lunedì 4 luglio 2016

Il cavallo di Troia del Ttip. - Carlo Clericetti

Mentre l'attenzione dell'opinione pubblica è puntata sulle vicende del Ttip, il famigerato trattato Usa-Ue che aumenterebbe lo strapotere delle multinazionali nei confronti non solo dei cittadini, ma anche dei governi, sta passando quasi di soppiatto un altro accordo, meno noto ma non per questo meno pericoloso, che fungerà in pratica da cavallo di Troia per le norme peggiori del Ttip, mandandole in vigore anche se quello non dovesse essere approvato. E a giocare un ruolo determinante nel facilitarne il via libera definitivo è proprio l'Italia, persino a dispetto - stando alle dichiarazioni - di vari altri governi europei, Germania e Francia compresi.
L'accordo in questione è il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), trattato fra Unione europea e Canada. Prevede norme simili o spesso identiche al Ttip, e in particolare quei "tribunali privati" a cui possono ricorrere le imprese se ritengono che il provvedimento di uno Stato le danneggi. Se ne è già parlato abbondantemente a proposito del Ttip, quindi non stiamo qui a ripetere. Il Guardian ci ricorda per esempio che il Canada ha già perso cause contro multinazionali Usa che riguardavano la proibizione di certe sostanze chimiche cancerogene nella benzina, il reinvestimento nelle comunità locali o l’interruzione della devastazione ambientale nelle cave minerarie.
Si potrebbe magari pensare che comunque con il Canada si corrono meno rischi che con gli Usa, ma non è così. Come ricordano due interrogazioni parlamentari  (a questo link, sono la F e la H) firmate da vari esponenti della sinistra, compresi alcuni del Pd, "Sono già 42 mila le aziende operanti nell'Unione che fanno capo a società statunitensi con filiali in Canada, e con l'approvazione del Ceta queste imprese potrebbero intentare cause agli Stati per conto degli Stati Uniti senza che il Ttip sia ancora entrato in vigore". Ecco spiegata, dunque, la funzione di cavallo di Troia del Ceta.
Qualcuno magari potrebbe credere che, vista la vastissima opposizione popolare al Ttip, che ha spinto vari governi a una maggiore cautela, la Commissione Ue dovrebbe tenere conto di questi orientamenti anche a proposito del Ceta. Niente di più sbagliato. La Commissaria al Commercio Cecilia Malmström, a una domanda in proposito di un giornalista dell'Independent, ha risposto secca: "I do not take my mandate from the European people", il mio mandato non deriva dal popolo europeo (e quindi non devo rispondere ai cittadini di quello che faccio). Quando si parla di tecnocrati di Bruxelles che se ne infischiano delle regole della democrazia non si esagera affatto.
Se poi a questi tecnocrati danno una mano anche alcuni politici, le procedure democratiche vanno a farsi friggere. E qui veniamo al ruolo che sta svolgendo l'Italia, nella persona del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che però con ogni evidenza ha la copertura politica del governo e del suo presidente, Matteo Renzi. Calenda aveva già chiarito quale fosse la sua posizione riguardo a questi accordi: "Non si può rischiare che saltino a causa del voto negativo del Parlamento di uno dei paesi membri", quindi a quei Parlamenti non devono essere sottoposti; la decisione dev'essere presa dal Consiglio dei capi di Stato e di governo, a maggioranza qualificata, e poi ratificata dal solo Parlamento europeo (che si sa quanto sia in grado di rovesciare le decisioni del Consiglio: mai successo).
Ora Calenda ha agito di conseguenza: ha inviato una lettera alla Commissione a nome dell'Italia sostenendo che la procedura debba essere quella. La sua iniziativa, che ha dichiarato di aver preso "in assoluta autonomia" (cosa assai poco credibile, vista la rilevanza della materia), ha provocato levate di scudi in mezza Europa: da Laura Boldrini, in difesa delle prerogative del Parlamento, al vice cancelliere tedesco Sigmar Gabriel, al cancelliere austriaco, al segretario al Commercio francese. Ma a causa di una singolare norma potrebbe essere decisiva.
Gli accordi commerciali sono di competenza della Commissione Ue quando riguardano solo materie che non siano anche di competenza degli Stati nazionali, come, nel caso in questione - si elenca nelle interrogazioni - "la proprietà intellettuale, i trasporti, la sicurezza sul lavoro, gli investimenti". In questo secondo caso si definiscono "misti" e devono essere ratificati anche dai Parlamenti nazionali. Chi decide se l'accordo è "misto"? Lo decide la Commissione. Spiega Stefano Fassina, tra i firmatari di una delle interrogazioni: "Per cambiare la decisione della Commissione è necessaria l'unanimità del Consiglio. Quindi, è sufficiente il no dell'Italia per far andare avanti la posizione della Commissione". Incredibile.
Da varie fonti arrivano voci secondo cui la posizione italiana deriverebbe da un accordo ufficioso: in cambio di questa mossa, la Commissione avrebbe chiuso un occhio e anche l'altro sui nostri conti traballanti, e avrebbe dato il via libera al Fondo di garanzia pubblica per le banche. E' plausibile ma non abbiamo modo di verificare se sia vero. Se così fosse l'avremmo almeno fatto per averne un qualche vantaggio. Ma visti i protagonisti, forse è stato fatto solo per convinzione.
Comunque sia andata, ora così stanno le cose. La decisione della Commissione sulla natura del Ceta, european only oppure "misto", è prevista per martedì (5 luglio).

Italicum, opportunismo di Stato. - Alessandro Di Marzio

image

Con la calendarizzazione di una mozione di Sinistra Italiana per rivedere gli evidenti vizi di costituzionalità dai quali è affetto, l’Italicum ritorna a poter essere discusso dal Parlamento. Un tardivo mea culpa da parte del Governo? No, semplicemente paura di perdere le elezioni davanti al sempre più temibile pericolo grillino.

Poco più di un anno fa, il 4 maggio del 2015, l’Italicum diveniva legge, approvato definitivamente dalla Camera dopo ben tre questioni di fiducia poste su di esso. Firmato da Mattarella pochi giorni dopo, veniva poi regolarmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale, con la condizione che sarebbe entrato in vigore dopo un anno, cioè nel giugno di quest’anno.
Da subito esso incontrò l’ostilità di opposizioni e costituzionalisti, ravvisandosi al suo interno una sostanziale riproposizione, un po’ incipriata e improfumata, degli stessi vizi d’incostituzionalità sanzionati dalla Consulta nel Porcellum: un premio di maggioranza spropositato e non sottoposto a una soglia minima di accesso, e la presenza di liste bloccate.
Nei mesi seguenti e fino a poche settimane fa però il Governo, con la sua solita propensione al dialogo e al confronto di idee, ha sempre accuratamente evitato ogni discussione inerente l’Italicum, additando come gufi, fascisti, parrucconi, reazionari tutti quelli che abbiano provato a manifestare dubbi di costituzionalità su tale legge. “L’Italicum ormai è legge”, veniva ripetuto come un mantra da Palazzo Chigi, e dietro questa evidenza inconfutabile (o banalità?) veniva censurata qualsiasi proposta di intervento sulla chimera renziana. Nel frattempo è partita in questi mesi anche una raccolta firme per un eventuale referendum abrogativo, nel caso in cui la Corte Costituzionale nella sentenza prevista per il 4 ottobre dovesse inaspettatamente contraddire sé stessa e non sanzionare i medesimi vizi che sanzionò due anni e mezzo fa. Ma dal Governo sempre picche. L’iItalicum è legge e non si discute.
Questa settimana invece, un improvviso cambio di rotta: mercoledì la conferenza Capigruppo della Camera ha infatti calendarizzato per settembre una mozione di Sinistra Italiana, per “intervenire[…] sulla riforma approvata, eliminando quei palesi vizi di incostituzionalità che la rendono […] destinata a provocare una nuova pronuncia della Corte”. Da Governo, silenzio. Strano. 
Forse che Renzi ha scoperto un’app per scaricare sul suo iPhone un compendio di diritto pubblico, e ha così iniziato a studiarsi la Costituzione? 
Forse che la Boschi ha letto la sentenza 1/2014 e ha scoperto che l’Italicum è un’altra porcata alla pari del Porcellum? 
O forse addirittura che Mattarella si è improvvisamente ricordato che anche lui faceva parte della Corte Costituzionale quando fu prodotta la famosa sentenza, e dunque ha realizzato di aver firmato da Presidente della Repubblica una legge affetta dagli stessi vizi che aveva ritenuto incostituzionali come Giudice della Consulta?
No, niente di tutto ciò. Molto più semplicemente ci sono state le elezioni comunali, e Renzi, dopo aver perso contro il Movimento5Stelle ben 19 ballottaggi su 20, ha scoperto che il suo PD è ben lontano dal 40% delle europee, sull’onda delle quali fu approvato l’Italicum, bensì da allora ha perso almeno un quarto, se non un terzo dei voti. E il M5S non è più di poco sopra il 20%, ma è salito oltre il 30%. Dunque l’Italicum per così concepito rischia seriamente, a un eventuale ballottaggio, di far vincere i pentastellati. Ecco quindi che improvvisamente la mozione di Sinistra Italiana, che rimette in discussione la legge elettorale, è la benvenuta. Senza considerare che così facendo si sposterebbe anche la pronuncia della Corte che dal 4 ottobre, alla vigilia del referendum sulla riforma Boschi, slitterebbe molto più in là, attutendo così l’effetto catastrofico che potrebbe avere sul Governo la concomitanza della bocciatura sia dell’Italicum che della riforma costituzionale.
Un improvviso zelo governativo, un’apprezzabile per quanto tardiva preoccupazione per i profili di costituzionalità dell’Italicum? Niente di tutto questo. Il Governo se ne frega altamente della Costituzione (altrimenti non avremmo nemmeno questo governo e saremmo andati già a elezioni tempo fa con il Mattarellum o con il cd Consultellum), sta soltanto approfittando in maniera sfacciatamente opportunista di un’occasione per scongiurare la possibilità sempre più concreta di perdere rovinosamente sia referendum che elezioni, pronto a tutto pur di restare incollato col Bostik alle comode poltrone imbottite di Palazzo Chigi e Montecitorio.

domenica 3 luglio 2016

Bar, ristoranti e stabilimenti balneari: è boom lavoratori in nero.

Bar, ristoranti e stabilimenti balneari: è boom lavoratori in nero


Non sono in regola la metà degli addetti, quota salita del 10% in un anno.


Bar, ristoranti e stabilimenti balneari, nelle località turistiche, puntano tutto sull'incasso estivo. A luglio e agosto si giocano il 70-80% del fatturato annuale e non possono fallire. Così, con l'alta stagione, cresce la necessità di manodopera, che arriva in molti casi a triplicarsi rispetto al resto dell'anno. Il problema è che cresce anche la quantità di lavoratori in nero: si calcola che siano in media il 50% di quelli impiegati in questo periodo e che la quota di personale non in regola sia salita almeno del 10% rispetto alla scorsa estate
E' quanto emerge da un'indagine dell'Adnkronos che ha interpellato associazioni di categoria e rappresentanti sindacali nelle principali località turistiche italiane.
Il fenomeno è diffuso in tutta Italia ma registra punte di sommerso vicine all'80% in diverse realtà meridionali. Si segnalano, in particolare, aree di grande evasione contributiva in Campania e Calabria. In queste realtà sono comunque frequenti i controlli e le sanzioni da parte della Guardia di Finanza, così come è costante l'azione degli ispettori del ministero del Lavoro su tutto il territorio nazionale. Ma, segnalano i sindacati, non basta. Per fronteggiare veramente il sommerso, fanno notare, servirebbe una maggiore disponibilità a denunciare lo sfruttamento, sia da parte dei lavoratori sia da parte degli operatori onesti, che subiscono una concorrenza sleale.
D'altra parte, a incidere sul fenomeno, secondo quanto ritengono le associazioni di categoria, sono anche i margini di guadagno ridotti dalla crisi e il peso delle tasse che gli esercenti continuano a lamentare. Né le ultime novità normative sembrano essere risolutive. Nella quota del lavoro nero vanno considerati anche quei lavoratori che hanno solo una piccolissima parte della retribuzione che percepiscono coperta dai voucher, lo strumento introdotto dal Jobs Act per assicurare una corretta formalizzazione al lavoro occasionale. Lo schema che si ripete, segnalano i sindacati, è piuttosto semplice: con un voucher ogni tanto si pensa di rispettare le regole, quando invece l'80-90% di quanto viene percepito dal lavoratore resta sommerso.

LA PRIGIONE NEOLIBERALE: L’ISTERIA DEL BREXIT E L’OPINIONE LIBERALE. - Jonathan Cook,


Da Counterpunch, un nuovo articolo che commenta le reazioni scomposte della stampa, questa volta britannica, alla vittoria del Brexit: opinionisti liberali, ormai del tutto proni alla destra economica, che calpestano quegli stessi principi che dicono di difendere e invitano al sovvertimento dell’esito del referendum. L’articolo è anche un invito alla sinistra perché guardi in faccia la realtà e smetta di dare del razzista a chi, dentro la prigione liberista, non ha più diritto nemmeno all’ora d’aria e si ribella votando contro gli interessi dei carcerieri.
La furiosa reazione liberale al voto sul Brexit è un fiume in piena. La rabbia è patologica – e aiuta a far luce sul motivo per cui la maggioranza dei cittadini britannici ha votato per lasciare l’Unione Europea, così come precedentemente la maggioranza dei membri del partito laburista ha votato per Jeremy Corbyn come leader.
Alcuni anni fa lo scrittore americano Chris Hedges ha scritto un libro che ha intitolato “La morte della classe liberale“. La sua argomentazione non era tanto che i liberali erano scomparsi, ma che erano stati così cooptati dalla destra e dai suoi obiettivi – dal sovvertimento degli ideali economici e sociali progressisti da parte del neoliberismo, all’abbraccio entusiastico della dottrina neo-conservatrice nel perseguire guerre aggressive ed espansionistiche oltremare sotto la parvenza di “intervento umanitario” – che il liberalismo era stato svuotato di ogni contenuto.
Gli opinionisti liberali ci si angosciano sopra con sensibilità, ma invariabilmente finiscono per sostenere politiche a beneficio di banchieri e produttori di armi, e quelle che creano il caos nel paese e all’estero. Sono gli “utili idioti” delle moderne società occidentali.
I media liberali britannici attualmente sono traboccanti di articoli di commentatori sul voto del Brexit che potrei scegliere per illustrare la mia argomentazione, ma questo del Guardian, scritto della giornalista Zoe Williams, credo che isoli questa patologia liberale in tutto il suo sordido splendore.
Eccone una parte rivelatrice, scritta da una mente così confusa da decenni di ortodossia neo-liberale che ha perso il senso dei valori che sostiene di abbracciare:
“C’è un motivo per cui, quando Marine Le Pen e Donald Trump si sono congratulati con noi per la nostra decisione, è stato come prendere un pugno in faccia – perché sono razzisti, autoritari, meschini e rivolti al passato. Incarnano l’energia dell’odio. I principi su cui si fonda l’internazionalismo – cooperazione,  solidarietà, unità, empatia, apertura -, questi sono tutti elementi soltanto dell’amore “
Un’Unione Europea piena di amore?
Ci si chiede dove, nei corridoi della burocrazia dell’UE, Williams identifichi quell'”amore” che ammira così tanto. Lo ha visto quando i greci venivano calpestati e costretti alla sottomissione, dopo essersi ribellati alle politiche di austerità che sono  esse stesse un’eredità delle politiche economiche europee, che hanno prescritto alla Grecia di vendere l’ultimo dei gioielli di famiglia?
E’ innamorata di questo internazionalismo quando la Banca Mondiale e il FMI vanno in Africa e costringono le nazioni in via di sviluppo alla schiavitù del debito, in genere dopo che un dittatore ha distrutto il paese, decenni dopo essere stato insediato e appoggiato dalle armi e dai consiglieri militari degli Stati Uniti e delle nazioni europee ?
Che cosa pensa dell’internazionalismo pieno di amore della NATO, che ha fatto affidamento sull’UE per espandere i suoi tentacoli militari in tutta Europa, ad un pelo dalla gola dell’orso russo? Questo è il tipo di cooperazione, di solidarietà e di unità a cui stava pensando?
Williams poi fa quello che molti liberali britannici stanno facendo in questo momento. Chiede sottilmente il sovvertimento della volontà democratica:
“La rabbia del fronte progressista del Remain, però, ha un posto dove andare: sempre inclini all’ottimismo, ora abbiamo la forza per mettere da parte l’ambiguità al servizio della chiarezza, di mettere da parte le differenze al servizio della creatività. Senza più imbarazzo o distacco ironico, abbiamo indietreggiato di fronte a questa lotta per troppo tempo. “
Questo include cercare di cacciare Jeremy Corbyn, naturalmente. I sostenitori “progressisti” del Remain, a quanto pare, ne hanno avuto abbastanza di lui. Il suo crimine è provenire dall'”aristocrazia di sinistra” – a quanto pare anche i suoi genitori erano di sinistra, e avevano anche principi internazionalisti così forti che si incontrarono per la prima volta in un comitato sulla guerra civile spagnola.
Ma il maggiore crimine di Corbyn, secondo Williams, è che “non è a favore dell’UE”. Sarebbe troppo affanno per lei cercare di districare lo spinoso problema di come un sommo internazionalista come Corbyn, o Tony Benn prima di lui, abbia potuto essere così contrario all’UE piena di amore. Quindi non se ne preoccupa.
Ribaltare la volontà democratica
Non sapremo mai da Williams come un leader che sostiene le persone oppresse e svantaggiate in tutto il mondo sia fatto della stessa pasta di razzisti come Le Pen e Trump. Richiederebbe il tipo di “pensiero agile” di cui accusa Corbyn di essere incapace. Potrebbe insinuare il fatto che c’è una tesi di sinistra del tutto separata da quella razzista – anche se a Corbyn non è stato permesso di sostenerlo dal suo partito – per abbandonare l’Unione Europea. (Potete leggere le mia argomentazioni a favore del Brexit qui e qui.)
Ma no, ci assicura Williams, il Labour ha bisogno di qualcuno con una eredità di sinistra molto più recente, qualcuno in grado di adattare le sue vele ai venti dominanti dell’ortodossia. E quel che è ancora meglio è che c’è un partito laburista pieno di seguaci di Blair tra cui scegliere. Dopo tutto, le loro credenziali internazionali sono state dimostrate più volte, anche nei campi di morte in Iraq e Libia.
E qui, avvolta in un unico paragrafo, c’è una pepita d’oro della patologia liberale proveniente dalla Williams. La sua furiosa richiesta liberale è di strappare i fondamenti della democrazia: sbarazzarsi di Corbyn, democraticamente eletto, e trovare un modo, qualsiasi modo, per bloccare l’esito sbagliato del referendum. Nessun amore, solidarietà, unità o empatia per coloro che hanno tradito lei e la sua classe.
“Non c’è stato momento più fertile per un leader laburista dagli anni ’90. L’argomentazione a favore di rapide elezioni generali, già forte, si intensificherà soltanto nelle prossime settimane. Mentre l’assoluta menzogna della tesi del Leave diventa chiara – non ha mai avuto intenzione di frenare l’immigrazione, non ci saranno soldi in più per il servizio sanitario nazionale, non c’era nessun piano per compensare i fondi UE verso le aree svantaggiate – ci sarà un argomento potente per inquadrare le elezioni generali come una rivincita. Non un altro referendum, ma un freno all’articolo 50 e alla prossima mossa decisa dal nuovo governo. Se volete ancora lasciare l’UE, votate per i conservatori. Se avete capito o sapevate quale atto di vandalismo sia stato, votate Labour”.
La prigione neoliberale
Il voto sul Brexit è una grande sfida alla sinistra perché affronti i fatti. Vogliamo credere che siamo liberi, ma la verità è che siamo stati a lungo in una prigione chiamata neoliberalismo. I partiti conservatori e laburisti sono legati col cordone ombelicale a questo ordine neoliberale. L’UE è una istituzione chiave in un club neoliberale transnazionale. La nostra economia è strutturata per far rispettare il neoliberismo, chiunque apparentemente governi il paese.
Ecco perché il dibattito sul Brexit non è mai stato sui valori o sui principi – era una questione di soldi. Lo è ancora. I sostenitori del Remain stanno parlando soltanto della minaccia alle loro pensioni. I sostenitori del Brexit stanno parlando soltanto del ruolo degli immigrati nel far scendere i salari. E c’è una buona ragione: perché l’UE è parte delle mura della prigione economica che è stato costruita intorno a noi. Le nostre vite sono ormai solo una questione di soldi, come i giganteschi salvataggi delle banche troppo-grandi-per-fallire ci dovrebbero aver mostrato.
C’è una differenza fondamentale tra le due parti. La maggior parte dei sostenitori del Remain vuole far finta che la prigione non esista perché ha ancora il privilegio dell’ora d’aria. I sostenitori del Brexit non possono dimenticare che esiste perché non è mai permesso loro di lasciare le loro piccole celle.
La sinistra non può chiamarsi sinistra e continuare a frignare sui suoi privilegi perduti, mentre denuncia quelli intrappolati all’interno delle loro celle come “razzisti”. Il cambiamento richiede che prima riconosciamo la nostra situazione – e quindi di avere la volontà di lottare per qualcosa di meglio.
[Nota del Traduttore: nell’articolo, per far fronte all’italica dicotomia tra i termini liberismo e liberalismo, dicotomia che non ha corrispettivo in inglese – dove esiste soltanto la parola “liberalism” – , si è spesso tradotto “neo-liberalism” come “neo-liberalismo” a discapito del più diffuso, in Italia, “neo-liberismo”, che a parere del traduttore indica soltanto la dottrina economica dell’ideologia liberale. “Neo-liberismo/Neo-liberista”  è infatti stato usato soltanto laddove il riferimento alla teoria economica era esplicito]

Giove 'si fa bello' per Juno, con un'aurora brillante.

L'immagine dell'aurora polare di Giove ottenuta combinando le immagini nell'ottico e nell'ultravioletto (fonte: NASA, ESA)

Fenomeno spettacolare come la grande macchia.


Giove 'si fa bello' in vista dell'incontro con Juno, la sonda della Nasa che all'alba del 5 luglio entrerà nella sua orbita per osservarlo da vicino come nessuna missione spaziale ha mai fatto. Il pianeta gigante sta infatti sfoggiando una bellissima aurora polare, particolarmente brillante, fotografata dal telescopio spaziale Hubble. 

In questo modo Hubble prepara la strada al programma di osservazione che si prepara a condurre insieme a Juno, destinata a studiare in dettaglio l'atmosfera del più grande pianeta del Sistema Solare. Le foto dell'aurora, scattate nell'ultravioletto, sono appena arrivate a Terra e sono spettacolari quanto quelle della celebre grande macchia rossa. Sono prodotte dall'incontro di particelle elettricamente cariche con il campo magnetico del pianeta.

Quando Juno sarà nell'orbita di Giove, Hubble continuerà a osservare e misurare le aurore, mentre la sonda misurerà le caratteristiche del vento solare. "Quelle di Giove sono le aurore più attive mai viste e sembra quasi che il pianeta stia preparando una festa con fuochi d'artificio per l'arrivo di Juno", ha osservato il responsabile scientifico della ricerca, Jonathan Nichols, dell'università britannica di Leicester. 

Viste per la prima volta nel 1979, dalla sonda Voyager 1, le aurore di Giove sono state nuovamente osservate nel 2000 dalla sonda Cassini, nata dalla collaborazione fra Nasa, Agenzia Spaziale Europea (Esa) e Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Solo adesso, però, sono state ottenute le loro immagini più dettagliate. E' possibile determinare, per esempio, che occupano una superficie più vasta della Terra e che sono centinaia di volte più ricche di energia di quelle osservate sul nostro pianeta.

venerdì 1 luglio 2016

Brexit: il vero smacco è che si riveli fruttuosa. - Alberto Bagnai

89764175 An EU off 3577740b


Ci siamo lasciati il 16 giugno dicendoci che la Brexit, comunque andasse, sarebbe stata un insuccesso per Bruxelles. 
Minacciando di ritorsioni uno stato che intendeva avvalersi del diritto di recesso previsto dal Trattato di Lisbona, i vertici delle istituzioni europee confessavano vuoi la loro intenzione di non far rispettare un patto sottoscritto, del quale essi sono garanti, vuoi che questo patto contiene clausole inapplicabili, perché destabilizzanti, e quindi va ripensato. 
Quanto ai nostri amici tedeschi, primo fra tutti il ministro Schäuble, si sono messi come al solito in un vicolo cieco: se attuano le loro minacce danneggiano sopratutto la loro economia, la più legata a quella britannica, e fanno capire agli altri membri che l’UE più che a un club somiglia a un lager; se non le attuano diventano poco credibili. Niccolò Machiavelli, o John Nash, che in tempi diversi hanno studiato la teoria dei giochi strategici, si rivoltano nelle rispettive tombe. Ora l’evento si è verificato.
Ricordiamo intanto che quello svolto è un referendum consultivo, al qualre dovrebbe seguire una domanda formale di recesso da parte del governo britannico. Quando e se questa sarà inoltrata, si avvierà la procedura, lunga due anni, nel corso dei quali avremo tempo di tornare sui tanti dettagli tecnici. 
Intanto, però, una cosa è certa: la prima vittima della Brexit rischia di essere la credibilità degli economisti. I due mesi precedenti al referendum hanno visto un florilegio di appelli accorati da parte di colleghi che unanimi prevedevano catastrofi in caso di Brexit. 
Ma qual è la base fattuale di queste profezie?  All’ultimo seminario di Villa Mondragone, organizzato dalla Fondazione Economia Tor Vergata, Jürgen Matthes, dell’Istituto per la ricerca economica di Colonia, ha presentato uno studio sugli effetti della Brexit che considera tutte le simulazioni disponibili. 
La conclusione è che secondo i modelli economici ortodossi il costo della Brexit in media sarebbe relativamente contenuto, sull’ordine del 2% del Pil su una decina d’anni: la metà di quello che il Regno Unito perse nel solo 2009, recuperando la perdita in tre anni. 
Ma allora, perché gli economisti ortodossi sono così catastrofisti? Credo che le risposte possano essere solo due: o non credono ai loro stessi modelli (ma allora, come con i Trattati, basterebbe migliorarli), o qualcuno suggerisce loro di non crederci.
In effetti, che fra i circoli finanziari, visibilmente i più preoccupati dalla Brexit, e quelli accademici possano esistere delle “sinergie” non appare un’ipotesi astrusa, e in linea di principio non ci sarebbe nulla di male, anzi. 
Una sana interazione fra il mondo della teoria e quello della prassi può senz’altro rinvigorire entrambi. Questo purché si conservi autonomia di giudizio. 
Sul Financial Times del 15 giugno Chris Giles ha notato che se l’abbandono dell’UE si dovesse dimostrare vantaggioso, gli economisti subirebbero uno smacco in confronto al quale la loro incapacità di prevedere la crisi del 2008 sembrerebbe una quisquilia. 
Sarebbe una grave perdita, in un momento nel quale occorre prendere decisioni cruciali, su una base possibilmente razionale. Permettetemi però di non fare di ogni erba un fascio. Gli economisti eterodossi la crisi del 2008 l’avevano prevista e come! Hanno fallito, e si accingono a fallire nuovamente, gli autoproclamati ortodossi: sì, proprio quelli che non credono ai loro modelli. E almeno su questa sfiducia possiamo certamente concordare con loro.
Da Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2016

Attenzione! Vale anche per Twitter, Google, e altro.....