sabato 29 settembre 2018

Debito e deficit, il tramonto delle regole Ue: il più delle volte sono violate.

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MILANO - L'interpretazione flessibile delle regole europee di bilancio è stata accolta come un passo, tardivo ma necessario, da una buona fetta degli osservatori dell'Eurozona. Il rovescio della medaglia è che le regole rischiano di perdere credibilità. Ne ha fatto un tema costante di appunto il Fondo monetario internazionale, che soltanto poche settimane fa puntava il dito contro l'incapacità europea di applicare le norme che il Vecchio continente si è dato. Secondo l'organizzazione di Washington, infatti, gli obiettivi fiscali di medio termine dal 2002 al 2015 sono stati violati "ogni singolo anno da quasi due terzi dei Paesi membri". In giorni caldi per la definizione della manovra correttiva da 3,4 miliardi che Bruxelles ha chiesto all'Italia, con la minaccia concretissima di aprire una procedura d'infrazione, la Cgia di Mestre ripercorre quanto accaduto negli ultimi anni utilizzando i due binari entro i quali - secondo i Trattati - si deve mantenere la contabilità pubblica, vale a dire il rapporto deficit/Pil sotto il 3 per cento e il rapporto debito/Pil non superiore al 60 per cento.

Secondo l'elaborazione effettuata dall'Ufficio studi dell'associazione veneta, tra i 28 Paesi che compongono l'Unione europea poco più di 1 su 2 (per la precisione 16)  l'anno scorso non ha rispettato le disposizioni previste dai 2 principali criteri di convergenza. Per altro, sottolineano gli artigiani, "ad eccezione della Polonia, tra i dodici paesi virtuosi è importante segnalare che si tratta in massima parte di realtà di piccola dimensione: Malta, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, Bulgaria ed Estonia che fanno parte dell'Area euro".

La crisi ha portato ancor più - legittimamente, diranno in molti - ad allentare i vincoli: "Tra il 2009 e il 2016, solo tre Paesi in Ue (Svezia, Estonia e Lussemburgo) non hanno mai 'sforato' la soglia del 3 per cento del rapporto deficit/Pil; mentre Spagna, Regno Unito e Francia lo hanno fatto ben 8 volte (ovvero ogni anno); Grecia, Croazia e Portogallo 7. L'Italia, invece, lo ha fatto in 3 occasioni e in questi anni ha mantenuto un'incidenza percentuale media del disavanzo pubblico al -3,3: contro il -7,9 della Spagna, il -6,6 del Regno Unito e il -4,8 della Francia".

Il calcolo è semplicistico, perché come ricorda la stessa Cgia la valutazione dei parametri viene effettuata dalla Commissione Europea sulla base di complessi meccanismi di calcolo che tengono conto di ulteriori criteri, come il Pil potenziale, medie triennali, relativi scostamenti ed eventuali accordi precedenti. Ma la sintesi è: "O le disposizioni previste da Maastricht sono troppo rigide, oppure le economie più avanzate d'Europa, dopo tutte le crisi economiche e finanziarie che sono scoppiate in questi ultimi anni, non ce la fanno più ad adeguarvisi. In entrambi i casi è necessario intervenire, introducendo margini di sicurezza per debiti e deficit eccessivi meno stringenti, perché le politiche di austerità e di rigore praticate fino ad adesso non hanno funzionato. Anzi, hanno peggiorato i conti e hanno aumentato a dismisura la disoccupazione e l'esclusione sociale in tutta Europa".
 

I Deficit cumulati dall'avvento della crisi (2009-2016): l'Italia, a metà classifica, ha fatto meglio della media europea
(valori in miliardi di euro e in %)
RANK
(% su PIL)
PAESIANNI 2009-2016 (dati cumulati)In 8 anni...
UNIONE EUROPEA
PILDEFICITInc % DEFICIT/PIL...quante volte è stata sforata la soglia del 3%?
(mld €)(mld €)(media 2009-2016)
1Grecia1.572-145-9,27volte
2Irlanda1.581-138-8,76volte
3Spagna8.524-673-7,98volte
4Regno Unito16.726-1.102-6,68volte
5Portogallo1.408-93-6,67volte
6Slovenia297-17-5,86volte
7Croazia355-18-5,17volte
8Francia16.745-801-4,88volte
9Cipro148-7-4,66volte
10Polonia3.111-133-4,36volte
11Slovacchia585-24-4,14volte
12Romania1.137-42-3,74volte
13Lituania267-10-3,64volte
14Belgio3.105-112-3,65volte
15ITALIA12.966-431-3,33volte
16Paesi Bassi5.224-162-3,14volte
17Ungheria822-25-33volte
18Lettonia174-5-2,83volte
19Austria2.550-66-2,62volte
20Repubblica Ceca1.286-31-2,43volte
21Finlandia1.598-38-2,41volte
22Malta62-1-2,33volte
23Bulgaria335-7-2,13volte
24Danimarca2.048-34-1,61volte
25Germania22.419-172-0,82volte
26Svezia3.290-17-0,50volte
27Estonia143000volte
28Lussemburgo36430,70volte
Unione Europea108.842-4.301-4
Area Euro79.732-2.891-3,6

venerdì 28 settembre 2018

La sfida di Renzi alla Ue: deficit al 2,9% per cinque anni.- Matteo Renzi

(Reuters)

Dal 2018 l’Europa discuterà di come spendere i soldi del periodo 2020-2026. Noi ogni anno mettiamo sul tavolo più o meno 20 miliardi di euro e ne riprendiamo 12. Il saldo netto è dunque negativo. Bene, giusto così. Nessuna piccola polemica provinciale: siamo un grande paese, è giusto aiutare chi è in difficoltà. Si chiama solidarietà. La solidarietà però non si ferma alle questioni economiche.

Se, davanti alla crisi migratoria, i paesi dell'Est – che beneficiano dei contributi nostri e degli altri paesi – non collaborano, non devono poi stupirsi se i criteri di bilancio cambiano. La solidarietà non sta solo nel prendere, ma anche nel dare. In mancanza di un diverso atteggiamento da parte loro sull’immigrazione, dovrà cambiare il nostro atteggiamento sui denari. Qualcuno lo chiama ricatto politico, io lo chiamo principio etico. E, quando tratterà questo punto, il prossimo governo dovrà farsi valere con determinazione e senza incertezze. Su questo punto forse sono un inguaribile romantico ma mi piacerebbe che tutte le forze politiche italiane, nessuna esclusa, per una volta remassero nella stessa direzione.
L’Italia chiede all’Europa di assumere la regola “un euro in cultura, un euro in sicurezza”.
L’Italia chiede all’Europa di rispettare le disposizioni sul surplus commerciale che sono oggi totalmente disattese dalla Germania, creando un danno all’intero continente.
Io ho combattuto contro una visione anti-italiana in Europa. Una visione fatta di pregiudizi più che di giudizi. La visione per la quale un semisconosciuto ministro olandese, per caso presidente dell’Eurogruppo, può dire che i paesi del Sud spendono i soldi per donne e alcol. Una considerazione che, prima ancora di essere sessista e razzista, è stupida. Il presidente della Commissione Barroso ha detto di aver salvato l’Italia in più di una circostanza. Non ho mai apprezzato molto lo stile di Barroso. Quando è stato assunto con superstipendio da Goldman Sachs, mi ha colpito l’attacco durissimo che gli ha rivolto François Hollande. Io ne sono rimasto fuori: più che di Barroso – che ha fatto benissimo ad accettare, dal suo punto di vista – l’errore è stato di Goldman Sachs. È proprio vero che non ci sono più le banche d’affari di una volta.
Non accetto che l’Italia sia trattata come una studentessa indisciplinata da rimettere in riga. È un atteggiamento che fa male all’Europa, che, da speranza politica, diventa guardiana antipatica. E il mio paese non lo merita.
Non sopporto nemmeno il provincialismo italiano, per cui una cosa diviene importante solo se rilanciata da un oscuro terzo portavoce del vicecommissario a Bruxelles. Su questo la nostra stampa si muove in modo provinciale. In Francia nessuno dedica così tanto spazio agli euroburocrati. Un po’ è colpa anche del centrosinistra – diciamo la verità –, che per cacciare Berlusconi ha fatto leva anche sull’Europa, permettendole di entrare in casa nostra. Negli altri paesi non accade così. Ma non è solo un problema legato a Berlusconi. Per anni una parte delle élite di questo paese ha considerato l’Europa come lo strumento per attuare in Italia riforme altrimenti irrealizzabili. Ci sono stati premier che sono andati in Europa come noi andavamo a scuola: con la giustificazione in mano. E poi tornavano a casa dicendo: «Ce lo chiede l’Europa».
Perché erano convinti che facendo così avrebbero “fatto capire” al popolo italiano le cose da fare. Quella stagione ha forse migliorato i conti pubblici ma ha disintegrato l’idea di Europa che i padri fondatori ci avevano consegnato.
Bene, quella stagione l'abbiamo messa in soffitta, spero per sempre. Adesso non è l’Europa che chiede all’Italia di cambiare, ma l’Italia che chiede all’Europa di tornare se stessa. Di riabbracciare quei valori che l’hanno fatta grande. Di recuperare la dimensione della sfida.
Chi ci sta, ci sta. Politica fiscale comune, sicurezza e politica estera unitaria, elezione diretta del governo europeo. Questo serve per fare ripartire di slancio l’Europa. È un orizzonte impegnativo. Ma è il nostro orizzonte. L’Europa deve tornare a scaldare i cuori. Ma per farlo non ci saranno nuove regole, nuovi trattati.
È inutile negarlo: per come stanno le cose nei ventisette paesi, è quasi impossibile scrivere nuove regole che siano universalmente accettate. A questo si somma il fatto che in molti paesi occorrerebbe un referendum di ratifica difficilissimo da vincere: gli ultimi esempi di referendum non sono stati incoraggianti, e noi ne sappiamo qualcosa, ma – pure su quesiti diversificati – dall’Olanda alla Francia fino a Regno Unito e Italia la classe dirigente ha sempre perso le sfide referendarie. L’unica eccezione, peraltro di misura, è la Turchia di Erdogan del 2017, ma è un esempio che fa storia a sé per decine di motivi e che sinceramente è fuori, in tutti i sensi, dalla cultura politica europea.
La nostra proposta, allora, è che per tornare credibile l’Europa torni simbolicamente in tre luoghi fisici: a Ventotene per quel che riguarda gli ideali; a Lisbona per la strategia; a Maastricht per la direzione economica.
A Ventotene perché quell’utopia, lanciata da personaggi che sembravano sconfitti e mandati al confino, ha superato ogni frontiera spaziale e temporale. Ed è viva, più che mai. Non siamo ancora agli Stati Uniti d’Europa, lo sappiamo. E probabilmente non ci arriveremo mai. Ma tornare all’Europa di Ventotene significa non limitarsi a fare delle istituzioni europee un condominio di buone pratiche in cui discutere di aspetti marginali. Significa riportare al centro della discussione la politica e non soltanto la tecnocrazia. E, simbolicamente, noi abbiamo offerto il progetto italiano per la creazione di una scuola europea che ospiti giovani del nostro continente e del Mediterraneo. Un progetto che coinvolga il vecchio carcere dell'Isola di Santo Stefano, diroccato e abbandonato, su cui il governo dei mille giorni ha investito 80 milioni di euro insieme alla Regione Lazio. E che faccia di quest’isola il centro della riflessione ideale e culturale dell’intero Mediterraneo.
L’Europa deve ritornare a Lisbona per ciò che attiene alla strategia e puntare a recuperare quel disegno proposto all’inizio del millennio e mai attuato: volevamo allora fare del nostro continente il luogo più avanzato nei settori della conoscenza e dell’innovazione. Le vicende di questi anni dimostrano che così non è stato. Dalla Silicon Valley al Sudest asiatico, molte altre regioni del mondo sono più competitive di noi in questo settore. Ma qui si gioca il futuro, e non possiamo lasciarlo solo agli altri. E sicuramente vale la pena prendere in considerazione la necessità di uno sforzo maggiore sull’alfabetizzazione digitale. L’Europa dovrebbe a mio giudizio farsi portatrice di una iniziativa coraggiosa che dia a tutti la capacità di essere protagonisti e non solo consumatori passivi del mondo nel quale stiamo entrando. Si tratta di effettuare una gigantesca campagna di alfabetizzazione digitale che, partendo dalle scuole dell’infanzia, introduca il coding tra le materie insegnate in tutte le scuole europee e permetta al nostro continente di cogliere fino in fondo le opportunità offerte dalla quarta rivoluzione industriale.
La società della conoscenza, della ricerca, dell’innovazione segna oggi in modo profondo il futuro anche economico delle nazioni. Le classifiche americane sulla ricchezza vedono sempre di più nelle prime posizioni realtà che hanno scommesso sull’innovazione, e lo stesso Prodotto interno lordo americano è costituito quasi per il 50% da attività nate, sviluppate e cresciute nell’ultimo quarto di secolo. Se a questo si aggiunge – come vedremo nel prossimo capitolo – che una sfida chiave per l’Italia e per l’Europa è quella culturale nel rapporto tra identità e sicurezza, ci rendiamo conto che tornare a Lisbona 2000 significa tornare a fare dell’Europa il luogo dove la globalizzazione può diventare gentile e civile.
Infine, tornare a Maastricht. Per la mia generazione questa cittadina olandese dal nome difficilmente pronunciabile era sinonimo di austerità. Stare dentro i parametri di Maastricht sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo per molti fu festa grande. Oggi Maastricht – paradossalmente – ha cambiato significato. L’avvento scriteriato del Fiscal compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista.
Noi pensiamo che l’Italia debba porre il veto all’introduzione del Fiscal compact nei trattati e stabilire un percorso a lungo termine. Un accordo forte con le istituzioni europee, rinegoziato ogni cinque anni e non ogni cinque mesi. Un accordo in cui l’Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all’Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%.
Ciò permetterà al nostro paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita. La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni. A chi legittimamente domanda: «E perché, se ne sei così convinto, non lo hai fatto prima?» rispondo semplicemente: «Perché non ce lo potevamo permettere». Quando siamo arrivati, la parola d’ordine per l’Italia era reputazione.
Mostrarci capaci di fare le riforme. Il Jobs Act, il decreto sulle popolari, l’abbassamento delle tasse, la spending review, l’Expo, il rinnovamento anche generazionale hanno mostrato che l’Italia è in grado di farcela. Ma non basta, adesso. La prossima legislatura, qualunque sia il giorno in cui comincerà, dovrà mettere sul tavolo uno scambio chiaro in Europa: noi abbassiamo il debito, ma la strada maestra per farlo è la crescita. Quindi abbiamo bisogno di abbassare le tasse. Punto.
Questo obiettivo – che porterà il deficit italiano a essere comunque più basso di quello di Francia e Spagna e vedrà un'inversione strutturale della curva debito/Pil – sarà la base della proposta politica del Pd per le prossime elezioni. Ma è soprattutto un obiettivo ampiamente condiviso dai principali soggetti privati che operano sui mercati internazionali e intorno al quale c’è un consenso diffuso: senza una grande scommessa sulla crescita, l’Italia non ripartirà mai.
Per farlo occorre una visione di medio periodo, non limitata al giorno dopo giorno. Quando la prossima legislatura entrerà nel vivo dovremo uscire dallo stillicidio della trattativa mensile con Bruxelles e proporre al mondo finanziario ed economico un piano industriale degno di un paese solido e credibile. Noi siamopronti, anche nei dettagli.
Aspettiamo solo le elezioni, adesso. Perché una sfida così grande ha bisogno di un governo di legislatura per negoziare un accordo duraturo a Bruxelles. Ma aspettiamo soprattutto che l’Europa torni a fare l'Europa. Torni a Ventotene, negli ideali; a Lisbona, nella strategia; a Maastricht, nella crescita. Non è un tour, non è un viaggio: è, più semplicemente, l’ultima possibilità che abbiamo.

Decreto su Genova, governo toglie a De Luca poteri sulla sanità campana.

Decreto su Genova, governo toglie a De Luca poteri sulla sanità campana
Dopo due settimane dalla sua approvazione, il decreto su Genova pare quasi pronto per la Gazzetta Ufficiale. Il nome richiama il tragico evento ligure ma il decreto riguarda molte altre cose, tra queste, come riporta Il Fatto Quotidiano, la Regione Campania ed in particolare il presidente della Regione, Vincenzo De Luca, che dovrà lasciare la carica di commissario alla Sanità campana per il cosiddetto “piano di rientro” finanziario.
E dire che quei poteri se li era sudati fino in fondo facendo di tutto per propagandare il sì al referendum costituzionale. Il governo Renzi  fece in modo con un emendamento assai chiacchierato alla manovra di fine 2016 di consentire la nomina di De Luca: la norma, approvata peraltro dal centrosinistra, vietava infatti che quel ruolo potesse essere ricoperto dai presidenti di Regione. Seguì l’incarico a De Luca da parte del governo Gentiloni. Oggi, col decreto Genova, si torna indietro: chi è incompatibile sarà sostituito entro 90 giorni.

Csm, chi è il vicepresidente David Ermini: l’amico di Tiziano Renzi arrivato in Parlamento con il Pd di Matteo.

Csm, chi è il vicepresidente David Ermini: l’amico di Tiziano Renzi arrivato in Parlamento con il Pd di Matteo

Il nuovo vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l'unico politico componente del nuovo plenum. Anche per questo motivo la sua elezione ha spaccato le correnti di togati a Palazzo dei Marescialli. Arriva da Figline, a quindici chilometri da Rignano ed è amico di famiglia dell'ex presidente del consiglio.

Compagno di scuola di Maurizio Sarri, amico di vecchia data di Tiziano Renzi, è arrivato alla politica che conta grazie al figlio Matteo, che dal consiglio provinciale di Firenze lo ha portato fino in Parlamento. E adesso anche sulla poltrona di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Un cursus honorum di tutto rispetto quello dell’avvocato David Ermini, eletto tra le polemiche come successore di Giovanni Legnini.
Il nuovo vicepresidente del Csm, infatti, è l’unico politico componente del nuovo plenum. Anche per questo motivo la sua elezione ha spaccato le correnti di togati a Palazzo dei Marescialli. Cinquantanove anni, proveniente da una famiglia di avvocati di Figline, in riva all’Arno, a soli quindici chilometri da Rignano. E infatti Ermini, che esordisce in politica nella corrente di sinistra della Dc, diventa presto amico di Tiziano Renzi, che dello scudo crociato fu consigliere comunale. L’esordio pubblico del giovane Matteo avviene proprio a Figline nel 1996 in occasione di un dibattito con Valerio Onida. Regista del battesimo politico di Renzi è proprio Ermini. Che quindi farà strada grazie all’exploit del futuro premier. Dalla candidatura flop a sindaco di Figline – con lo slogan: David contro Golia – diventa prima consigliere provinciale con la Margherita – capogruppo quando il presidente della provincia è proprio Renzi – e poi nel 2013 deputato del Pd.

Nel 2014 Renzi lo porta al vertice del partito, nominandolo responsabile Giustizia nel 2014. Lavora alla riforma Orlando sul processo penale e a quella delle intercettazioni. Difende i Renzi e Luca Lotti, coinvolti nell’inchiesta Consip, e attacca il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto sui social network: “Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”. Insomma si comporta come tutti gli altri componenti del Giglio magico cercando, però, di tenere un atteggiamento sfumato nei confronti dei magistrati, almeno nelle dichiarazioni. Forse ha sempre ipotizzato un giorno di dover andare a dirigere il massimo organo di autogoverno delle toghe. Cosa che gli riesce grazie ai voti fondamentali di Magistratura Indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, collega deputato sui banchi del Pd, che nel 2018 li ha rieletti entrambi. L’avventura di Ermini, però, è durata pochi mesi: l’amico dei Renzi, adesso lascia Montecitorio per una residenza più esclusiva: Palazzo dei Marescialli.
(Ha collaborato Carlo Giorni)

giovedì 27 settembre 2018

Ingv, si dimette pure il responsabile anticorruzione. Il capo dell’ufficio legale: ‘Se denuncio vado a raccogliere le olive. - Thomas Mackinson

Ingv, si dimette pure il responsabile anticorruzione. Il capo dell’ufficio legale: ‘Se denuncio vado a raccogliere le olive’


A distanza di 20 giorni lasciano sia il Direttore del Dipartimento Terremoti ("Manca trasparenza") che il responsabile anticorruzione. Da un fascicolo alla procura di Roma spuntano gli audio sulle mancate denunce del responsabile degli affari legali, all'epoca precario: "Non sono in condizioni di poter dire queste cose perché dopo sei mesi mi trovo in mezzo a una strada (…) Sinceramente me ne guardo bene perché mi fanno ritorsioni.

Dopo la direttrice del Dipartimento Terremoti si dimette anche il garante dell’anticorruzione. E intanto, si apprende che il responsabile dell’Ufficio Affari Legali a conoscenza di possibili illeciti non li denunciava perché “sennò mi mandano a raccogliere le olive”. Non c’è pace per l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che subisce un altro scossone a distanza di una manciata di giorni. Il 5 settembre, come anticipato dal fattoquotidiano.it, ha lasciato l’incarico per “mancanza di trasparenza” Daniela Pantosti, da due anni a capo del Dipartimento più delicato e importante dell’Istituto. Ieri si è appreso che anche il garante del Piano triennale anticorruzione, Gianluca Valensise, ha presentato le sue dimissioni e in circostanze tali da confermare la sensazione che un vaso di Pandora vada scoperchiandosi: Valensise era stato nominato poco più di un anno fa (l’incarico è triennale), e il caso è tale che il cda dell’Ingv ha convocato una riunione d’urgenza nella stessa giornata, modalità alquanto singolare e contraria alle previsioni degli statuti degli Enti di ricerca. Insomma, nel centro di monitoraggio del rischio sismico in Italia è allarme rosso.

Raggiunto al telefono, Valensise sceglie di non commentare ma conferma la sua decisione, mentre dentro l’ente non si fa più mistero di una situazione al limite dell’ingestibile dovuta alla concomitanza di due situazioni esplosive. Da una parte starebbero venendo al pettine i nodi delle crescenti difficoltà gestionali accompagnate anche da più gravi ipotesi di reato, segnalate in denunce e fascicoli aperti dalle procure di Roma e Napoli. Dall’altra – come nulla fosse – si sta procedendo ai concorsi interni per nominare direttori di struttura e di sezione. Selezioni per posti a tempo indeterminato che vanno avanti a oltranza anche mentre cadono come birilli figure chiave dell’ente, tutte con ruoli di presidio e funzioni delicatissimi.
Il nome di Valensise, tra l’altro, spunta anche in un fascicolo alla procura di Roma. È contenuto in una registrazione depositata a integrazione delle numerose denunce della dirigente Fedora Quattrocchi che al telefono, già due anni fa, contesta varie situazioni opache. Sui concorsi a direttore di sezione e di struttura Ingv lo stesso responsabile della trasparenza ammetteva irregolarità, tanto  che “sarebbero invalidi, anzi hai ragione, sono non validi”. Nella stessa dava poi degli “incapaci” ai vertici che si sarebbero macchiati anche di un presunto falso in bilancio. Il presidente Carlo Doglioni, del resto, era “non adatto a quel lavoro”. Parole di chi avrebbe dovuto vigilare sulla trasparenza e garantire la legalità nell’ente. Ma, a quanto è dato sapere, è rimasto in silenzio.

Cosa c’è dietro le dimissioni a raffica, i silenzi e le mancate denunce? Possono i concorsi interni per la regolarizzazione delle carriere aver contribuito a generare un diffuso clima di omertà tra i laboratori in via di Vigna Murata? Qualche sospetto arriva sia dai sindacati silenti sia dalla reazione fulminea del collegio dei Direttori. All’indomani della pubblicazione della notizia delle dimissioni della Pantosti, il collegio composto dai direttori di dipartimento, di sezione e dei principali uffici per la ricerca e le attività istituzionali non esprimeva preoccupazione per la denuncia che si portava appresso (“mancanza di trasparenza”, “nessuna collaborazione”) ma se ne dissociava pubblicamente. Forse più illuminante ancora è però lo stralcio di un’altra conversazione agli atti della procura di Roma.
A parlare stavolta è il responsabile ufficio Affari Legali dell’ente, Pasquale Guidace. È appena stato assunto a tempo indeterminato ma il 12 marzo 2016, quando era precario,  parlava così a proposito di un presunto falso in atto pubblico che sarebbe stato commesso nel 2015 dall’allora presidente Stefano Gresta: “È un dato oggettivo (che ci sia stato il falso, ndr), lampante per chi acquisisce i documenti ma io non lo posso fare per un semplice motivo, perché io già sono precario, poi vado a raccogliere le olive”. E ancora: “Non sono in condizioni di poter dire queste cose perché dopo sei mesi mi trovo in mezzo a una strada (…) Se fossi stato a tempo indeterminato, come in qualsiasi altro ente, forse qualche passo in più l’avrei potuto fare, ma sinceramente me ne guardo bene perché io vorrei avere una vita professionale non interrotta, perché mi fanno ritorsioni contro di me”. La vittima costretta al silenzio però ci mette del suo: “A me non me ne fotte niente, perché se nessuno ha il coraggio di esporsi, a me che cazzo me ne frega?”. Parole del responsabile Affari Legali dell’istituto che dovrebbe garantire per la sicurezza dei cittadini.
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