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lunedì 31 maggio 2021

Rapiti più di cento bambini in Nigeria mentre andavano a scuola.

Una donna nigeriana con i suoi figli - ANSA

I rapitori hanno lasciato andare i piccoli che non erano in grado di camminare. 

Un grande numero di bambini che frequentano la scuola coranica Salihu Tanko in Nigeria sono stati rapiti insieme ad alcuni passeggeri di un autobus da un gruppo di uomini armati. Lo ha riferito il governo nigeriano sul suo account twitter.

"I rapitori hanno liberato undici bambini, che erano troppo piccoli per camminare", ha detto il governo della Nigeria.

La scuola Salihu Tanko Koranic stava registrando per l'ingresso circa 200 bambini al momento dell'attacco da parte di un gruppo di uomini armati, ma molti sono riusciti a fuggire, ha detto un dirigente scolastico che desidera rimanere anonimo per la sua sicurezza.

"All'inizio hanno preso più di un centinaio di studenti, ma poi hanno lasciato andare quelli che consideravano troppo piccoli per camminare, tra i 4 e i 12 anni", ha detto ancora il dirigente, aggiungendo di non avere cifre precise sul numero di bambini rapiti.
Questo nuovo rapimento arriva il giorno dopo il rilascio di 14 studenti nello stato di Kaduna (nord), dopo 40 giorni di detenzione. Cinque studenti sono stati giustiziati dai loro rapitori nei giorni successivi al rapimento per fare pressione sulle famiglie e costringere il governo a pagare il riscatto.
Sulla stampa locale, le famiglie hanno dichiarato di aver dovuto pagare in totale 180 milioni di naira (357.000 euro) per ritrovare i propri figli. Da diversi mesi gruppi di banditi sono coinvolti in rapimenti di massa rivolti alle scuole: dal dicembre 2020 sono stati sequestrati 730 bambini e adolescenti.

ANSA

sabato 10 ottobre 2020

E l’Eni fa causa alla Nigeria: “Rivogliamo i nostri pozzi”. - Gianni Barbacetto

 

L’accusa dei pm: l’affare in Africa grazie a tangenti.

Mentre a Milano va verso la conclusione il processo per corruzione internazionale a Eni e ai suoi manager, accusati di aver pagato una supertangente in Nigeria, altre vertenze sul contenzioso nigeriano si accendono in giro per il mondo, a Washington e nel Delaware. Il 3 settembre si è chiusa la causa promossa dallo Stato nigeriano presso la Corte di Giustizia di Londra, che si è detta non competente per motivi di giurisdizione. Ora la compagnia petrolifera italiana ha avviato a Washington un arbitrato contro la Nigeria presso l’Icsid (International Centre for the Settlement of the Investment Disputes), l’organizzazione della Banca mondiale che giudica sulle contese contrattuali internazionali. Il 14 settembre, Eni ha chiesto all’Icsid di valutare il comportamento della Nigeria, che sulla base di accuse di corruzione che Eni ritiene infondate, non ha rispettato il contratto firmato nel 2011 che concedeva a Eni (e alla sua alleata Shell) il diritto di esplorazione sul gigantesco campo petrolifero denominato Opl 245. La Nigeria non ha mai revocato a Eni e Shell la licenza d’esplorazione petrolifera, non l’ha però mai trasformata in licenza estrattiva, bloccando dal 2011 a oggi l’investimento delle due compagnie.

Eni e Shell avevano ottenuto la licenza pagando su un conto a Londra del governo africano 1 miliardo e 92 milioni di dollari, poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali. Una gigantesca corruzione internazionale, secondo la Procura di Milano, un caso di tangente che non è, come di solito, una percentuale dell’affare realizzato, ma addirittura l’intero importo dell’affare. Un normale contratto, secondo Eni, che ripete di aver versato i soldi su un regolare conto del governo, di non essere responsabile di quello che è successo dopo il suo bonifico e di voler tornare quindi in possesso del giacimento, che ritiene di aver regolarmente pagato, prima che la licenza scada, nel maggio 2021.

L’ipotesi dell’accusa formulata dai pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro è però condivisa dagli attuali governanti nigeriani, che accusano di corruzione i loro predecessori, rifiutano di dare a Eni e Shell il giacimento e anzi chiedono di tornare in possesso di quel miliardo di dollari che ritengono strappato al popolo della Nigeria.

A pronunciarsi sulle accuse penali sarà, tra qualche mese, il Tribunale di Milano. Intanto però a Washington è al lavoro anche l’Icsid, che dovrà valutare gli argomenti contrattuali presentati contro lo Stato della Nigeria, per conto di Eni, da due studi legali, Three Crowns di Londra e Aluko & Oyebode di Lagos. “Si tratta di un atto dovuto a tutela dei nostri investimenti e nei confronti dei nostri investitori”, dichiara Eni, “ma confidiamo che si possa comunque arrivare a una soluzione soddisfacente per entrambe le parti”.

Al lavoro anche il Tribunale distrettuale del Delaware, negli Usa, dove Eni ha chiamato in causa la Drumcliffe Partners Llc, una società americana di gestione degli investimenti che si è impegnata a finanziare le azioni legali della Nigeria, in cambio di una percentuale su quanto riuscirà a recuperare. Drumcliffe sostiene di gestire un portafoglio mondiale di richieste di risarcimenti per un valore complessivo di 14 miliardi di dollari che riguardano frodi commerciali, insolvenze, recupero crediti. Nel caso della Nigeria, Drumcliffe ha garantito finanziamenti per 2,75 milioni di dollari da impegnare nelle azioni legali del Paese africano in giro per il mondo, con l’obiettivo di recuperare la cifra di oltre 1 miliardo di dollari che la Nigeria potrebbe ottenere come risarcimento da Eni e Shell .

La vicenda nasce nel 2016, quando il procuratore generale e ministro della Giustizia della Nigeria, Abubakar Malami, dà mandato allo studio legale nigeriano Johnson & Johnson di recuperare i fondi di Opl 245 acquisiti illecitamente, secondo il governo, dalla società Malabu controllata dall’ex ministro Etete. In cambio di un compenso del 5 per cento sulle somme recuperate. Nel 2018, lo studio Johnson & Johnson stipula un accordo con una società del Delaware collegata a Drumcliffe, Poplar Falls Llc, riconoscendole un compenso del 35 per cento sui fondi che riuscirà a recuperare. Sul miliardo ipotizzato, sarebbero tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Una “commissione” abnorme, secondo Eni, che chiede al tribunale del Delaware di fare chiarezza. Secondo un report commissionato dalla compagnia petrolifera, il fondatore di Drumcliffe, James “Jim” Christian Little, nel suo profilo Linkedin conferma di aver lavorato per una azienda, la Sra International, che ha fornito servizi tecnologici alle agenzie d’intelligence Usa; un suo collaboratore, Christopher Camponovo, ha lavorato per il Dipartimento di Stato americano e per il National Security Council Usa.

(foto ilFQ)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/10/e-leni-fa-causa-alla-nigeria-rivogliamo-i-nostri-pozzi/5961226/

mercoledì 22 luglio 2020

“Maxitangente per l’affare Eni in Nigeria”. Chiesti otto anni per Scaroni e Descalzi. - Gianni Barbacetto

“Maxitangente per l’affare Eni in Nigeria”. Chiesti otto anni per Scaroni e Descalzi

Richieste pesanti, anni di carcere e rimborsi miliardari. Dopo due intere giornate di requisitoria, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno formulato le richieste di pena per gli imputati del processo Eni-Nigeria, accusati a Milano di corruzione internazionale. Ben 8 anni per l’appena riconfermato amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e per il suo predecessore Paolo Scaroni; 6 anni e 8 mesi per l’intermediario Luigi Bisignani e per due manager Eni, Vincenzo Armanna e Ciro Pagano; 7 anni e 4 mesi per il braccio destro di Descalzi, Roberto Casula. Addirittura 10 anni per l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete.
È la vicenda della concessione dei diritti d’esplorazione del blocco petrolifero Opl 245, il più grande giacimento della Nigeria, assegnata nel 2011 a Eni e Shell in cambio del pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, versati dalla compagnia petrolifera italiana su un conto a Londra del governo africano, ma poi subito girati a Malabu, una società riferibile all’ex ministro Etete, e infine dispersi in una serie di conti di politici, faccendieri, ministri ed ex ministri nigeriani e di alcuni mediatori internazionali, come Bisignani, Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev (per gli ultimi due sono stati richiesti 6 anni di reclusione).
Pesanti le richieste in denaro: 900 mila euro ciascuna a Eni e Shell come sanzione, più la confisca di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, pari all’intera cifra pagata dalle compagnie per ottenere Opl 245: secondo l’accusa, è una gigantesca tangente, sottratta allo Stato africano e spartita tra politici nigeriani, intermediari e “consulenti”, con qualche “retrocessione” anche a manager Eni. Un caso in cui la mazzetta non è una percentuale, ma l’intera somma dell’affare trattato. Pesanti le richieste di pena (da 6 anni e 8 mesi a 7 anni e 4 mesi) anche per i quattro manager Shell coinvolti nella vicenda e imputati nel processo milanese, che però – a differenza di quelli Eni – sono già tutti usciti dalla compagnia petrolifera anglo-olandese.
A settembre, toccherà agli avvocati di parte civile, che rappresentano lo Stato nigeriano e chiederanno i danni subiti nell’affare, e infine ai difensori dei tredici imputati e delle due compagnie. Eni ha sempre negato le responsabilità proprie e dei propri manager, definendo “inconsistenti” gli argomenti dell’accusa e “prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna”. La compagnia sostiene di aver regolarmente pagato i pattuiti 1,092 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano: “Eni non conosceva, né era tenuta a conoscere l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal governo nigeriano”.

mercoledì 20 dicembre 2017

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani.

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani

Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l'aggiudicazione di un giacimento, avvenuta poi nel 2011. Gli imputati sono 15 in tutto, comprese le società Eni e Shell. L'indagine partì da alcune intercettazioni nell'indagine sulla P4.

Claudio Descalzi e Paolo Scaroni sono stati rinviati a giudizio per corruzione assieme ad altre 11 persone e alle società Eni e Shell per il caso Nigeria. Il gup del tribunale di Milano ha stabilito che i 15 imputati, tra i quali c’è anche il faccendiere Luigi Bisignani, dovranno affrontare il processo per la presunta maxi tangente versata dalle due multinazionali del petrolio a pubblici ufficiali e politici nigeriani per lo sfruttamento del giacimento Opl 245.
Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l’aggiudicazione di quel giacimento, avvenuta poi nel 2011. All’epoca dei fatti, Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Esponenti del governo nigeriano avrebbero ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,09 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento. Di cui peraltro, negli scorsi mesi, la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

Nell’avviso conclusioni indagini di un anno fa i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando” Descalzi “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate“.
Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo, che mesi fa ha scelto il rito abbreviato come Obi. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, all’ex ambasciatore russo Ednan Agaev, a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi.
Il processo inizierà il 5 marzo 2018. Nel frattempo Eni ha diffuso una nota per ribadire la “piena fiducia” del consiglio d’amministrazione dei confronti di Descalzi, la cui carica è stata rinnovata lo scorso marzo dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm: “Eni esprime piena fiducia nella giustizia – scrive la multinazionale – e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

giovedì 10 marzo 2016

Spaccio di droga e tratta sessuale, la mafia nigeriana in Italia.




Migliaia di migranti arrivano in Europa, spinti da sogni e false promesse. Il reportage di Vice on SkyTG24 

Ogni anno dalla Nigeria arrivano in Italia decine di migliaia di migranti, spinti da grandi sogni e false promesse, indebitandosi per pagare il viaggio. Una volta in Italia, però – in assenza di documenti e opportunità di lavoro legale – alcuni finiscono in strada, a spacciare droga o a prostituirsi, nelle reti di una organizzazione criminale nigeriana, sempre più potente, che inizia ad assumere le sembianze di una ‘mafia’.

I reporter di Vice hanno indagato sullo spaccio di droga e la tratta sessuale a partire da alcuni punti di snodo principali: dall’aeroporto di Malpensa, dove hanno assistito al fermo di un presunto corriere, al blitz della squadra mobile dei ‘Falchi’ di Palermo, che perlustrano in moto le piazze di spaccio di Ballarò. Vice ha incontrato anche alcune giovani donne sfruttate per la prostituzione, che stanno trovando il coraggio di rompere il muro di omertà e uscire dalla tratta sessuale, e ascoltato la denuncia di Emeka, giovane nigeriano aggredito e sfregiato con un’ascia – simbolo del Secret Cult dei Black Axe, una delle organizzazioni segrete della Nigeria a cui si appoggiano le organizzazioni criminali nigeriane anche in Italia.


http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2016/03/09/vice-on-sky-tg24-mafia-nigeriana.html

Le mafie sono le uniche "aziende" che attecchiscono in Italia. 
....e non mi pare che lo stato le ostacoli, perchè, se lo facesse, non si espanderebbero, verrebbero respinte.

Cetta

mercoledì 18 novembre 2015

Nigeria, attentato di Boko Haram: almeno 32 morti e 80 feriti.

Nigeria, attentato di Boko Haram: almeno 32 morti e 80 feriti

I fondamentalisti islamici legati all'Isis hanno attaccato una stazione per camion nella città di Yola, nel nordest del Paese. Negli ultimi sei anni di guerra sono morte oltre duemila persone, per la maggior parte civili. Facebook ha attivato il Safety Check. 

Un altro attentato di Boko Haram in Nigeria, nello stesso posto dove, meno di un mese fa, aveva dato l’assalto a una moschea. Il 17 novembre il gruppo fondamentalista islamico legato all’Isis ha colpito una stazione per camion nella città di Yola, nel nordest del Paese, causando la morte di almeno 32 persone e il ferimento di altre 80. Secondo quanto riferito dalla polizia, le vittime sono per la maggior parte venditori o passanti. Neanche un mese fa i Boko Haram avevano attaccato alcune moschee, tra cui una a Yola, uccidendo 42 persone e ferendone un centinaio. In sei anni di guerra, i fondamentalisti hanno ucciso almeno duemila persone, in gran parte civili.
Facebook attiva il Safety check - Un’altra strage per la quale Facebook ha deciso di attivare il Safety Check, l’opzione che consente agli utenti di comunicare la propria incolumità. La piattaforma era finita al centro delle polemiche per averla diffusa dopo gli attentati di Parigi e non in altri casi, come l’attacco a Beirut del giorno primaZuckerberg spiega che Facebook sta studiando criteri per capire quando e come questo strumento sia più utile. Il social network lo aveva già promesso nel fine settimana come replica alle critiche di chi aveva ravvisato nella scelta di usare il Safety Check per Parigi una sorta di discriminazione fra gli attentati che si verificano nel mondo. Il servizio, col quale gli utenti che si trovano in zone colpite da un evento tragico possono dire ai loro amici che ‘stanno bene’, è stato usato con Parigi per la prima volta in un’emergenza diversa da un disastro naturale e Facebook aveva annunciato che sarebbe diventato più frequente.
Il terrorismo aumenta, ma non in Occidente – Nel 2014 sono aumentati gli atti di terrorismo, ma nella maggior parte si tratta di terre di frontiera: il Medio Oriente, il subcontinente indiano e sopratutto l’Africa. Lo testimonia ilGlobal Terrorism Index, rapporto annuale curato dall’Università del Maryland sulla base di dati raccolti da varie organizzazioni in giro per il mondo e ripreso oggi dai media britannici. Rapporto secondo il quale nel 2014 si è contato un numero record di 32.658 morti nel pianeta, addirittura l’80% in più del 2013. Chi ha commesso più atti terroristici sono i jihadisti nigeriani di Boko Haram e i boia del cosiddetto Califfato. Mentre le vittime si sono concentrate al 78% fra Afghanistan e Iraq – simboli di fallimenti sempre più difficili da smentire della strategia militare americana dell’ultimo quindicennio – oltre che Nigeria, Pakistan e Siria.
Altri Paesi indicati come emergenti (o riemergenti) in questa triste classifica sono Somalia, Ucraina, Yemen, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan e Camerun: ciascuno accreditato di un numero di vittime di attentati e attacchi – qualificati come terroristici da alcuni dei gruppi coinvolti nell’indagine talora anche sullo sfondo di guerre civili – pari ad almeno 500 morti all’anno.
Quasi altrettanto scioccanti le cifre sulle devastanti conseguenze economiche provocate dal terrore, con costi stimati nel 2014 a livello planetario a quasi 53 miliardi di dollari, il 61% in più dell’anno precedente. Confermato in ultimo il legame spesso diretto del fenomeno (che il Global Terrorism Index inquadra fin dal 1989) con l’eredità di conflitti militari e con le violenze attribuite alle forze governative di alcuni dei Paesi più coinvolti.