lunedì 5 ottobre 2020

Financial Times: Ernst & Young poteva fermare tre anni prima la frode di Wirecard. - Dan McCrum e Olaf Storbeck

 

Marzo 2017. Molto prima di diventare due dei manager più ricercati al mondo, il direttore operativo di Wirecard, Jan Marsalek, e un suo giovane dipendente del team finanziario, Edo Kurniawan, discutono preoccupati di India.

Succede che Ernst & Young, il revisore dei conti di Wirecard, ha avviato un accertamento su alcuni rami d’attività che l’azienda aveva acquisito nella città indiana di Chennai. L’indagine prende il nome in codice di “Project Ring”.

Nonostante EY avesse supervisionato i libri contabili di Wirecard per diversi anni senza mai riscontrare problemi, Project Ring viene gestita da un team di investigatori diverso dal solito, che agisce sulla base di una soffiata. Un anonimo informatore aveva segnalato, infatti, che i senior manager di Wirecard potevano aver commesso una frode e avevano tentato di corrompere un revisore.

Il Financial Time è entrato in possesso di uno scambio di messaggi inviati da Marsalek a Kurniawan (che quest’ultimo ha poi condiviso con un amico) in cui Marsalek parla di un avvertimento ricevuto da qualcuno di EY. “Uno staff junior ha detto al nostro staff in via ufficiosa che ci sono dei dubbi sulle fatturazioni del nostro software e che potrebbero negarci la conferma della revisione”.

Marsalek incarica così Kurniawan, che era a capo del team finanziario di Wirecard per l’Asia, di andare a parlare con il responsabile della revisione contabile della società in India il lunedì successivo: “Dovremmo affrontare la cosa come se credessimo che si tratti di un malinteso o di una qualche stranezza indiana”, consiglia Marsalek al suo dipendente.

Lo sforzo di sviare i sospetti non funziona. Infatti, come conferma la corrispondenza esaminata dal FT, dopo tre mesi di ritardi e sotterfugi da parte di Wirecard il team antifrode di Ernst & Young ingiunge alla società tedesca di consegnare una serie di dati e documenti entro della settimana.

È a questo punto che Marsalek invia la seguente e-mail a Kurniawan: “Ciao Edo, hai tutto sotto controllo? Sembra piuttosto preoccupante. Saluti, Jan”.

Ma se Project Ring poteva essere un’occasione per smascherare una frode contabile all’interno di una delle aziende tecnologiche allora più blasonate della Germania, tre anni prima del crack di Wirecard, alla fine si è rivelata un’occasione persa. Attraverso una serie di documenti interni, corrispondenze private e il testo di una revisione di conti effettuata dalla società rivale KPMG, il Financial Times ha potuto tracciare un quadro dettagliato dei grandi sforzi fatti dai dirigenti Wirecard per soffocare l’indagine e far sì che EY continuasse a garantire alla società un certificato di buona salute delle transazioni.

Ci sarebbero voluti ancora tre anni per smascherare l’enorme inganno di Wirecard, anni durante i quali l’azienda ha raccolto miliardi di euro di capitale fresco. Ernst & Young ora sta affrontando un’indagine da parte dell’organo di controllo dei revisori dei conti tedesco, Apas, oltre a varie cause intentate dagli investitori e la fuga di clienti del calibro di DWS, ramo di gestione patrimoniale della Deutsche Bank, o Commerzbank.

Inoltre, la revisione di Project Ring realizzata da KPMG quest’anno nell’ambito di un’ampia revisione speciale sulle attività di Wirecard prima del crack di giugno, ma non resa pubblica, afferma che l’accertamento forense avviato da EY India è stato interrotto prematuramente e ha lasciato senza risposta alcune domande cruciali.

“KPMG vede prove che si oppongono alla chiusura dell’audit speciale avviato con Project Ring e che avrebbero dovuto essere oggetto di un’indagine definitiva”, si legge nel rapporto. KPMG sottolinea inoltre che EY avrebbe dovuto incaricare una terza parte di indagare il presunto tentativo di corrompere un membro del suo staff, cosa che non è avvenuta.

Il mistero del fondo alle Mauritius.

Le accuse vagliate dal team antifrode dell’EY in India si concentrano su un’acquisizione di Wirecard annunciata nell’ottobre 2015L’azienda paga in quella data 340 milioni di euro a un’opaca società con sede alle Mauritius denominata Emerging Markets Investment Fund 1A (EMIF 1A), per l’acquisto di tre società di pagamenti indiane: Hermes i Tickets, GI Technology e Star Global.

All’epoca Wirecard non rende noto il ruolo di questo fondo offshore, ma si scopre che EMIF 1A ha acquistato le attività indiane per circa 50 milioni di euro solo poche settimane prima di venderle a Wirecard, intascando quindi enormi profitti dall’operazione.

Qualcuno all’interno di EY sente puzza di bruciato. A maggio 2016, un informatore anonimo di EY invia una lettera alla sede centrale tedesca dell’azienda a Stoccarda, affermando che “i senior manager di Wirecard Germania” detengono direttamente o indirettamente partecipazioni in EMIF 1A.

L’informatore accusa anche i dirigenti di Wirecard di aver gonfiato artificialmente il profitto operativo delle attività acquistate, il cui prezzo era legato alla redditività.

Il rapporto di KPMG riporta che l’unico manager nominato dall’informatore dell’EY si chiama Stephan von Erffa ed è vicedirettore finanziario di Wirecard in Germania. Il team antifronde di EY non lo interrogherà mai, e Wirecard rifiuterà di dare accesso alla sua posta elettronica, negando qualsiasi illecito.

In una mail vista dal FT e datata 23 marzo 2017 von Erffa dà visibilmente l’impressione di rispondere alle richieste di Project Ring cercando di evitare altre indagini: “Se cominciamo ora a verificare aree totalmente nuove non vedremo mai la fine. Pertanto ho chiesto al mio team di concentrarsi sulla revisione avviata da EY India e di non lavorare su questi nuovi compiti da voi richiesti”. (Un avvocato di von Erffa non ha risposto alla richiesta di commento inoltratagli dal FT).

Un viaggio lampo a Chennai.

Tra i destinatari di questa e-mail c’è Andreas Loetscher, il principale partner di Ernst & Young nelle operazioni di revisione contabile di Wirecard, che ora è responsabile contabilità di Deutsche Bank. Un mese dopo Wirecard riceve da EY il consueto nulla osta.

A dicembre Loetscher vola a Chennai per una visita di due giorni a Hermes, una delle aziende acquisite da Wirecard nel 2015. In seguito scrive a Edo Kurniawan per ringraziarlo della “preparazione, delle discussioni, delle spiegazioni e dello svago”.

Ma a gennaio 2018, mentre l’audit di gruppo di EY su Wirecard è in corso, il ruolo misterioso giocato dal fondo EMIF 1A delle Mauritius nell’affare indiano di Wirecard, e il prezzo molto basso che la società ha pagato per gli asset, entra nel radar dell’organizzazione no-profit Foundation for Financial Journalism. Di fronte alle accuse, Wirecard nega categoricamente di aver derubato gli azionisti e cita proprio le revisioni sempre positive firmate da EY.

Nel frattempo il team antifrode di Ernest & Young continua a nutrire sospetti. A marzo 2018 condivide infatti un aggiornamento di stato con il top management di Wirecard: “Alcune delle osservazioni potrebbero potenzialmente supportare l’ipotesi che le entrate selezionate abbiano avuto un impatto significativo sul margine operativo lordo, fruttando al venditore di Hermes maggiore earn-out nei pagamenti”.

Insabbiare Project Ring.

Meno di un mese dopo, però, i dirigenti di Wirecard riescono a mettere a tacere Project Ring.

Il 3 aprile, in una mail indirizzata al team antifrode di EY e inviata in copia anche a Loetscher, Marsalek scrive: “Prendiamo atto che l’accertamento e l’analisi delle accuse contenute nella ‘lettera di denuncia’ del maggio 2016 non hanno portato alla luce alcuna prova a sostegno delle accuse”. Aggiunge poi che un’indagine interna portata avanti parallelamente da Wirecard ha concluso che non esistono prove di cattiva condotta da parte di nessun dipendente della società.

“Riteniamo quindi che le accuse siano infondate e non condurremo ulteriori indagini”. Alla fine del messaggio il manager ringrazia EY per “le analisi sempre trasparenti e altamente professionali e la relativa reportistica”.

Una settimana dopo, i responsabili del team antifrode di EY rispondono alla mail segnalando una errata caratterizzazione del loro lavoro da parte di Marsalek. Al contrario di quanto scritto dal manager, sottolineano che l’analisi ha effettivamente individuato “transazioni commerciali e collegamenti” che potrebbero sostenere le accuse sollevate nella lettera di denuncia, ma non contestano esplicitamente le dichiarazioni del loro cliente.

Il giorno dopo, l’11 aprile del 2018, Loetscher e il suo collega Martin Dahmen firmano la nota di revisione dei bilanci di Wirecard del 2017. Loetscher ha rifiutato di commentare la vicenda al FT.

Delle accuse mosse dall’informatore e dello stesso Project Ring, nelle 42 pagine dell’audit di Ernst & Young sui bilanci 2017 consegnato al consiglio di sorveglianza di Wirecard non si trova che un breve accenno. Il rapporto, visionato dal FT, afferma che l’accertamento si è “concluso” senza “alcuna prova che indicasse una contabilità errata o altre violazioni della legge”. La stessa affermazione verrà ripetuta nella relazione di revisione di Ernest & Young sui bilanci del 2018.

Hansrudi Lenz, professore di contabilità all’Università di Würzburg, ravvisa il profilo di una falsa dichiarazione da parte dei revisori contabili di EY. “Se gli eventi si sono verificati come descritto, a mio parere, il trattamento (da parte di EY, ndr) della questione ‘Whistleblower indiano’ nelle relazioni di revisione dei conti per il 2017 e il 2018 è inadeguata”, ha dichiarato Lenz al Financial Times.

Chi fossero i beneficiari finali dell’EMIF 1A resta un mistero. Di fronte alle domande sul fondo, Wirecard si è sempre schermita indicando nomi di rispettabili consulenti esterni coinvolti nell’affare. Nomi come quello di Linklaters, uno studio legale britannico specializzato in offshore.

La vicenda continua ad avere ripercussioni anche dopo l’implosione di Wirecard. A luglio, per esempio, un giudice dell’Alta Corte del Regno Unito ha rigettato la richiesta di risarcimento per frode avviata da alcune parti civili contro Wirecard con la seguente motivazione: “Fondamentalmente EMIF è stata certificata da Linklaters. Uno studio legale rispettabile come questo avrà indagato sulla posizione dell’EMIF e si sarà ritenuta soddisfatta su questioni quali la proprietà effettiva della società, il rispetto delle leggi sul riciclaggio di denaro e sul finanziamento del terrorismo, e l’assenza di frodi fiscali o altri tipi di frode”.

Tuttavia, il rapporto di KPMG dimostra invece (valutando accuse più ampie di irregolarità contabile del 2019) che il team antifrode di EY aveva già avanzato il sospetto che lo stesso Marsalek avesse legami con il fondo delle Mauritius.

Mancavano però le prove concrete, e Marsalek, dal canto suo, di fronte al consiglio di vigilanza di Wirecard negava qualsiasi rapporto. Tuttavia, secondo quanto hanno riferito al FT diverse persone al corrente dei fatti, insoddisfatto della risposta del top manager, il consiglio di vigilanza aveva chiesto una conferma al suo consulente fiscale, volta a certificare che Marsalek non aveva mai ricevuto entrate dalle Mauritius. Le stesse fonti raccontano che il direttore operativo di Wirecard ha ignorato la richiesta per molti mesi.

Wanted.

Oggi Marsalek è ricercato dall’Interpol e la sua faccia è sui manifesti affissi in tutta la GermaniaKurniawan, che ha detto agli avvocati di Wirecard di aver sempre agito secondo le istruzioni ricevute dal direttore operativo di Wirecard (cioè da Marsalek), è stato avvistato per l’ultima volta a Dubai 18 mesi fa. Quanto a von Erffa, attualmente si trova in custodia con l’accusa di frode contabile, appropriazione indebita e manipolazione del mercato.

Ernst & Young ha fatto sapere al Financial Times questa settimana che “le problematiche relative a potenziali problemi di frode e corruzione in India” sono state sollevate da un dipendente che stava seguendo “protocolli standard”.

Lo studio di consulenza ha anche sottolineato che le accuse “sono state vagliate dall’azienda e dal team di revisione contabile e forense di EY Germania” e che le osservazioni sono state riferite a Wirecard. “Sulla base delle informazioni a nostra disposizione – continua la nota –, riteniamo che il personale di EY India e di altri paesi abbia seguito le procedure in modo professionale e in buona fede”.

Ernst & Young ricorda inoltre che la prassi standard del settore prevede che i revisori contabil siano selezionati tra “i migliori revisori locali, a cui viene fornito uno schema chiaro di procedure di audit” e conclude che la transazione indiana di Wirecard “è stata oggetto di un’ampia due diligence da parte di studi legali e società di contabilità internazionali”.

Fonte: FT.com

(foto ilFQ)

Traduzione di Riccardo Antoniucci

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/05/financial-times-ernst-young-poteva-fermare-tre-anni-prima-la-frode-di-wirecard/5954396/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=il-fatto-economico&utm_term=2020-10-05

Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio



Lesson one. “Qual è la lezione di chi ha votato No al referendum” (Massimiliano Panarari, Espresso, 28.9). Che avete perso.

Teste. “Processo Gregoretti, Salvini: ‘Vado a testa alta’” (Corriere della sera, 2.10). Ah, l’ha poi trovata.

Culi. “Boom dei contagi: il virus salva Conte” (Giornale, 2.10). Pensa che culo.

Qui lo dico e qui lo nego. “Oggi la giornata non è iniziata benissimo: sono stato due ore attaccato al cortisone e quando mi sono alzato il medico mi ha detto: ‘Naturalmente lei ora va a casa’. Io gli ho detto: ‘Sì, tranquillo, prima vado ad Anguillara, passo da Formello e finisco a Terracina. Ma poi vado a casa’. Anche un po’ febbricitante è bello esserci e viaggiare tra le idee” (Matteo Salvini, segretario Lega, comizio a Formello, Ansa, 26.9). “Mai avuta febbre, fatto test sul Covid ieri mattina, negativo. Ho il torcicollo come milioni di italiani e ho preso il cortisone, alcuni ‘giornalisti’ evitassero di speculare e mentire sulla salute del prossimo” (Salvini, Twitter, 27.9). Comunque è chiaro che non sta bene.

Lo spirito guida. “’Contro il Sussidistan, ecco la mia Base’. Parla Marco Bentivogli” (Foglio, 29.9). “Bonomi rilancia un patto per l’Italia: ‘Non possiamo diventare il Sussidistan’” (Corriere della sera, 30.9). Resta da capire chi, tra l’ex sindacalista e il capo di Confindustria, ha copiato l’altro. Comunque, sono soddisfazioni.

Condonistan. “Concorso di colpa. Nuovo scontro fra Pd e 5Stelle sul concorso per 32mila precari della scuola che si terrà il 22 ottobre. I dem chiedono il rinvio sotto Natale. La ministra Azzolina: ‘Si farà ora’. Critici tutti i sindacati” (manifesto, 29.9). “Tutti contro la Azzolina. Anche il Pd vuole rinviare iil concorsone dei prof. Dem e FI accusano: così si svuotano le scuole” (Giornale, 29.9). “Azzolina va avanti sul concorso per i precari nonostante i dubbi del Pd” (Repubblica, 29.9). Ma questa chi si crede di essere: il ministro dell’Istruzione?

Domiciliari. “Se falliamo sul Recovery Fund andiamo tutti a casa” (Carlo Bonomi, presidente Confindustria, 29.9). Beh, allora fallire avrebbe almeno un lato positivo.

Martirio prematuro. “Assolto Cosentino: ‘É finito l’inferno” (Giornale, 30.9). “Cosentino assolto dopo 3 anni di cella. Qualcuno si vergogna?” (Riformista, 30.9). “Cosentino ancora assolto: non è colluso coi Casalesi” (Libero, 30.9). “Le scuse che non troverete su Cosentino” (Foglio, 30.9). “Cosentino e il sorry di Saviano (?)” (Claudio Cerasa, Foglio, 1.10). “Hanno assolto Cosentino (non ditelo a Travaglio). Il Fatto in questi anni ha scritto 532 volte di Cosentino camorrista. Sì: 532. Ora sappiamo che è innocente. E Saviano che dice? E gli altri giornali? Censura” (Piero Sansonetti, Riformista, 1.10). Purtroppo l’assoluzione in un processo, peraltro ancora in attesa di conferma in Cassazione, non cancella le due condanne: una in primo grado a 9 anni nel processo principale per concorso esterno in camorra (ancora in attesa di appello) e una definitiva a 4 anni per corruzione. Attendiamo le scuse di chi dice che è stato assolto da tutto.

Il vero scandalo. “Scene inedite dal conclave dei ministri del M5S in agriturismo. Cinquanta euro di mancia” (Foglio, 30.9). Ecco: 50 euro di mancia ai camerieri. Questi sono i veri delinquenti. E poi dicono di Cosentino.

Coup de foudre. “Alberoni si è innamorato delle Regioni” (Libero, 29.9). Deve aver visto Fontana e Gallera.

L’esclusiva/1. “Gli Usa avvertono la S. Sede: mollate i cinesi, vogliono spiarvi” (Verità, 1.10). Fatevi spiare solo da noi.

L’esclusiva/2. “Esposto Atlantia alla Consob: ‘I ministri fanno crollare il titolo’” (Messaggero, 2.10). Giusto: come si permettono i ministri di far crollare qualcosa, rubando il lavoro ai Benetton? E’ concorrenza sleale.

Mes in piega. “Mes, ecco il piano Speranza” (Stampa, 29.9). Purtroppo nel pezzo e né Speranza né il suo piano né l’articolista nominano mai il Mes. Ma ormai è un intercalare.

Fate la carità. “Tre milioni di fannulloni incassano il reddito grillino”, “Il sussidio grillino ci costa 10 miliardi. Misura da abolire” (Libero, 18.9 e 2.10). Giusto, diamoli a Libero della famiglia Angelucci, che di sussidi pubblici dal 2003 a oggi ha incassato appena 55 milioni.

Italia Morta. “Decisivi in Toscana per la vittoria di Eugenio Giani: anche stavolta Salvini lo abbiamo fermato noi. Orgogliosi del coraggio e dell’impegno dei nostri candidati nelle regioni. Se ora c’è uno spazio politico alternativo a populisti e sovranisti è perché lo ha aperto Italia Viva” (Luciano Nobili, deputato Iv, Twitter, 21.9). Risultato: Giani vince in Toscana con 8 punti di distacco, Italia Viva si ferma al 4,5 e Nobili si conferma il più grosso pelo superfluo della politica italiana.

Il titolo della settimana/1. “RENZI VUOL FARE IL SEGRETARIO NATO” (Verità, 29.9). Meglio nato che morto.

Il titolo della settimana/2. “Ventimiglia, il sindaco in tv parla di sicurezza e gli rubano la giacca con fascia tricolore in diretta” (titolo di Riviera24.it sul sindaco di centrodestra Gaetano Scullino, scoperto da @nonleggerlo.it, 29.9). Però dài, ci sta lavorando.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/05/ma-mi-faccia-il-piacere-205/5954343/

La Lega e i 49 milioni: i server del broker sono stati “ripuliti”. - Jacopo Ricca e Stefano Vergine

 



GdF - Dal Lussemburgo all’ex indirizzo dei commercialisti.

I server della lussemburghese Pharus Management Lux Sa, la società attraverso cui la Lega avrebbe riciclato una parte dei famosi 49 milioni di euro, sono stati ritrovati a Bergamo, in via Angelo Maj. Allo stesso indirizzo presso cui era domiciliato fino a poco tempo fa lo studio dei commercialisti del partito, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La scoperta è stata fatta durante una perquisizione della Finanza di Genova, che indaga sul presunto riciclaggio del tesoro padano. Ma le Fiamme gialle hanno avuto sfortuna: quei server sono quasi inutilizzabili. Qualcuno, prima del loro arrivo, ha cancellato tutto. Questa storia inizia quando i magistrati della Procura di Genova avviano una rogatoria per mettere le mani su quella che potrebbe essere la scatola nera dell’inchiesta sulla Lega: i computer della Pharus, appunto, la società lussemburghese attraverso cui, secondo l’accusa, nel 2016 sarebbero stati esportati 10 milioni, quasi un quinto del tesoro leghista frutto della truffa ai danni dello Stato italiano. L’investimento sarebbe partito dalla Sparkasse di Bolzano. La banca ha sempre negato che fossero soldi del partito, spiegando che quell’operazione riguardava “la normale operatività del portafoglio di proprietà della banca stessa”. I 10 milioni partiti nel 2016 dalla Sparkasse sono arrivati sui conti della Pharus. E a gennaio del 2018, due mesi prima delle elezioni parlamentari, 3 milioni di euro sono tornati in Italia. Le autorità del Granducato segnalano l’operazione all’Antiriciclaggio di Bankitalia: il sospetto è che quei soldi siano un finanziamento elettorale alla Lega. Denaro uscito dalle casse del partito, alle prese con il sequestro ordinato dal Tribunale di Genova, e tornato indietro dopo essere stato ripulito.

Per verificare l’ipotesi gli inquirenti italiani cercano quindi i server della Pharus. Vogliono leggere le email e i documenti utili per capire se quel denaro è in qualche modo collegato ai 49 milioni della truffa leghista. I server dovrebbero essere in Lussemburgo, e invece vengono ritrovati a Bergamo, in un ufficio di via Angelo Maj. Come detto, a quell’indirizzo per anni, proprio quelli dei 10 milioni finiti in Lussemburgo, ha avuto sede lo Studio Dea Consulting, di proprietà di Di Rubba e Manzoni (arrestati per l’inchiesta sulla Lombardia Film Commission). Non solo. Presso il loro studio, nello stesso periodo, erano domiciliate anche 7 società italiane controllate, attraverso un sistema di scatole cinesi, dalla lussemburghese Ivad Sarl, una holding fondata nel 2008 da Angelo Lazzari. Secondo la GdF, Lazzari – che non risulta indagato – è sempre stato il dominus della Pharus. Per questo gli inquirenti lo reputano una figura centrale in questa storia. Bergamasco come Di Rubba e Manzoni, si descrive in Rete come ingegnere ed ex promotore finanziario, oggi manager con base in Lussemburgo. È indagato a Milano per truffa e autoriciclaggio in un’altra vicenda. La questione più importante, per i magistrati genovesi che indagano sul presunto riciclaggio dei 49 milioni, riguarda i suoi rapporti con Di Rubba, Manzoni e le sette società domiciliate presso il loro studio.

(foto da ilFQ)

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Impero San Donato, il mistero Kamel Ghribi. - Gianni Barbacetto

 


San Raffaele & C. - Nel gruppo dei Rotelli non solo ex politici, magistrati e 007: vicepresidente è un finanziere, ex petroliere tunisino. Gli affari con arabi e russi.

È il più grande gruppo italiano della sanità privata, con i suoi 19 ospedali e cliniche, 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, fatturato di oltre 1 miliardo e mezzo. Ma il Gruppo San Donato della famiglia Rotelli, il cui ospedale più famoso è il San Raffaele di Milano, è anche una formidabile macchina di relazioni politiche ed economiche. I consigli d’amministrazione delle sue società sono zeppi di uomini dei partiti, ex ministri e perfino ex agenti segreti. Presidente della holding San Donato è Angelino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi ed ex ministro dell’Interno, della Giustizia, degli Esteri. Consigliere d’amministrazione degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo, è Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia. Consigliera d’amministrazione del San Raffaele e della holding è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy (nonché moglie di Bruno Vespa). Sovrintendente sanitario del Gruppo è Valerio Fabio Alberti, fratello del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel 2019 è entrato per qualche mese nel cda del San Donato anche Ernesto Maria Ruffini, che aveva appena terminato il suo incarico di direttore generale dell’Agenzia delle entrate, dove è poi tornato a inizio 2020.

Del sistema Rotelli, come capi della Security, fanno parte anche due agenti segreti d’esperienza come Claudio di Sabato e Giuseppe Caputo, ex generali della Guardia di finanza e poi ufficiali dell’Aise (l’agenzia di sicurezza per l’estero).

Ma il personaggio più misterioso della galassia Rotelli è un ex petroliere tunisino diventato finanziere in Svizzera: Kamel Ghribi, amico della vedova del fondatore, Giuseppe Rotelli, che è scomparso nel 2013, lasciando la guida al figlio Paolo. Una vecchia foto di Ghribi lo ritrae con vistosi pantaloni blu elettrico, camicia di seta in tinta e giacca a quadrettoni. Oggi Ghribi indossa più sobri abiti scuri di buon taglio ed è vicepresidente del Gruppo San Donato, nonché global advisor della famiglia, di cui cura gli investimenti. Da dove spunta Ghribi? Sappiamo che nasce a Sfax, città nel sud della Tunisia, padre commerciante (“Da lui ho ereditato il senso degli affari”) e famiglia con nove tra fratelli e sorelle. Poi è difficile distinguere biografia e agiografia. Racconta di essere diventato, già a 29 anni, vicepresidente a New York di una compagnia petrolifera statunitense, la Olympic Petroleum Corporation, e presidente della Olympic in Italia. Nel 1994 diventa presidente della Attock Oil Company, una compagnia attiva soprattutto in Pakistan, fondata dall’uomo d’affari saudita Ghaith Pharaon, che fu per un periodo ricercato dall’Fbi in seguito allo scandalo internazionale della banca Bcci. Dal 2005, Ghribi si concentra sulla sua holding personale, la Gk Investment, basata in Svizzera, a Lugano, che dichiara di dedicarsi “a nuove opportunità di business” e di investire soprattutto “in Africa e in Medio Oriente”. Nel suo sito web si definisce finanziere e filantropo, dichiara che “l’obiettivo principale di Kamel Ghribi continua a essere quello di incoraggiare un riavvicinamento tra Occidente, Medio Oriente e Nord Africa”. A Roma lavora con lo studio legale di Vittorio Emanuele Falsitta, ex deputato di Forza Italia. Ma si dice attivo con i suoi affari finanziari soprattutto nel mondo arabo e in Russia. Sostiene di aver fornito servizi di consulenza a importanti leader di aziende private internazionali e a non meglio specificati uomini di governo. Racconta “di essere entrato in contatto, durante la sua carriera di imprenditore internazionale di grande successo, con leader mondiali e luminari del mondo politico, industriale e culturale. Le primi incontri si sono rapidamente sviluppati in conoscenze consolidate, tanto che è stato poi in grado di sviluppare stretti rapporti con alcune delle figure più importanti della storia moderna”. Nientemeno.

Al San Donato è diventato vicepresidente, gestore del patrimonio della famiglia Rotelli e ambasciatore dell’espansione in Africa e nel Medio Oriente. Con il governo del Botswana ha firmato nel 2019 un memorandum d’intesa per offrire formazione del personale medico locale. Ma quello a cui punta il gruppo San Donato è attirare i ricchi clienti arabi e russi che vanno a curarsi nei grandi ospedali degli Stati Uniti. Già aperta una sede a Dubai, negli Emirati, dove il San Donato si occupa di formazione dei medici locali. Paolo Rotelli promette: “Vogliamo attirare nei nostri ospedali i turisti che già vengono in Italia perché apprezzano il nostro stile di vita e le bellezze del nostro Paese”.

(foto da ilFQ)

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domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

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Niente folla, comizi e martirio. Salvini al processo resta solo. - Antonello Caporale

 












Il flop - Doveva essere la parata in difesa del leader più perseguitato dopo B. Invece è diventata un caffè con il duo Meloni-Tajani.

Una lastra a ciel sereno, solo un caffè con gli amici, e un saluto dal Gup: arrivederci in tribunale al prossimo 20 novembre.

Il processo a Matteo Salvini si chiude in ortopedia per via del marmo di una parete dell’aula di giustizia che collassa sulla caviglia di Giulia Bongiorno, la donna che lo difende in Parlamento e davanti ai giudici. L’adunata siciliana finisce così, col finale amputato in ragione dell’imprevisto e ridotto carico emozionale che ha spompato un po’ il finale della kermesse leghista. Doveva giungere il popolo da ogni luogo d’Italia e duemila erano i posti prenotati nell’arena del porto dove il leader leghista avrebbe dovuto celebrare la cerimonia sotto il titolo “Processate anche me”. T-shirt, manifesti, video propulsivi per una chiamata di popolo, per dare al Capitano ciò che gli spetta: il leader più perseguitato d’Italia dopo Silvio Berlusconi.

C’è da dire che Silvio, causa Covid, ha mandato Antonio Tajani in solidale vicinanza, anche se ben altra fu la risposta dei parlamentari di Forza Italia, e lì la Lega mancò, che si strinsero al loro Capo occupando le scale del Tribunale di Milano dentro cui i giudici, colpevoli di volerlo processare, erano asserragliati. Altri tempi e altre Procure. Questa di Catania infatti non voleva neanche mandare a processo Salvini, anzi ha chiesto anche ieri l’archiviazione. Ma il Gup, come ha raccontato la Bongiorno dopo le cure mediche al pronto soccorso, vuole capire e approfondire. Ha accolto le richieste della difesa e saranno ascoltati anche il premier Conte, l’allora suo vice Di Maio e l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese.

“Gli faccio perdere solo mezz’ora, poi tornano al loro lavoro”, ha detto Salvini dopo una mattinata che doveva essere gagliarda e si è rivelata moscia. Giorgia Meloni è venuta a Catania, come anticipato, ma subito ha escluso che potesse parlare dal palco insieme a lui. Processate lui, non me.

Stando così le cose, anche Tajani si è convertito all’idea, più sparagnina, di un caffè da prendere in piazza. Una photo-opportunity con il buongiorno che si sarebbe visto fin dal mattino.

L’idea non è piaciuta alla questura e per motivi di ordine pubblico il caffè con allegato selfie di stringente amicizia è stato bevuto sulla terrazza dell’albergo di Salvini. Cinque minuti e via. Camicia bianca e cravatta blu. Salutati gli amici, ecco il tribunale. Il marmo cascato sui piedi della Bongiorno (immediata interrogazione parlamentare della Lega sulle condizioni dei palazzi di giustizia in Italia) ha ravvivato una giornata che, in assenza, si sarebbe accorciata molto.

Tant’è che sul palco leghista l’attesa del leader, che poi purtroppo nessuno ha visto, ha prodotto un surplus oratorio. I dirigenti hanno iniziato ad allungare il brodo, e a furia di allungarlo il comizio si è sfilacciato, i pensieri si sono doppiati e anche le parole hanno perso di smalto.

“Sono stanchissimo, vado a Milano dai miei figli”, ha detto Salvini, che è parso di un umore appesantito per via della defaillance di popolo che non era attesa. Sulle spalle del povero Stefano Candiani, il varesino mandato in Sicilia a fare il capo dei siciliani leghisti, tutto il peso di un’organizzazione che fino a due sere fa si era dimostrata all’altezza delle attese. Centomila euro spesi per allestire la grande sala dove la Lega, riunita in assise, avrebbe salutato il processo facendosi un po’ anche processare.

“Processate anche me”, era e doveva restare il filo conduttore della resistenza. Invece la tre giorni, che come detto si è ridotta a due, ha preso la piega solita: molte parole, pochi fatti. Nessuna federazione con gli autonomisti isolani, principalmente col movimento del governatore Nello Musumeci che ha invece continuato a nicchiare, e qualche proposta in controtendenza. Giorgetti, che guida l’ala moderata, ha spiegato che Salvini o si butta al centro o rimane fregato.

C’è da dire che da un po’ di tempo Matteo si mostra meno ardimentoso e anzi persino più compassionevole con gli avversari: “Non odio nessuno”. L’ex odiatore è ora certo che “la cattiveria sia dei buoni, di quelli che voi definite buoni”.

Il tribunale non è perciò stato circondato dai leghisti, come pure nelle scorse settimane pareva possibile, e nessuna parola di fuoco, ma mille di amore. Certo, l’accusa di sequestro di persona (il reato per il quale è sotto processo) conduce a pene che, se inflitte, travolgerebbero la sua leadership. Ha chiamato il suo popolo alla resistenza, trovandosi egli nella parte del perseguitato, parendogli il minimo. Perciò la precettazione a Catania. Tutti si sono annunciati. Anche Giorgia, anche Silvio, seppure per interposta persona. Ma sul più bello, cioè nell’ora esatta del processo, se la sono squagliata.

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Il Papa cacci i furfanti dal Tempio. - Antonio Padellaro

 
















“E insegnava dicendo loro: ‘Non è scritto la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?’. Ma voi ne avete fatto un covo di ladroni”.

Marco 11,15-19

Nelle chiese desertificate dal virus (e molto prima dalla strisciante disaffezione) non ci si può scambiare il segno della pace per evidenti motivi. Ma da qualche domenica, un altro momento di devozione è diventato imbarazzante: con quale spirito, infatti, i fedeli superstiti osserveranno il tradizionale gesto di carità al momento della raccolta delle offerte? Certo, quei pochi soldi deposti nel sacchetto del sacrestano, o nelle cassette votive sotto le immagini sacre, raggranellati per sostenere le immediate necessità delle parrocchie, assai poco hanno da spartire con il colossale scandalo finanziario culminato con le dimissioni imposte da Papa Bergoglio al non più cardinale, Giovanni Angelo Becciu. Tuttavia, se una fede comune unisce la basilica di San Pietro con l’ultima delle pievi, è innegabile che la fiducia (che con la fede è imparentata, neppure tanto alla lontana) nelle alte gerarchie ecclesiastiche abbia subito l’ennesima scossa negativa. E così un’altra certezza degli osservanti è andata a farsi benedire.

“La gente non sa più chi è Cristo”, ha risposto il cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki, a chi lo interrogava sui veri problemi della Chiesa. Il pericolo è anche che la gente non sappia più cosa sia la Chiesa. Ciò accade quando si lascia che una comunità riunita nello stesso credo aneli alla luce dell’aldilà, ma sia tenuta all’oscuro dei gravi problemi (e delle pesanti colpe) che affliggono l’istituzione su questa terra. Molti credenti, ne siamo convinti, si sentirebbero sollevati se con l’autorità che gli deriva dal profondo affetto, dal profondo rispetto e dalla profonda fiducia da cui è circondato, Papa Francesco trovasse il modo di spiegare al mondo (e non soltanto a quello cattolico) come diavolo è potuto accadere che il tempio sia stato profanato e lordato da una cricca di corrotti, ladri e profittatori. Che hanno sottratto e intascato il denaro dei fedeli, inviato al Papa per essere ridistribuito a sostegno dei poveri e delle missioni.

Sarebbe straordinario se questo pontefice, a cui il carattere (e se fosse un cattivo carattere, meglio ancora) non difetta, facesse ciò che nei tempi lontani del catechismo tanto ci affascinava. Sul libretto l’immagine di Gesù che caccia a scudisciate dal Tempio di Gerusalemme i mercanti e rovescia i tavoli dei cambiavalute. Forza Francesco completa l’opera, facci sognare.

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