mercoledì 20 dicembre 2017

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani.

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani

Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l'aggiudicazione di un giacimento, avvenuta poi nel 2011. Gli imputati sono 15 in tutto, comprese le società Eni e Shell. L'indagine partì da alcune intercettazioni nell'indagine sulla P4.

Claudio Descalzi e Paolo Scaroni sono stati rinviati a giudizio per corruzione assieme ad altre 11 persone e alle società Eni e Shell per il caso Nigeria. Il gup del tribunale di Milano ha stabilito che i 15 imputati, tra i quali c’è anche il faccendiere Luigi Bisignani, dovranno affrontare il processo per la presunta maxi tangente versata dalle due multinazionali del petrolio a pubblici ufficiali e politici nigeriani per lo sfruttamento del giacimento Opl 245.
Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l’aggiudicazione di quel giacimento, avvenuta poi nel 2011. All’epoca dei fatti, Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Esponenti del governo nigeriano avrebbero ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,09 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento. Di cui peraltro, negli scorsi mesi, la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

Nell’avviso conclusioni indagini di un anno fa i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando” Descalzi “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate“.
Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo, che mesi fa ha scelto il rito abbreviato come Obi. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, all’ex ambasciatore russo Ednan Agaev, a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi.
Il processo inizierà il 5 marzo 2018. Nel frattempo Eni ha diffuso una nota per ribadire la “piena fiducia” del consiglio d’amministrazione dei confronti di Descalzi, la cui carica è stata rinnovata lo scorso marzo dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm: “Eni esprime piena fiducia nella giustizia – scrive la multinazionale – e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

Etruria, Ghizzoni: “La Boschi mi chiese se potevamo valutare un intervento. Poi arrivò il sollecito di Marco Carrai”.

Etruria, Ghizzoni: “La Boschi mi chiese se potevamo valutare un intervento. Poi arrivò il sollecito di Marco Carrai”

L'ex ad di Unicredit conferma quanto rivelato da Ferruccio de Bortoli. E chiama in causa anche l'imprenditore amico di Renzi: "Mi mandò una mail, diceva che gli era stato chiesto di sollecitare una risposta. Pensai chi poteva averglielo chiesto e esclusi che fosse stata la banca. Risposi che avremmo parlato direttamente con l'Etruria. Il 29 gennaio 2015 decidemmo di non investire".


Non solo l’allora ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, che come rivelato nel suo ultimo libro dall’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli effettivamente nel dicembre 2014 gli chiese di valutare l’acquisizione di Banca Etruria. Nella sua attesa audizione davanti alla Commissione bicamerale di inchiesta sulle banche, l’ex numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni ha sganciato una bomba su tutto il Giglio magico renziano. Chiamando in causa anche Marco Carrai, sodale di Matteo Renzi, presidente di Aeroporti Firenze e membro del consiglio direttivo della Fondazione Open, che organizza la Leopolda. “Mi mandò una mail per sollecitare una risposta. La mia reazione fu di pensare chi poteva avere chiesto un sollecito da parte del dottor Carrai. Esclusi che fosse stata la banca. Risposi che il nostro canale di comunicazione sarebbe stato direttamente con l’Etruria, avremmo risposto a loro una volta finita la valutazione”.
I primi contatti con il tramite di Mediobanca – Il “primo contatto” che Unicredit ebbe con Banca Etruria, ha rivelato Ghizzoni, “fu il primo settembre 2014. Marina Natale, allora responsabile fusioni e acquisizioni (m&a) della banca, fu contattata da Mediobanca che agiva come advisor per l’Etruria alla ricerca di investitori. Fummo contattati con una lettera e ci fu chiesto se eravamo interessati a esaminare il dossier per un eventuale ingresso nel capitale. Rispondemmo immediatamente che non c’era interesse da parte nostra”. Poi il 6 e 7 settembre 2014, nel corso del Forum Ambrosetti di Cernobbio, “incrociai la ministra Boschi ma non ci fu nessun tipo di contatto con lei”. Il primo incontro tra Ghizzoni e l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Gentiloni, fu l’11 settembre a Palazzo Chigi, presente il capo delle relazioni istituzionali di Unicredit: “Fu un incontro di natura istituzionale, si parlò delle politiche del governo Renzi e molto in generale delle banche, ma non su specifiche banche, in questo incontro non ci fu nessun riferimento a Banca Etruria”.
A fine ottobre 2014 fu direttamente l’Etruria a chiedere un incontro con Ghizzoni, “menzionando alla mia segretaria che ne erano al corrente organi istituzionali. Personalmente pensai alla vigilanza, a Banca d’Italia”. Intanto il 5 novembre Roberto Nicastro, allora direttore generale, “mi disse che era stato contattato dal presidente Rosi per sondare l’interesse di Unicredit”. Il 4 novembre, alla festa per i 15 anni di Unicredit, la Boschi aveva chiesto all’ad se potevano sentirsi nelle successive settimane, prima di fine anno.
In seguito il 3 dicembre 2014, ci fu il primo incontro tra Ghizzoni, il suo assistente, Rosi e l’allora advisor della banca Paolo Gualtieri (poi commissario dell’Etruria). “Mi fu illustrata la situazione, mi dissero che doveva trovare un investitore in tempi rapidi in quanto c’era il rischio di commissariamento. Mi furono illustrati l’avvio della trasformazione in spa e l’idea di separare bad bank e good bank, oltre al’ipotesi di ridurre di 400 persone la forza lavoro e di tagliare le filiali. mi si chiese se c’era interesse di intervenire nel capitale. Risposi che la vedevo molto complicata per i tempi stretti e perché stavamo tutti aspettando la definizione dei nuovi capital ratio da parte della Bce e la risposta era attesa per gennaio e prima di quella data era difficile avviare operazioni che richiedevano assorbimento di capitale”. In ogni caso l’istituto di Piazza Gae Aulenti riconsiderò il dossier visto che la situazione era cambiata rispetto a settembre: la palla fu passata alle strutture tecniche per le loro analisi. “A quanto mi disse Gualtieri prima di venire da Unicredit c’erano stati contatti a quanto so, anche se non ho assoluta certezza, con il mondo delle popolari. Perché Unicredit e non Intesa? Perché Intesa aveva già una posizione forte in Toscana e quindi era più semplice chiederlo a Unicredit, per un discorso di complementarietà territoriale”.
L’incontro con la Boschi: “Mi chiese se era pensabile un’acquisizione” – Il 12 dicembre, mentre i suoi uffici stavano dunque già esaminando l’operazione, Ghizzoni ebbe con la ministra “un incontro fissato dalle segreterie”, sempre a Palazzo Chigi, a tu per tu. “Affrontammo il tema specifico delle banche in crisi. La ministra Boschi mi manifestò la sua preoccupazione non tanto per le banche in crisi del suo territorio, Mps ed Etruria, quanto che cosa questo avrebbe comportato in termini negativi come impatto su famiglie e piccole imprese in termini di erogazione del credito. La ministra mi chiese se era pensabile per Unicredit valutare l’acquisizione o un intervento sulla popolare dell’Etruria, sulla base di questa preoccupazione. Dissi che non ero in grado di dare nessuna risposta e che Unicredit avrebbe deciso solo nel suo interesse. Un ceo di una banca come Unicredit deve mettere in chiaro che è la banca che prende la decisione e questo messaggio fu assolutamente condiviso dal ministro Boschi”.
La ministra “fu cordialenon avvertii pressioni da parte del ministro, ci lasciammo con l’accordo che l’ultima parola spettava a Unicredit che avrebbe deciso solo nel suo interesse. Da allora non ci sono stati ulteriori contatti”. Una “pressione“, ha poi chiarito Ghizzoni rispondendo a una domanda dei commissari, “sarebbe stata se mi avesse detto di acquisire la banca, invece lei mi chiese se era pensabile. Anche dal punto di vista semantico fa la differenza. Sentire pressioni è anche soggettivo. Io dissi che non potevo dare una risposta subito, avrei incaricato i miei. Quindi la richiesta non ha leso la nostra capacità di decidere in maniera indipendente“. Quanto al fatto che Pier Luigi Boschi fosse vicepresidente della banca, “sapevo ovviamente della parentela di Boschi con il padre ma per me non era una cosa rilevante, magari lo era per il ministro ma per me no”.


di Manolo Lanaro
La mail dell’amico di Renzi: “Mi è stato chiesto di sollecitarti” – In ogni caso secondo Ghizzoni gli uffici di piazza Gae Aulenti continuarono a valutare il dossier come se nulla fosse accaduto. “Non c’era nulla da nascondere: incontrando un paio di colleghi, tra cui anche il capo del settore fusioni e acquisizioni, dissi del colloquio in cui c’era stata la richiesta e dissi ‘voi continuate a lavorare in totale indipendenza senza interferenza da parte di nessuno’. L’analisi fu fatta da tecnici in assoluto rispetto e l’analisi si fece in totale indipendenza”. Mentre la due diligence era ancora in corso, il 13 gennaio, “mi arrivò una mail da Marco Carrai: “Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti per una risposta nel rispetto dei ruoli”. La mia reazione fu di pensare chi poteva avere chiesto un sollecito da parte del dottor Carrai. Esclusi che fosse stata la banca. Decisi però di non chiedere nessun chiarimento. Il nostro canale di comunicazione era solo la banca, quindi risposi che stavamo lavorando e alla fine avremmo contattato i vertici di Etruria e comunicato loro le conclusioni”. Ghizzoni ha poi precisato che aveva conosciuto in precedenza Carrai nella veste di presidente di Aeroporti di Firenze e consulente nel settore della sicurezza informatica. “Non l’ho mai considerato come interlocutore politico”, perciò “l’ho considerato come un privato che si interessava di una questione che non gli competeva”.

Conclusioni che furono negative: “La risposta alla banca l’abbiamo data il 29 gennaio 2015. Abbiamo deciso di non investire per più di una ragione. Nel frattempo era arrivata una comunicazione Bce, i ratio patrimoniali erano stati alzati e quell’investimento richiedeva un assorbimento di capitale di 27 basis point (25 erano un miliardo). Quindi non c’era la possibilità di investire questo capitale senza avere ritorni certi. E il portafoglio, anche della good bank, sembrava non di buona qualità. Poi c’era i tema di avere l’ok della Bce”.


Dopo il commissariamento di Etruria nel febbraio 2015 Banca d’Italia, che “era informata” delle trattative sull’Etruria, si rifece viva “e tenni con il capo della vigilanza Carmelo Barbagallo una conference call il 24 febbraio 2015. Mi disse che lo scenario era cambiato e mi chiedeva se rimanevamo sulle nostre posizioni”. Ghizzoni confermò il no della banca a un’operazione.

L’attivismo di Carrai sulle banche – L’interesse particolare di Marco Carrai per il mondo bancario non è senza precedenti. Molti ricorderanno l’editoriale di Ferruccio de Bortoli uscito sul Corriere della Sera il 3 ottobre del 2016 in cui l’ex direttore del quotidiano di via Solferino criticava duramente la gestione governativa dell’ennesima crisi del Monte dei Paschi di Siena. Secondo de Bortoli, tra il resto, era stato il manager fiorentino vicino al premier ad annunciare all’ad del Monte Fabrizio Viola la sua sostituzione con Marco Morelli. “La notizia è totalmente falsa“, aveva fatto sapere Carrai. Promettendo però che avrebbe provveduto a “ritirare immediatamente la querela non appena il dottor de Bortoli riterrà di riconoscere il suo errore“. Cosa effettivamente successa nel giro di poche ore, quando de Bortoli ha diffuso via Facebook una nota in cui si legge: “L’errore è mio. Da una verifica con il destinatario, l’sms di Carrai risulta inviato dopo la telefonata di Padoan”. Tuttavia, prosegue, “la domanda che formulavo nel mio articolo resta legittima e colgo l’occasione per rivolgerla al dottor Carrai. Mi aspetto una risposta ugualmente sincera. Qual è il suo ruolo nella vicenda Monte Paschi e, in particolare, nella sostituzione di Viola con Morelli?”. Non sono ancora pervenute risposte.

Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori. - Lorenzo Vendemiale


Università, il governo scrive male il bando: saltano 6mila finanziamenti per associati e ricercatori

Gli esecutivi Renzi e Gentiloni avevano stanziato 45 milioni di euro per 15mila contributi, ma i criteri di accesso ai fondi erano troppo (e inutilmente) stretti. Risultato: le borse di studio sono diventate 9mila, oltre il 35% si è perso per strada, nonostante ci fossero altri 5mila posti da assegnare e oltre 17mila domande arrivate.

Doveva essere una delle grandi novità per rilanciare la ricerca di base: 45 milioni di euro per 15mila finanziamenti a ricercatori e professori associati dell’università italiana. Un anno dopo, le borse di studio sono diventate appena 9mila: oltre il 35% si è perso per strada, per colpa di un bando scritto male che prevedeva un tetto massimo di assegnatari, a prescindere dal numero effettivo dei partecipanti. Così circa 6mila domande sono state bocciate, nonostante in teoria ci fossero altri 5mila posti da assegnare.
IL FFABR NELL’ULTIMA MANOVRA – A fine 2016 il governo Renzi-Gentiloni (il provvedimento fu pensato dal primo, ma approvato in via definitiva dal secondo) istituì nella Legge di Bilancio il nuovo Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca (anche noto con l’impronunciabile acronimo Ffabr): 45 milioni in più da spendere su progetti di vario ambito, una misura che avrebbe dovuto aiutare gli atenei del nostro Paese, alle prese con una cronica mancanza di risorse. Non tutti furono proprio entusiasti della notizia: il fondo fu bollato come l’ennesimo “bonus” da parte di Renzi al mondo dell’istruzione, c’è chi (come la Fisv, Federazione Italiana Scienze della Vita) parlò persino di “paghetta per i ricercatori”. Ed in effetti sono solo 250 euro al mese, non proprio una fortuna. Ma si trattava pur sempre di una buona opportunità per incrementare i pochi fondi a disposizione per la ricerca. Il progetto ci ha messo un po’ a carburare, generando notevoli aspettative persino al Ministero, se è vero che a inizio anno la ministra Valeria Fedeli (appena arrivata al posto di Stefania Giannini) lo inseriva all’interno delle linee programmatiche del suo mandato. Dodici mesi dopo, possiamo dire che il Ffabr è stato un fallimento.

MANCANO PIÙ DI 5MILA VINCITORI – L’Anvur, la controversa Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca a cui era stato affidato il compito di selezionare le liste dei meritevoli, negli scorsi giorni ha pubblicato l’esito del suo lavoro. Scorrendo gli elenchi degli assegnatari, però, si fa una amara scoperta: i vincitori non sono 15mila, come ci si aspettava e come prevedeva esplicitamente il bando da 45 milioni di euro, ma molti di meno. Per la precisione, 9.446, di cui 7.124 ricercatori e 2.342 professori associati, le due categorie a cui era rivolto il finanziamento. Viene da pensare, in un primo momento, che gli svogliati accademici italiani non si siano neppure degnati di inviare la propria candidatura alla grande occasione che gli era stata concessa dal governo. Ma non è così: le domande, fa sapere l’Anvur, sono state 17.308, comunque più del numero dei posti messi a disposizione.
I CRITERI VOLUTI DAL GOVERNO – Cosa è andato storto, allora? Molto semplice: il bando. I paletti fissati dall’esecutivo, di fatto, rendevano praticamente impossibile l’assegnazione di tutte le borse. Il governo ha voluto che ci fossero dei criteri di selezione, in nome probabilmente dell’ideologia meritocratica che tanto stava a cuore a Renzi. Però invece di prevedere delle semplici graduatorie, con la vittoria di tutti quelli in posizione utile, magari persino con un punteggio minimo da superare come qualsiasi concorso che si rispetti, ha voluto introdurre una percentuale massima di assegnatari: poteva ricevere il finanziamento soltanto il 75% dei ricercatori e il 25% dei professori associati candidati. Un tetto troppo selettivo, specie il secondo, da cui deriva il flop.

Per far sì che ci fossero 15mila vincitori con questi criteri, avrebbero dovuto presentarsi praticamente tutti i ricercatori e professori associati d’Italia. Cosa che ovviamente non è avvenuta, com’era logico che fosse. Un po’ perché il bando prevedeva anche delle cause di esclusione: aver ricevuto altri finanziamenti, essere a tempo determinato o in aspettativa. Un po’ perché poi il Ffabr non era certo la svolta della vita, con i suoi miseri 3mila euro a testa. Togliamo i ricercatori precari (ce ne sono circa 4.500 in Italia), gli accademici già impegnati su altri fronti, o magari semplicemente non interessati, ed ecco che la platea dei partecipanti si riduce fisiologicamente. Alla fine hanno partecipato in 17mila, il 48% dei ricercatori, il 45% degli associati: praticamente uno su due degli accademici italiani, una risposta anche positiva per la prima edizione del bando. Ma insufficiente ad assegnare tutte le borse, visti gli assurdi paletti voluti dal governo: mancano all’appello 5.554 finanziamenti. Ed è andata pure bene che l’alto numero di parimerito in graduatoria abbia fatto sforare leggermente le soglie del 75% e del 25% (sono state esattamente del 77,8% e del 28,7%), altrimenti sarebbero stati pure di più.
LA RICERCA PERDE 16 MILIONI – Il risultato è che dei 45 milioni di euro già stanziati, soltanto 28,4 verranno utilizzati per la ricerca nei prossimi mesi. L’unica consolazione è che gli altri 16,6 almeno non verranno persi del tutto: come previsto da un successivo decreto ministeriale emanato ad agosto dal Miur (che forse aveva subodorato il rischio fallimento), finiranno nel Fondo di finanziamento ordinario delle università italiane (il famoso Ffo), ripartiti tra i vari atenei in base alla loro quota di spettanza. Una redistribuzione a pioggia, insomma, all’interno di un grande calderone che per altro non finanzia solo i progetti di ricerca ma anche tutte le altre varie spese (costi di funzionamento e del personale compresi) delle nostre facoltà. Quanto alla ricerca, pazienza: sarà per il prossimo bonus.

Bertone e il costruttore degli yacht fantasma: s'indaga sulle donazioni da 700 mila euro. - Fabio Tonacci

Bertone e il costruttore degli yacht fantasma: s'indaga sulle donazioni da 700 mila euro
La lettera del cardinal Bertone a Mario La Via.

Trenta milioni al cantiere prestati da Etruria e mai rientrati. Perquisiti l'ex presidente della Banca e altri due manager.


ROMA - Quel che resta di uno dei più sciagurati investimenti di Banca Etruria arrugginisce in un cantiere dismesso del porto di Civitavecchia. Il guscio ferroso dello "yacht più grande del mondo" giace dentro un'impalcatura di tubi innocenti e tendoni laceri. La Privilege Yard, società che doveva costruirlo, è fallita dopo aver avuto dalle banche un finanziamento di cento milioni di euro. Finirlo ora costerebbe più che smantellarlo. I giorni in cui l'ex segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone benediva la chiglia lunga 127 metri, con grande cerimonia, sono lontani. I bonifici che l'alto prelato ha ottenuto dalla Privilege, circa 700.000 euro dal 2008 al 2012 sotto forma di donazioni a enti terzi, invece, ci sono ancora. E due procure della Repubblica, Arezzo e Civitavecchia, ci stanno lavorando su.

I magistrati vogliono ricostruire la rete di amicizie di alto livello dell'imprenditore della Privilege Mario La Via, 72enne romano, indagato per bancarotta a Civitavecchia. 
Tra i suoi contatti, generali dei Carabinieri e della Finanza (tra cui Michele Adinolfi), governatori, sottosegretari. E Tarcisio Bertone. Quale servigio garantì il segretario di Stato Vaticano? La benedizione della chiglia nel settembre del 2008 pare un po' poco, a fronte delle consistenti donazioni successive. Ha avuto un qualche ruolo nel convincere le banche della bontà del progetto del mega yacht?

Questa storia si afferra partendo dalla fine, cioè dalle tre perquisizioni che il procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, ha disposto ieri per l'ex presidente Etruria Giuseppe Fornasari, l'ex consigliere Giorgio Guerrini e il funzionario Paolo Fumi. Sono indagati per bancarotta fraudolenta per il dissesto della Popolare: gli investigatori non si spiegano come abbiano potuto concedere alla Privilege Yard nel 2010 un fido da 57 milioni di euro, con un'istruttoria (condotta da Fumi) aperta e chiusa in appena otto giorni. Il progetto non stava in piedi: la società era nata nel 2006 e non si era mai occupata di yacht, non si sapeva chi fosse il compratore (si favoleggiò di un interessamento di Brad Pitt e Angelina Jolie), il cantiere sorgeva su un terreno che non aveva sbocco diretto al mare ed era circondato da un binario ferroviario. Soprattutto, non c'erano garanzie. Barclays Bank era disposta sì a dare una copertura, ma soltanto dopo il varo.

Etruria si è presa il ruolo di capofila di un consorzio di banche (Unicredit, Bpm, Mps service, Intesa e Banca Marche) che ha concesso alla Privilege Yard crediti per 100 milioni. Ottanta milioni sono stati effettivamente erogati, e ottanta milioni non sono rientrati nelle casse dei sei istituti. Solo Etruria ci ha rimesso 29 milioni: l'ennesima corposa distrazione patrimoniale da attribuire agli ex manager. La Privilege è fallita il 22 giugno del 2015, e la procura di Civitavecchia ha avviato l'inchiesta per bancarotta fraudolenta. È così che quattro anni di corrispondenza tra La Via e Bertone sono finiti agli atti. Pure ad Arezzo stanno studiando quei documenti.

L'ex segretario di Stato vaticano usava La Via come un bancomat. Pretendeva donazioni per enti e diocesi sparse in tutto il pianeta, e l'imprenditore eseguiva. Nel carteggio se ne contano una trentina, per circa 700mila euro. "Egregio dottor La Via, come d'accordi telefonici le invio l'elenco delle richieste che sottopongo alla sua cortese attenzione. Il totale ammonta a 67.600 euro e 20.000 dollari. La ringrazio per la somma che crederà opportuno mettere a disposizione", si legge in una delle lettere firmata da Bertone su carta intestata, datata 16 novembre 2009.

La Via faceva beneficenza con denaro che non era suo, attingendo dai fondi della Privilege Yard. Scorrendo la lista: 35.247 euro al Movimiento de Los Focolares (da sempre vicini a Bertone), 69.738 euro al Collegio Madre del Divino Pastore, 20.000 euro alla Diocesi di Civitavecchia, 21.000 euro alla Fondazione Don Bosco in India e altri 25.000 per la associazione Don Bosco University, 50.000 euro all'arcivescvo boliviano di Cochabamba, 80.000 euro per il completamento della casa vescovile della Curia di Leopoli, 30.000 per la costruzione di una chiesetta a Sagar in India. Quando si attardava a sborsare, veniva richiamato all'ordine. "Il cardinal Bertone - scrive in una mail la segretaria dell'alto prelato, Rosi Bortolussi, il 10 febbraio 2011 - ha ricevuto una lettera da parte del vescovo di Gyor il quale comunica che a tutt'oggi non ha ricevuto il bonifico di 9.000 euro che gli era stato annunciato per una borsa di studio a un seminarista ungherese. Vorrebbe cortesemente far verificare? ".


Il quotidiano Libero a dicembre aveva svelato il contenuto della corrispondenza, dando conto di un misterioso bonifico da 46,3 milioni diretto alla società Privilege Yard Inc. con sede alle Isole Vergini. Se i soldi di Etruria e delle altre banche siano finiti ai Caraibi, è materia di indagine. Ma ai magistrati interessa anche approfondire il ruolo avuto da Bertone. Non sfugge, infatti, che almeno con Unicredit l'ex segretario di Stato avesse rapporti eccellenti. Non foss'altro perché il colosso bancario ha inglobato nel 2007 Capitalia, istituto storicamente vicino al Vaticano.

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/06/24/news/bertone_e_il_costruttore_degli_yacht_fantasma_s_indaga_sulle_donazioni_da_700_mila_euro-142697244/?ref=search

domenica 17 dicembre 2017

Il suicidio in tv di Renzi & Boschi. - Andrea Scanzi

Il suicidio in tv di Renzi & Boschi

Meb & Matteo - Purtroppo per loro li hanno visti.

Ieri Boschi e Renzi si sono esibiti in una maratona su La7. I dati Auditel li hanno premiati, gli spettatori (e dunque elettori) forse un po’ meno. Altre considerazioni.
1) La Boschi querela tutti quelli che non le credono. Quindi io le credo: Boschi nuova Rosa Luxemburg, Gozi Pallone d’Oro e Farinetti al Quirinale con agio.
2) Il fatto che la Boschi abbia accettato di parlare con Travaglio, che odia, e che Renzi sia tornato da Formigli, che detesta, sono buone notizie per la democrazia. Un politico non deve scegliere da chi farsi intervistare.
3) Quella di prima è una buona notizia per la democrazia, ma è anche una pessima notizia per Renzi e Boschi. Vuol dire che i sondaggi sono tremendi e che loro sono alla canna del gas, altrimenti non accetterebbero mai “duelli” difficili. È quel che accadde anche quando Renzi accettò di scontrarsi con Travaglio prima del 4 dicembre (sempre a Otto e mezzo). Evidentemente gli avevano detto che i sondaggi erano terrificanti. E poi si è visto.
4) La pochezza dialettica della Boschi è imbarazzante. Pare davvero la compagna di classe che stava al primo banco, non faceva mai sciopero, andava volontaria alle interrogazioni e recitava a pappagallo il libro senza averci capito granché. Anche ieri parlava in stampatello, scandendo le sillabe e ripetendo “insomma” (o “inzomma”, all’aretina), che è poi il tipico intercalare di chi dialetticamente vale quanto una ciabatta lisa a una sfilata di Louboutin. Più Travaglio parlava e più lei sbatteva gli occhi à la Fassino, deglutiva nervosamente e guardava terrorizzata Lilli Gruber. Se una persona volesse capire cosa non si deve fare in tivù, dovrebbe guardare la Boschi.
5) Quando un politico è in estrema difficoltà, comincia a sparare querele di qua e di là. Se poi il politico in estrema difficoltà è donna, tira pure fuori l’accusa di sessismo a caso. La Boschi, ieri, ha fatto entrambe le cose: ciao core.
6) Maria Elena Boschi può girarla come vuole, ma in Parlamento ha negato che ci siano state “corsie preferenziali”. Che invece sembrano proprio esserci state. Negarlo vuol dire essere ciechi o Andrearomano, che è poi lo stesso.
6 bis) Ieri ho riguardato Twitter dopo mesi. I commenti durante la diretta andavano da “Travaglio la sta massacrando” (se grillini) a “Boschi lo sta uccidendo” (se renziani). Detto che ieri il dislivello dialettico era tale da far sembrare la sfida un incontro tra Muhammad Ali e la Gegia, queste reazioni acritiche dimostrano come l’Italia sia un Paese di tifosi. E che per questo non abbia alcuna speranza.
7) Le opposizioni chiedono le dimissioni della Boschi: sbagliano. Più lei sta lì, più il Pd è (ancor più) attaccabile. Secondo alcuni sondaggisti, la Boschi vale un milione di voti: in meno, però. La Boschi è un Calimero vendicativo della politica. Sembra un trojan horse inoculato da M5S o Lega per indebolire ancor di più quel che resta del Pd. La Boschi è un vulnus che verrà sempre citato dai rivali, in campagna elettorale e non solo, per dimostrare quanto il Pd sia indifendibile. Più lei si imbullona alla poltrona, più gli elettori scappano: complimenti.
8) Il fatto che la Boschi, nonostante tutti i danni che ha fatto e fa, sia ancora lì, non è solo uno schiaffo in faccia alla decenza, alle promesse (non doveva smettere dopo il “no” del 4 dicembre?) e agli elettori: pare anche la prova di come questa donna sappia delle cose inenarrabili, che la rendono in qualche modo temutissima e (dunque) indispensabile. Altrimenti non si spiega come una che politicamente fa più danni della grandine sia ancora lì.
9) Quanto è stanco, Renzi. Non ha mai avuto granché da dire e il talento non lo ha mai intaccato, ma adesso è davvero l’ombra bolsa di se stesso. Anche da Formigli ha ripetuto le stesse cose, però al rallentatore. È affannato, appannato, sfuocato. Un pugile suonato. Non funziona quando fa le battute, non funziona quando prova a esser serio. Disastro.
10) Ieri Renzi ha recitato la parte del chiagnefottista triste, tornato a far politica non per gloria personale ma per il bene supremo di noi tutti (grazie). Ha indugiato sulle sue sofferenze, ha giocato al martire ottimista e ha cercato di commuovere gli astanti. È la sua faccia più insidiosa: prova a farti pena, tu abbassi la guardia e lui ti ha già fregato di nuovo. Se ci cascate un’altra volta, siete proprio pinoli.
10 e lode) Verso la fine dell’intervista a Piazzapulita, Renzi è parso più sereno. Addirittura gradevole. Poi Formigli gli ha chiesto se gli mancasse il potere. E lui, dopo una pausa teatralissima: “Per me il potere è un verbo, non un sostantivo”. Non c’è niente da fare: nelle sue vene non scorre sangue, ma supercazzole.

sabato 16 dicembre 2017

Maria Elena Boschi e gli interessamenti per Banca Etruria, nel 2014 summit in casa per difenderla dai diktat Bankitalia. - Giorgio Meletti

Scontro sul credito – Fornasari, Consoli, Boschi, Trinca

Nel marzo del 2014 - Appena arrivata al governo, l’allora ministro ha ricevuto i vertici di Veneto Banca e dell’istituto di papà per arginare la Vigilanza.

Un sabato di marzo del 2014 Flavio Trinca, presidente di Veneto Banca, e Vincenzo Consoli, amministratore delegato, sono saliti in macchina e hanno percorso di gran carriera i 330 chilometri che separano Montebelluna in provincia di Treviso (sede della banca) da Laterina in provincia di Arezzo. Lì hanno suonato il campanello della villa di Pier Luigi Boschi, consigliere di amministrazione di Banca Etruria, che li attendeva con il presidente Giuseppe Fornasari. I rapporti sono oliati. È proprio Fornasari ad aver voluto nel 2011 Boschi nel cda della banca, in rappresentanza del mondo agricolo aretino. Ed è ancora Fornasari a conoscere bene Trinca: entrambi sono stati deputati, entrambi hanno alle spalle la militanza nella Dc, sebbene in due diverse correnti, l’aretino era fanfaniano (come Boschi), il trevigiano stava con Carlo Donat-Cattin in Forze Nuove.
La rimpatriata scudocrociata non spiega i 660 chilometri in macchina tra andata e ritorno. Il fatto è che Boschi ha organizzato un vertice con la figlia Maria Elena, che da pochi giorni è entrata nel nuovo governo Renzi come ministro delle Riforme, coronando la scalata al potere condotta accanto al suo leader. 
I tre visitatori vanno speranzosi, guardano alla giovane ministra come alla protettrice dei banchieri disperati. Lei ascolta, loro le spiegano le amarezze che li accomunano. 
Da alcuni mesi sia Etruria sia Veneto Banca sono nel mirino della Vigilanza di Bankitalia. Nel corso del 2013 severe ispezioni si sono concluse con letteracce molto simili del governatore Ignazio Visco. Identico il concetto: le vostre banche sono scassate assai, dovete al più presto trovarvi un “partner di elevato standing”, cioè una banca più grande e più sana che vi assorba e vi salvi. Identico il sottotesto, esplicitato a quattr’occhi dal severo capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo: consegnatevi alla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin. Gli uomini di Etruria se lo sentono dire il 5 dicembre, Consoli il 19 dicembre.
Le due banche recalcitrano, per due ragioni. La prima è che sono due Popolari, cioè due cooperative, che assommano circa 150 mila soci che decidono una testa un voto. Chi glielo va a dire che devono consegnarsi senza condizioni al rivale Zonin, il quale ha fatto subito sapere a Fornasari e Trinca che per aretini e trevigiani non ci sarà posto nel cda nella nuova bancona che nascerà dalle due fusioni?
La seconda ragione è più velenosa: i banchieri disperati ritengono che la banca di Zonin sia messa peggio delle loro, e che Barbagallo, forse ingannando lo stesso Visco, stia assediando Arezzo e Montebelluna non per salvare le loro banche ma per darle in pasto alla Popolare di Vicenza, istituto amatissimo da Palazzo Koch e aiutarla a tirarsi fuori dai guai serissimi in cui si è cacciata, nella distrazione della Vigilanza.
La neo ministra ascolta e annuisce. La missione di cui il padre – organizzando l’incontro – la invita di fatto a farsi carico è di mettere a disposizione di Etruria e Veneto Banca “lo spirto guerrier” del nuovo governo per rintuzzare l’aggressività di Palazzo Koch. In realtà non succede niente.
Pochi giorni dopo uno spettacolare blitz della Guardia di Finanza ordinato dal procuratore della Repubblica di Arezzo Roberto Rossi e originato da una denuncia di Barbagallo, fa secco Fornasari con accuse poi rivelatesi infondate al processo di primo grado. Lorenzo Rosi diventa presidente di Etruria e Boschi padre vicepresidente. 
Ma intanto Bankitalia continua a menare fendenti. La verità è che Matteo Renzi, non appena insediato a Palazzo Chigi, ha attaccato il governatore Visco chiedendogli di ridurre il suo stipendio da 495 mila euro annui a 248 mila, il tetto fissato per tutti i dirigenti pubblici. Visco lo manda al diavolo invocando l’indipendenza della Banca d’Italia. Lo strappo tra Palazzo Chigi e Palazzo Koch è velenoso, e non sarà mai ricucito.
Di fatto sarà Etruria la più maltrattata da Bankitalia nei mesi turbolenti delle crisi bancarie. Visco subisce il no a Zonin e va in pressing sugli aretini perché si trovino un compratore. Rosi, Boschi e gli altri battono tutte le strade possibili. Nell’estate 2014 Boschi si fa presentare il piduista Flavio Carboni dall’amico Valeriano Mureddu. Lavorano sull’ipotesi di far salvare Etruria dal fondo Qvs dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, lo stesso al quale, secondo indiscrezioni de La Stampa, si sarebbe rivolto Renzi nei giorni scorsi per chiedergli di salvare Alitalia. Non cavano un ragno da un buco. Si rivolgono allora alla banca francese Lazard e poi a Mediobanca, le quali contattano almeno una trentina di banche in tutta Europa ma ottengono solo dei cortesi “no grazie”. 
Questo spiega perché a gennaio 2015 la ministra, in un ultimo disperato tentativo, si rivolge in modo pressante al numero uno di Unicredit Federico Ghizzoni chiedendogli di salvare la baracca aretina e paterna. Lui risponde educatamente ma prende tempo.
Il 7 febbraio Rosi va a Torino e parla con Ghizzoni in occasione del discorso di Visco al Forex. Non serve a niente. Due giorni dopo il governatore firma il commissariamento di Etruria
Un anno dopo la Boschi si vendicherà con una rancorosa intervista al Correre della Sera senza nominare Visco e Barbagallo ma salutandoli come “le stesse persone che un anno fa suggerivano a Banca Etruria un’operazione di aggregazione con la banca di Zonin”.
LA PRECISAZIONE 
Nel nostro articolo di ieri, a pagina 2 e 3 del Fatto Quotidiano, intitolato “Riunione a casa Boschi per difendere Etruria dai diktat di Bankitalia”, per errore abbiamo scritto che Flavio Carboni era un “piduista”. In realtà, in tutte le inchieste giudiziarie sulla Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli, non è mai emerso che lo stesso Carboni risultasse negli elenchi del “maestro venerabile” sequestrati dalla magistratura nella villa di Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo). Flavio Carboni, invece, fu coinvolto nell’inchiesta sulla fuga a Londra e sull’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi (nel giugno del 1982). Un’accusa dalla quale, però, è stato poi assolto a titolo definitivo, mentre fu condannato per concorso nel fallimento dell’Ambrosiano. 
Il nome di Carboni è legato alle vicende di Banca Etruria (Arezzo) perché a lui, nell’estate del 2014, si era rivolto Pier Luigi Boschi (padre del sottosegretario Maria Elena), allora vicepresidente dell’istituto toscano, per chiedergli consigli sulla nomina del direttore generale di Etruria. A mettere in contatto Boschi con Carboni era stato un massone, Valeriano Mureddu.

mercoledì 13 dicembre 2017

Buon Natale, ministro Calenda. - Davide Casaleggio

Buon Natale, ministro Calenda

Il ministro Calenda ha criticato l'appello di Luigi Di Maio ad approvare la legge sulle chiusure festive (votata anche da partiti presenti nel suo stesso governo) dicendo che così si fa un regalo ad Amazon. È una visione molto semplicistica e inadeguata a comprendere il fenomeno. Non si può essere esperti di tutto.

La crisi della vendita al dettaglio è un fatto. Ed è vero che, come spiega un’analisi dell’Ufficio Economico Confesercenti, dal 2010 al 2016 il settore del retail italiano ha registrato una diminuzione delle vendite di circa 7,7 miliardi di euro. Oltre alla crisi sicuramente influisce la crescita continua dell'e-commerce che in Italia è da anni a doppia cifra (del 10% tra il 2015 e il 2016), nonostante i numeri reali siano ancora molto bassi rispetto alla grandi economie mondiali. La soluzione per le imprese però, come segnalano i veri esperti del settore, non è far lavorare i negozianti o i dipendenti dei centri commerciali durante le feste o 24 ore su 24 7 giorni su 7 come può fare solo un sito di commercio elettronico, ma "l'ibridazione". Ossia combinare online e offline, click e mattoni, velocità e qualità. Questo vale sia per i piccoli che per i grandi. Pensate che anche Amazon sta investendo nella creazione di negozi fisici e circa metà del fatturato di Amazon in Italia é proprio delle imprese e dei negozianti italiani che lo usano come piattaforma. Ma forse Calenda non lo sa.

Inoltre è proprio durante il suo mandato che il retail italiano ha continuato a perdere. Gli unici ad aver guadagnato sono le società della grande distribuzione estera, in particolare francese e tedesca. Fino a quando non si investirà sul serio sull'innovazione e sull'e-commerce, che già oggi é uno dei principali strumenti per i negozianti per ampliare il proprio mercato, anche in uno dei 6 giorni di chiusura all'anno che propone il MoVimento 5 Stelle. Le regole che difende Calenda privilegiano solo la grande distribuzione, in particolare estera, che può permettersi i turni.

Per quanto riguarda il nostro Paese quindi bisogna investire nella tecnologia e avvicinare le aziende italiane all'e-commerce, magari anche con un sito come Italia.it destinato a questo scopo per far vendere i nostri prodotti in tutto il mondo, come previsto dal programma di governo del MoVimento 5 Stelle. Ma negozianti e lavoratori devono avere il diritto a godersi le feste con la propria famiglia. Di questo dovrebbe occuparsi il ministro dello Sviluppo Economico, non certo della campagna elettorale in tv da Vespa.

Buon Natale ministro Calenda, lei che può se lo goda con la sua famiglia.

http://www.beppegrillo.it/2017/12/buon_natale_ministro_calenda.html