalisi, e la cosa mette non poca tristezza. Un po' per pavidità e un po' per il sogno di rosolare lentanente Renzi, il Pd per ora finge coesione. Nel frattempo, al Senato, i renziani erano certi di prendere tra i 172 e i 176 voti. Ne hanno presi 169, cinque in meno del Letta senza Berlusconi (quello che doveva durare e "stare sereno"). Il significato politico è chiaro: basta una sciatalgia della Finocchiaro o un herpes di un Popolare e il Governicchio Antani cade. Con questi numeri non solo non è ipotizzabile fare "scelte radicali" (ennesima bomba del Bomba), ma forse non sarà nemmeno possibile realizzare l'unico grande sogno vero dell'esecutivo Napolitano III: tirare a campare. (Vamos). https://www.facebook.com/pages/Andrea-Scanzi/226105204072482
Le Fiamme Gialle hanno precisato che i capitali erano "in fuga" verso un conto corrente bancario di Lugano. Il figlio di Salvatore Ligresti, diventato cittadino svizzero poco prima dell'emissione dell'ordinanza di custodia cautelare che ha fatto scattare gli arresti per la sua famiglia, è imputato nel cosiddetto processo 'Fonsai bis'.
Paolo Ligresti stava per mettere le mani su una fetta di Unipol-Sai. Quasi due milioni di euro in azioni della nuova compagnia assicurativa e 400mila euro di fondi sono stati bloccati dalla Guardia di finanza su ordine del gip di Torino Paola Boemio per il rischio che il malloppo fosse sottratto a possibili azioni della giustizia. I valori erano destinati alla holding lussemburghese dell’ultimogenito di Salvatore Ligresti.
All’origine di questa operazione c’è una scoperta fatta dalla Banca d’Italia che ha segnalato un’operazione sospetta alle Fiamme Gialle. La Compagnia Fiduciaria Nazionale spa, società che detiene una parte delle azioni di Unipol Sai e dietro la quale si cela la famiglia Ligresti, stava inviando questo pacchetto azionario su un conto corrente di Lugano appartenente alla Limbo Invest SA. Si tratta della società fiduciaria lussemburghese il cui amministratore delegato è Gioacchino Paolo Ligresti, indagato di falso in bilancio e manipolazione del mercato dalla Procura di Torino, e sfuggito agli arresti del 17 luglio perché residente a Montagnola, vicino Lugano, ed era cittadino svizzero da poche settimane.
Gli investigatori, dopo l’allerta della Banca d’Italia, si sono resi conto che i Ligresti stavano cercando di veicolare i capitali schermati dalla società fiduciaria. Ora tutto è stato sequestrato a garanzia delle spese del processo e di ogni altra somma dovuta all’Erario.
La Limbo Invest SA non ha terminato la sua attività nonostante l’indagine del pm Marco Gianoglio della Procura di Torino avesse già svelato la sua funzione. Stando agli atti la fiduciaria di Gioacchino Paolo (così come la Hike Securites SA di Jonella e la Canoe SA di Giulia Maria, tutte lussemburghesi) permette ai Ligresti di contare all’estero “su di una rete di relazioni in grado di offrire loro un valido supporto” e di tutelare i “propri capitali personali ubicati fuori dal territorio nazionale”.
Le tre società del Granducato detenevano il 30% di Premafin, la finanziaria di famiglia che controllava Fonsai. “Si tratta delle tre società che risultano integralmente partecipate dalla Compagnia Fiduciaria Nazionale – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del 17 luglio scorso -, società che non svolgono attività commerciale alcuna, risultando strumento attraverso il quale vi è controllo indiretto da parte della famiglia Ligresti di Fondiaria-Sai S.p.A. attraverso Premafin”.
Il dispositivo dei sequestri è coperto da segreto investigativo e verrà depositato nel fascicolo “Fonsai bis” che riguarda Paolo Ligresti. L’udienza preliminare sarà il 5 marzo, quando le difese solleveranno nuovamente la questione di competenza territoriale del processo, già sollevata e già respinta nel giudizio immediato contro Salvatore Ligresti e gli ex manager. Domani al tribunale di Torino comincerà il giudizio immediato contro Jonella Ligresti, che non ha potuto patteggiare la condanna. L’intenzione della Procura è ottenere l’accorpamento dei tre procedimenti in un unico processo.
Ecco le monete del vecchio conio che potrebbero essere vendute ai collezionisti perché rare. Attenzione alla data di produzione e alla conservazione.
Le monete rare italiane dei nostri tempi non sono tantissime. La cara vecchia Lira ha tuttavia lasciato alcune rarità agli appassionati di numismatica che possono arrivare a pagare svariate migliaia d’euro per un esemplare come si dice in gergo, “in Fdc”, ovvero “Fior di conio” vale a dire moneta che non presenta segni.
Già, perché graffi, solchi e usura compromettono significativamente il valore di un esemplare per gli appassionati del genere.
È questo il caso delle 100 lire coniate dell’anno 1955 e delle 50 lire dell’anno 1958. Le prime non sono particolarmente rare (ne furono tirate circa 8,6 milioni). Tuttavia gli esemplari appunto “in fior di conio” possono veder schizzare il prezzo fino a 1.200 euro. Non male per un cento lire di poco meno di sessant’anni fa. Stesso discorso per le monete da 50 lire che riportano la data del 1958. Ne furono stampati e diffusi 825.000 esemplari e tuttavia di questi non se ne trovano molti in giro. Dunque una 50 lire del 58 può variare tantissimo il suo valore e passare dai 20 euro per un esemplare usurato ai 2.000 euro per quelle in perfetto stato di conservazione
E ancora: ci sono le 10 lire dell’anno 1954. Coniate in oltre 95 milioni di esemplari, valgono 70 euro ognuna al massimo, sempre stante una perfetta conservazione. Poi ci sono le 5 lire del 1956: queste sono sicuramente più rare. Ne furono messi in circolazione dalla Zecca solamente 400mila esemplari e possono valere un minimo di 50 e un massimo di 1.500 euro. Di recente la Bolaffi ha reso noto un dettagliato elenco di monete antiche e rare: vale la pena dargli una occhiata. Anche nell’ambito dell’euro ci sono delle monete rare che valgono letteralmente una fortuna come un particolare tipo di centesimo con la stampa della mole Antonelliana che può valere fino a 2.500 euro.