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sabato 23 giugno 2018

Spuntano carte e prove bollenti, crolla l’impero di Napolitano: TG e media di regime nascondono la verità agli italiani sullo spread. - Maurizio Blondet



(MB: Non ci posso credere. Ci sarebbe dunque un giudice a Milano?)
Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di  euro.
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Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.
A onor del vero, scrive Zacché, l’indagine sul gruppo bancario di Francoforte è vecchia di due anni, avviata dalla Procura pugliese di Trani (già attivasi in altri procedimenti finanziari come per esempio quello contro le agenzie di rating). E nel settembre scorso è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini, con i magistrati pugliesi pronti a chiedere il rinvio a giudizio di cinque banchieri che guidavano il gruppo nel 2011 (tra cui l’ex presidente Josef Ackermann e gli ex ad Anshuman Jail e Jurgen Fitschen) e della stessa Deutsche Bank. Poi però non se n’era saputo più nulla. Ora invece si apprende che l’indagine è stata trasferita a Milano dalla Corte di Cassazione, per motivi di competenza territoriale, su richiesta dei difensori della banca. «Come noto – ricorda il “Giornale” – la vicenda riguarda la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva, comunicando tutto soltanto il 26 luglio». Una notizia bomba, tanto che il “Financial Times” titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».
Ora l’indagine che i pm milanesi hanno riaperto ricostruisce l’intera serie di operazioni decise dalla banca tedesca. E, secondo l’accusa, emergerebbe che già alla fine dello stesso mese di luglio del 2011, Deutsche Bank aveva ripreso a comprare Btp (per almeno due miliardi) senza annunciarlo, mentre altri 4,5 miliardi di titoli italiani erano posseduti da un’altra società tedesca acquisita nel 2010 dalla stessa mega-banca. Il 26 luglio, dunque, «Deutsche Bank comunicò le vendite avvenute entro il 30 giugno, ma non gli acquisiti successivi», avendo quindi «venduto prima del crollo dei prezzi, e ricomprato dopo». Una speculazione «che sembra aver fatto perno sulla crisi finanziaria italiana, causandone poi anche quella politica». 
Mario Monti, incaricato da Napolitano, ha così avuto modo di fare quello che i “mercati” (la Germania) chiedevano da tempo: demolire la domanda interna del paese, il cui Pil è crollato di colpo del 10% insieme alla produzione industriale, calata vertiginosamente del 25% aprendo la porta all’acquisto, a prezzi di saldo, di alcune tra le migliori firme del made in Italy. 

venerdì 25 maggio 2018

“Berlusconi ha dato 3 milioni alla moglie di Dell’Utri durante la detenzione”. La Finanza segnala versamenti ‘anomali’.

Dell'Utri con Berlusconi

Tra il novembre 2016 e il febbraio 2017, mentre il fondatore di Forza Italia era già rinchiuso nel carcere di Parma, Berlusconi ha "donato" oltre 3 milioni in pochi mesi ai familiari dell'ex senatore. La segnalazione arrivata da Bankitalia e analizzata dai finanzieri - scrive La Stampa - ha prodotto una "relazione tecnica" inviata alla procura di Milano.


Silvio Berlusconi ha “donato” oltre 3 milioni di euro alla famiglia di Marcello Dell’Utri tra il novembre 2016 e il febbraio 2017, mentre il fondatore di Forza Italia ed ex senatore era già rinchiuso nel carcere di Parma per scontare la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa“Prestiti infruttiferi”, è scritto nella causale dei versamenti analizzati dall’Ufficio informazioni finanziarie di Bankitalia e dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza che hanno segnalato “l’operatività sospetta” alla procura di Milano.
“L’anomala operatività registrata su tre conti correnti intestati a Ratti Miranda Anna“, la moglie dell’amico ed ex socio di Berlusconi, scrive La Stampa, è finita nel mirino degli investigatori durante un fascicolo aperto a carico di Dell’Utri per bancarotta, senza che quel filone portasse a iscrizioni nel registro degli indagati per i pagamenti ora nuovamente nel mirino degli inquirenti. Tre milioni e 328mila euro, a tanto ammontano, solo per il periodo in esame, le “donazioni” fatte dall’ex cavaliere alla moglie e ai tre figli del fondatore di Forza Italia. Solo il 9 dicembre 2016, la moglie di Dell’Utri ha ricevuto due bonifici da “150mila e 100mila euro”provenienti da conti di Berlusconi, che nelle scorse settimane ha “rotto” il protocollo istituzionale durante le consultazioni al Quirinale per parlare a Sergio Mattarella delle condizioni di salute del suo amico.
Quella somma, nel giro di pochi giorni, è finita sui conti di uno degli avvocati dell’ex senatore con causale “spese legali”. Nella relazione firmata dall’Uif e dai finanzieri, però, si legge che in quei mesi “la provvista sul rapporto in argomento risulta costituita da due bonifici per complessivi 2,5 milioni di euro, disposti da Berlusconi Silvio, nonché da numero sei bonifici per un importo complessivo di 828mila euro disposti dalla stessa Ratti da altro rapporto alla stessa intestata”. E tra i beneficiari – scrive La Stampa – non c’è solo la moglie, perché anche i figli di Dell’Utri hanno ricevuto corpose donazioni. Sul conto della figlia Marina vengono segnalati come “anomali” nove bonifici nel 2016 per oltre un milione di euro disposti dalla moglie di Dell’Utri nuovamente come “prestiti infruttiferi”. A loro volta, quei soldi, stando alla relazione inviata in procura, sono poi finiti per “finanziamento soci” nel conto di una società con sede operativa a Santo Domingo che “risulterebbe inattiva”.
Con un “giro” simile alla vigilia della sentenza della Cassazione, che annullò con rinvio il processo d’appello in cui Dell’Utri era stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, furono 15 i milioni transitati prima dal conto di Berlusconi a quello della moglie dell’allora senatore Pdl, e poco dopo gran parte di quella cifra, 11 milioni, sarebbe stata spostata da lì a un altro conto in una banca sempre a Santo Domingo. Gli investigatori rintracciarono i pagamenti nel corso di un’indagine, poi archiviata, per una presunta estorsione da parte del fondatore di Forza Italia ai danni dell’ex premier.
“Prestiti infruttiferi” come quelli concessi alla famiglia Dell’Utri furono disposti da Berlusconi anche agli ospiti delle “cene eleganti” ad Arcore e sono al centro di più indagini e processi– spacchettati in sette procure, da Torino a Siena – per corruzione in atti giudiziari che vedono coinvolto l’ex premier. E altri 27 milioni di euro arrivati da Publitalia ad Alberto Bianchi, amico di Berlusconi e Dell’Utri, sono finiti al centro di un’altra inchiesta della procura di Milano. Soldi ricevuti nell’arco di 14 anni, fino al 2013, e fatturati come provvigioni per la vendita di spazi pubblicitari per le reti del Biscione.
Grazie alle intercettazioni – svelate da FqMillenniuM di febbraio– e alle testimonianze dirette dei funzionari della concessionaria, però, l’indagine ha documentato che Bianchi non ha mai procacciato neppure un singolo cliente. Da qui è partita l’inchiesta sulla reale natura di quei pagamenti. I pm hanno chiesto l’archiviazione per Berlusconi perché non è emersa la prova che fosse lui il demiurgo dei pagamenti. Restano però le intercettazioni di Bianchi, in cui lui stesso, coetaneo del leader di Forza Italia, sostiene di avere ricevuto bonifici a sei zeri in cambio del suo silenzio sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia. Un concetto ribadito più volte: “Sai fino a quando mi pagheranno? Fin quando c’è vivo Dell’Utri. Quando muore Dell’Utri non mi pagano più. Perché la loro paura è che io vada a cantare le canzoni di Dell’Utri e di lui con la mafia“.
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mercoledì 20 dicembre 2017

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani.

Tangenti Eni-Nigeria, Descalzi e Scaroni rinviati a giudizio per corruzione. A processo anche Bisignani

Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l'aggiudicazione di un giacimento, avvenuta poi nel 2011. Gli imputati sono 15 in tutto, comprese le società Eni e Shell. L'indagine partì da alcune intercettazioni nell'indagine sulla P4.

Claudio Descalzi e Paolo Scaroni sono stati rinviati a giudizio per corruzione assieme ad altre 11 persone e alle società Eni e Shell per il caso Nigeria. Il gup del tribunale di Milano ha stabilito che i 15 imputati, tra i quali c’è anche il faccendiere Luigi Bisignani, dovranno affrontare il processo per la presunta maxi tangente versata dalle due multinazionali del petrolio a pubblici ufficiali e politici nigeriani per lo sfruttamento del giacimento Opl 245.
Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, furono versate mazzette per 1,3 miliardi di dollari per l’aggiudicazione di quel giacimento, avvenuta poi nel 2011. All’epoca dei fatti, Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Esponenti del governo nigeriano avrebbero ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,09 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento. Di cui peraltro, negli scorsi mesi, la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

Nell’avviso conclusioni indagini di un anno fa i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando” Descalzi “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate“.
Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo, che mesi fa ha scelto il rito abbreviato come Obi. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, all’ex ambasciatore russo Ednan Agaev, a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi.
Il processo inizierà il 5 marzo 2018. Nel frattempo Eni ha diffuso una nota per ribadire la “piena fiducia” del consiglio d’amministrazione dei confronti di Descalzi, la cui carica è stata rinnovata lo scorso marzo dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm: “Eni esprime piena fiducia nella giustizia – scrive la multinazionale – e nel fatto che il procedimento giudiziario accerterà e confermerà la correttezza e integrità del proprio operato”.

sabato 11 marzo 2017

Sole 24 Ore, indagati il direttore Napoletano, l’ex presidente Benedini, il deputato Quintarelli e altri 6.

Sole 24 Ore, indagati il direttore Napoletano, l’ex presidente Benedini, il deputato Quintarelli e altri 6

I dieci devono rispondere di false comunicazioni sociali e appropriazione indebita. Al centro dell’inchiesta della Procura di Milano c'è la vicenda degli oltre 109mila abbonamenti digitali al quotidiano economico, sottoscritti tra il 2013 e il 2016 tramite la società inglese Di Source Limited. Per i pm si tratta di account fantasma, attivati solo per far sembrare i conti della casa editrice controllata da Confindustria meno in crisi e gonfiare il bilancio 2015.

False comunicazioni sociali e appropriazione indebita. Sono queste le ipotesi di reato con cui la procura della Repubblica di Milano ha iscritto dieci persone nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sui conti del Sole 24 Ore. A essere coinvolti sono nomi di spicco nel quotidiano controllato da Confindustria. Dopo tre mesi di indagini, la Procura di Milano ha individuato due diversi filoni collegati tra loro. Nel primo sono indagati per false comunicazioni al mercato il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, responsabile anche di Radio 24 e dell’agenzia di stampa Radiocor, l’ex presidente del gruppo, già numero uno della Fondazione Fiera Milano, Benito Benedini, e Donatella Treu, ex amministratore delegato e direttore generale dell’editrice. Il secondo troncone riguarda invece il rapporto tra il gruppo di via Monte Rosa e la società inglese Di Source Limited e vede indagati per appropriazione indebita di una cifra che si aggirerebbe intorno ai 3 milioni di euro altre cinque persone: l’ex direttore dell’area digitale, Stefano Quintarelli, che attualmente siede alla Camera nei banchi di Scelta Civica, suo fratello Giovanni Quintarelli, il commercialista Stefano Poretti, Massimo Arioli (ex direttore finanziario del gruppo), Alberti Biella (ex direttore dell’area vendite) e Filippo Beltramini (direttore della società inglese Fleet Street News Ltd).
Le Fiamme Gialle venerdì mattina hanno eseguito perquisizioni nell’ufficio di via Monte Rosa del direttore del quotidiano, negli appartamenti di Treu e Benedini e nell’ufficio del commercialista Stefano Poretti. I finanzieri del Nucleo Valutario, guidati dal colonnello Procucci, hanno eseguito perquisizioni anche sul posto di lavoro di altri cinque indagati. Al centro dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Gaetano Ruta, come detto c’è la vicenda degli oltre 109mila abbonamenti digitali al quotidiano economico, sottoscritti tra il 2013 e il 2016 tramite la società inglese Di Source Limited. Per i pm milanesi si tratterebbe in realtà di account fantasma, attivati solo per far abbellire i disastrati conti della casa editrice di Confindustria e gonfiare il bilancio 2015.
Secondo gli inquirenti Quintarelli, Arioli e Biella sarebbero stati “soci occulti” della società inglese e si sarebbero appropriati, ai danni delle casse del gruppo editoriale, di circa “3 milioni di euro” in tre anni, tra il 2013 e il 2015. Oltre ai 3 ex manager, anche il fratello del deputato, Poretti, Beltramini e una quarta persona, si sarebbero spartiti la cifra contestata dalla Procura. Nella presunta appropriazione indebita il Sole 24 Ore figura come parte offesa. Stando all’ipotesi degli inquirenti, Di Source, società inglese che in pratica acquistava copie digitali dal Sole 24 Ore per poi rivenderle agli utenti su mandato dello stesso gruppo, avrebbe esercitato in realtà un’attività di vendita soltanto virtuale (i presunti dati falsi sulle copie vendute, però, sarebbero poi stati messi a bilancio del gruppo) e avrebbe avuto alla fine un saldo positivo tra entrate (incassi per la sua attività) e uscite (costi) di tre milioni di euro in tre anni. La cifra che, appunto, secondo l’accusa, si sarebbero spartiti i 7 indagati del filone sull’appropriazione indebita.
Mentre l’accusa di false comunicazioni sociali (altra tranche dell’indagine), contestata agli ex vertici del gruppo e al direttore del quotidiano, riguarda i presunti dati falsi sulle copie che hanno impattato sul bilancio del 2015. Non a caso nel decreto di perquisizione, si parla di “gravi anomalie” nell’andamento “economico della società”, di “vendite” di copie digitali “tanto enfatizzate” ma poi accertate come “false” e anche di una parte “significativa di copie” cartacee finita “dritta al macero”. Da quanto si è saputo, il Nucleo speciale di Polizia Valutaria della Gdf, che ha eseguito le attività di indagine anche nella sede del quotidiano, per quanto riguarda la posizione di Napoletano, ha effettuato un “invito alla consegna” di materiale, anche informatico, e non un sequestro. Cautela utilizzata perché si tratta di un giornalista. Stando agli atti, attraverso i presunti dati falsi sulle vendite “si è veicolato – hanno scritto i pm – un messaggio largamente positivo sull’andamento economico” del gruppo che, invece, non era tale.
Di prammatica la posizione ufficiale di Confindustria, che in una nota ha confermato “piena fiducia alla magistratura nella sua azione e ribadisce la necessità che venga fatta la più ampia chiarezza sui fatti passati relativi al Sole 24 Ore“. L’associazione degli industriali, poi, scarica sul cda dell’editrice il compito di valutare “nella sua autonomia le azioni da prendere”. Dal canto suo Confindustria “valuterà tutte le azioni necessarie a tutela propria e degli altri azionisti“. Invece i vertici dell’editrice freschi di nomina “ribadiscono la propria volontà a fornire agli organi inquirenti la massima collaborazione per l’accertamento dei fatti, confermando che agiranno con determinazione a tutela degli interessi della società”. Silenzio assoluto sul futuro del direttore.

martedì 13 maggio 2014

Expo, procuratore Milano Bruti contro Robledo: “A rischio segreto indagini” - Giovanna Trinchella

Expo, procuratore Milano Bruti contro Robledo: “A rischio segreto indagini”


Il capo della Procura di Milano in una nota al Csm (che sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa) osserva che l’invio dell'aggiunto anticorruzione al Csm di copie di atti del procedimento ha rischiato di compromettere l'inchiesta. Tra gli episodi che vengono citati c'è anche quello di un doppio pedinamento: "Solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini".

Lo scontro si sta trasformando in una vera e propria guerra in Procura a Milano. Da una parte c’è il procuratore aggiunto anticorruzione, Alfredo Robledo, dall’altra il procuratore capo di quella cittadella giudiziaria che negli anni ha visto sviluppare inchieste che sono entrata nella storia d’Italia, Edmondo Bruti Liberati. Che oggi accusa il suo aggiunto di aver messo a rischio le indagini su Expo. 
L’esposto al Csm con la segnalazione di anomalie nelle assegnazioni. È un esposto al Csm di Robledo per segnalare anomalie nell’assegnazione dei fascicoli e ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati a rendere pubbliche tensioni che covavano da tre anni. Sì perché a Bruti viene contestata una gestione che ha permesso, secondo l’aggiunto, l’iscrizione ritardata nel registro degli indagati di politici Roberto Formigoni e Guido Podestàritardi nell’esercizio dell’azione penale come il caso Sea-Gamberale perché il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, l’assegnazione del caso Ruby alla Dda, il dipartimento guidato da Ilda Boccassini dedicato alle indagini antimafia.
Bruti: “Ha posto a grave rischio il segreto delle indagini”. L’offensiva – dopo molte audizioni davanti al Consiglio superiore della magistratura – viene rilanciata oggi da Bruti Liberati per cui le iniziative di Robledo (ovvero l’invio di al Csm l’esposto per denunciare anomalie nell’assegnazione dei fascicoli) “hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini” sull’Expo. Proprio ques’ultima inchiesta - con i relativi arresti dell’8 maggio – ha riacceso le tensioni. In una nota al Csm, osserva che l’invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento Expo, anche questo conteso tra la Dda e il Dipartimento anticorruzione, ha anche “posto a grave rischio il segreto delle indagini”.
Il caso del doppio pedinamento. Tra gli episodi che Bruti cita c’è anche quello di un doppio pedinamento: ”Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza” sostiene il procuratore, spiegando che “solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini”. Il fascicolo, allo stato, è seguito da due pubblici ministeri,Claudio Gittardi (Dda) e Antonio D’Alessio (Anticorruzione). I reati contestati agli arrestati (dal compagno G. in giù) sono quelli perseguiti solitamente dai Dipartimento per i reati contro la Pubblica amministrazione: la turbativa d’asta, la corruzione et cetera. L’ultimo capitolo dello scontro arriva a ruota delle dichiarazioni di altre toghe convocate dal Consiglio superiore della magistratura proprio per capire eventualmente qualiprovvedimenti prendere e come dirimere un conflitto che giorno è diventato più pesante. Tanto da far dire a Bruti, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, che l’aggiunto non aveva condiviso le conclusioni.
Pomarici: “Assegnazione caso Ruby a Dda fu anomala”. Dopo le dichiarazioni di Ilda Boccassini(“Nessuna violazione nell’assegnazione del caso Ruby”) arriva, davanti all’organo di autogoverno dei magistrati, la versione di Ferdinando Pomarici, ex responsabile proprio della Dda di Milano. Per il pm quell’assegnazione di un fascicolo in cui si contestava la concussione all’Antimafia è stata ”anomala”. Il magistrato ha spiegato di aver messo nero su bianco le sue critiche in una lettera al procuratore Bruti Liberati. A Bruti Pomarici ha raccontato di aver scritto che l’indagine Ruby era “palesemente estranea”alle competenze della Dda. E ha riferito che in una successiva riunione alla Procura di Milano ribadì le sue perplessità sulla scelta del procuratore.  
“Anomalia anche nel caso Sallusti”. Pomarici ha segnalato un’altra anomalia. Quella riguardante il caso del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, che era stato condannato alla reclusione per diffamazione,e che aveva scatenato una vera e propria rivolta tra le toghe. Secondo Pomarici il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse “un unicum”, cioè una deroga che valesse solo per lui. Pomarici ha confermato la versione data ieri, sempre al Csm, dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell’Ufficio esecuzione della Procura di Milano: di fronte alla richiesta di Bruti di compiere solo per Sallusti una sorta di “operazione chirurgica“e per cui i pm di quel pool si ribellarono. Qualche giorno dopo il procuratore emanò una direttiva con la quale stabilì che da quel momento in poi tutti i casi simili sarebbero stati trattati come quello di Sallusti.
L’iscrizione di Formigoni, per Greco “nessun ritardo”. Altro fascicolo segnalato dall’aggiunto Robledo nella lista delle assegnazioni anomale è quello riguardante l’iscrizione con un anno di ritardo di Roberto Formigoni. Secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari, non ci fu nessun ritardo. 
“Formigoni è stato iscritto nell’apposito registro, quando doveva esserlo” ha sostenuto Greco, facendo peraltro notare al Csm che si tratta di una materia che va al di fuori delle competenze di Palazzo dei Marescialli. Greco ha anche confermato la tesi del procuratore Edmondo Bruti Liberati, secondo cui Robledo non era interessato ad una coassegnazione dell’inchiesta sul San Raffaele, ma in realtà avrebbe voluto lo spezzettamento delle indagini. E ha poi fatto notare che comunque il fascicolo era seguito in prima battuta dal pm Orsi, che proprio in quel periodo era transitato dal pool di Greco a quello di Robledo. Sulla vicenda invece del fascicolo Sea-Gamberale dimenticato dal procuratore in cassaforte, come lui stesso ha ammesso, Greco ha parlato di un atto “incolpevole”. E ha spiegato di aver assegnato subito il fascicolo sull’indagine al pm Eugenio Fusco, uno dei magistrati più esperti della Procura. Il fascicolo, a modello 45, senza reato e senza indagati, rimase dormiente fino a quando un’inchiesta giornalistica non fece esplodere il caso