martedì 13 ottobre 2020

Saras-Isis, indagini fino a Ubi. - Nicola Borzi

 

Contrabbando - Greggio preso dai jihadisti, inchiesta sui crediti ceduti a Ubi factor.

L’inchiesta della Direzione distrettuale antiterrorismo di Cagliari non è la sola a coinvolgere la Saras. Gli inquirenti sardi accusano la società di raffinazione, quotata e controllata al 40% dalla famiglia Moratti, di avere comprato tra il 2015 e il 2016 petrolio iracheno contrabbandato dai curdi e poi dall’Isis a prezzi stracciati e di avere evaso il Fisco per almeno 130 milioni. Ma c’è anche la Procura di Brescia: secondo alcuni atti sui sistemi antiriciclaggio nel gruppo Ubi, sotto la lente dei magistrati lombardi sono finiti possibili profili di rilevanza penale di un’operazione di cessione di credito per svariati milioni, finiti in Ubi Factor tra Natale e Capodanno del 2016, che erano vantati dalla società svizzera Saras Trading nei confronti di Petraco Oil Company. L’operazione è avvenuta dopo consistenti trasferimenti di denaro tra Saras Trading e Petraco. Le società sono al centro dell’inchiesta cagliaritana che il 30 settembre ha portato alle perquisizioni negli uffici Saras in Sardegna e a Milano per ipotesi di reato che vanno dal riciclaggio al falso ai reati tributari.

Secondo alcune ricostruzioni, Saras avrebbe comprato petrolio di contrabbando da un’azienda di trading, la Petraco, che se lo sarebbe procurato tramite una sua controllata delle Isole vergini britanniche, la Edgewaters Falls. Edgewaters avrebbe comprato il petrolio in Iraq, prima dai curdi e poi dall’Isis, falsificando i documenti per farlo risultare proveniente dalla Turchia. Saras Trading, costituita a Ginevra a settembre 2015 e attiva dal 2016, è stata amministrata dai vertici della capogruppo: tra questi Dario Schiaffardi, attuale ad di Saras e in precedenza dg, consigliere e vicepresidente esecutivo, insieme al direttore finanziario Franco Balsamo e al responsabile commerciale Marco Schiavetti. Balsamo e Schiavetti sono indagati a Cagliari. Saras risponde che “l’operazione è un’ordinaria cessione pro soluto tra Saras Trading e Ubi Factor di crediti, derivanti dalla vendita di prodotti petroliferi, vantati da Saras Trading nei confronti di Petraco Oil, società di primario standing operativa a livello mondiale. Responsabilità e trasparenza sono tra gli attributi fondamentali del gruppo e delle nostre persone che hanno sempre operato in conformità alle norme, senza conflitti di sorta con alcuno”. Letizia Brichetto Arnaboldi, vedova di Gian Marco Moratti che fu presidente di Saras, nel 2016 era presidente del consiglio di gestione e dal 2019 fino a pochi mesi fa è stata presidente di Ubi Banca. Contattata, Ubi non ha risposto.

Ma Saras ha anche altri problemi. In Borsa il titolo era risalito dai minimi storici di fine settembre a 43 centesimi sino a 52, con un rialzo del 20% spinto dalle voci di un’Offerta pubblica di acquisto di un potenziale investitore, ma ieri ha chiuso a -5,14%. Sul tonfo pesa il perdurare della crisi scatenata dalla pandemia che ha spinto la raffineria sarda a mettere in cassa integrazione a rotazione i 1.300 dipendenti dal 26 ottobre fino al prossimo 30 giugno.

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Lega, il commercialista e le srl “ritrovate” in Lussemburgo. - Davide Milosa

 

Film Commission - Ricostruita la rete di Scillieri, che porta a 4 nuove società oltreconfine.

Michele Scillieri commercialista lo è dagli anni Novanta. Vita agiata e casa in una delle vie più note di Milano. Poi il terremoto del caso Lombardia Film Commission (Lfc), i domiciliari, il legame con Di Rubba e Manzoni. Nel suo studio la Lega di Salvini ha eletto domicilio. Da qui tutto frana. E oggi, dopo gli arresti, la Procura indaga sui suoi rapporti con società in Lussemburgo. Il dato inedito emerge da una annotazione della Finanza agli atti del fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi.

Nella rete societaria tra i vecchi soci compaiono soggetti con “precedenti penali o di polizia” per reati finanziari e riciclaggio. Molti di loro risultano coinvolti nelle inchieste sull’ex costruttore romano Danilo Coppola. Sono tre le srl amministrate da Scillieri e tutte portano a 4 società anonime in Lussemburgo con sede in Rue de la Boucherie 4-6. Le tre italiane hanno il domicilio in via Angelo May 24 a Bergamo, indirizzo, scrive la Gdf, “coincidente con i luoghi di esercizio delle società riferibili a Manzoni e Di Rubba”. La prima società è la Dacop. Qui Scillieri diventa amministratore dall’aprile 2018. Dacop nasce nel 2002. Nel luglio 2009 il 99% delle quote passa a Danilo Coppola. Due mesi dopo, il pacchetto va alla lussemburghese Europeenne d’Investissement Sa per finire oggi alla 68 Galtier Prima Sa. La seconda società è la Seasi, che come Dacop è una immobiliare. Scillieri entra nell’aprile 2018, trasferendo la sede in via Angelo May 24. Socio di Seasi è la Taurus Prima Sa. La società è destinataria di una segnalazione di Bankitalia per “comportamento sospetto”. La terza srl è la Programmi immobiliari con sede in via May 24. Scillieri è stato amministratore dal marzo 2019 fino al 19 settembre, nove giorni prima del suo arresto. La Programmi immobiliari è partecipata al 100% da Si.Pa. immobiliare con un pegno di banca Arner. Socio unico di Si.Pa, che in Italia ha sede in via May 24, è la Sunrise 14 Sa, quarta lussemburghese. Queste società a gennaio 2018 – pochi mesi prima dell’ingresso di Scillieri – le ritroviamo nella costituzione di un pegno a garanzia di un prestito di 20 milioni dalla Swiss Merchant Corporation Sa. A redigere l’atto è il notaio Angelo Busani (non indagato), che secondo Bankitalia nel 2018 bonificherà 18 milioni al notaio Mauro Grandi (non indagato) che si è occupato del caso Lfc.

Denaro che ripartirà verso l’estero. A Busani è riferibile la Credit Swiss servizi fiduciari che ha fatto da trustee al trust Diva di Andrea Dini, cognato di Attilio Fontana coinvolto nell’inchiesta sui camici. Per la costituzione del pegno le lussemburghesi sono rappresentate da Andrea Giovanni Carini, avvocato di origine libica. Carini risulta con un “precedente di polizia” per riciclaggio. Sia Dacop sia Seasi hanno l’indirizzo in Rue de la Boucherie “presso la Guarnieri & Partners Cabinet d’Avocats Luxembourg Sa, il cui comitato è formato anche da Carini”. Al pegno partecipano anche società italiane. Tra queste la Partecipazioni immobiliari (fallita nel 2019) riferibile a Manuel Rossetto che, non indagato, compare tra gli ex dirigenti delle società amministrate da Scillieri. C’è poi la Si.Pa già riconducibile indirettamente a Scillieri e altre 4 società di Rossetto, alcune in liquidazione, e con sede in via May 24. Nell’atto è scritto che i 20 milioni andavano restituiti in 7 anni. Ma già il 30 maggio 2018 il pegno è cancellato.

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Gare e camici, l’Anticorruzione regionale non si accorge di nulla. - Gianni Barbacetto

 

L’Orac, nato nel 2018, ha il compito di vigilare.

Nessuno se n’è accorto, ma la Regione Lombardia ha una sua agenzia anticorruzione. Si chiama Orac (Organismo regionale anticorruzione), è stata costituita nel settembre 2018, anche se è davvero funzionante solo dall’ottobre 2019, e ha come presidente un magistrato di gran fama, Giovanni Canzio, già presidente della Corte d’appello di Milano e poi primo presidente della Corte di cassazione. Ha appena varato la sua prima semestrale, un ponderoso documento, con gli allegati, di 121 pagine. In quei fogli, però, non c’è traccia alcuna degli scandali che hanno investito nei mesi scorsi la Regione Lombardia. Centinaia di appalti senza gara per l’emergenza Covid. Donazioni fantasma e forniture senza controllo per realizzare il finora inutile ospedale in Fiera. L’appalto dei camici diventato miracolosamente “donazione” da parte dell’azienda del cognato e della moglie del presidente regionale Attilio Fontana. La sede della Lombardia Film Commission venduta alla Regione al doppio del suo prezzo da parte della banda dei commercialisti della Lega. I contratti per i test sierologici con Diasorin. I vaccini antinfluenzali comprati a prezzi fuori mercato e non autorizzati.

Di queste vicende si sono occupati i giornali e la Procura della Repubblica, non l’Anticorruzione regionale, che non si è accorta di niente, non ha visto niente, non ha aperto alcuna istruttoria. Da ottobre a dicembre 2019 l’Orac ha tenuto nove riunioni, 23 da gennaio a giugno 2020. I nove membri dell’Anticorruzione hanno intascato finora compensi per 340 mila euro (55,6 mila euro il presidente Canzio, 41,7 a testa gli altri). Ma non hanno acceso alcun faro sui tanti casi di gare, incarichi e appalti che pure hanno attirato l’attenzione della stampa e anche dei magistrati. La relazione semestrale segnala due sole istruttorie aperte dall’Orac: su alcune nomine ad Areu (l’azienda regionale delle emergenze) e all’istituto neurologico Besta. Nessun controllo sulle gare, sugli appalti, sull’attività di Fnm e Trenord, nessuna verifica su Finlombarda (la finanziaria regionale) o su Aria (la centrale acquisti della Regione).

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Bar e movida, feste e matrimoni: ecco la stretta soft del governo. - Alessandro Mantovani e Paola Zanca

 

Il decreto - Party vietati all’aperto e al chiuso, non più di 30 ai ricevimenti di nozze, massimo 6 ospiti “raccomandati” nelle case.

Sono vietate le feste all’aperto e al chiuso: massimo 30 persone per i ricevimenti di nozze e battesimi, non più di 6 nelle case, ma il limite è solo “raccomandato”. Tetto del 15 per cento della capienza per gli spettatori degli eventi sportivi fermo restando che non si può andare sopra i mille in Serie A. Bar e locali chiusi alle 24 con divieto di consumazione all’aperto dalle 21, salvo servizio al tavolo. Stop a calcetto, basket, boxe e sport di contatto amatoriali mentre le attività delle federazioni proseguiranno. Mascherine anche in casa se ci sono non conviventi. Limiti confermati per cinema e teatri salvo deroghe già previste. E ancora, incremento dello smart working e stop alle gite scolastiche.

Il nuovo Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) è pronto, Giuseppe Conte e i ministri della degli Affari regionali e della Salute, Francesco Boccia e Roberto Speranza, ne hanno discusso fino a ieri sera nella “cabina di regia” con il presidente della Conferenza Stato-Regioni Stefano Bonaccini e il presidente dell’Anci (Comuni) Antonio Decaro. Ieri sera gli uffici legislativi stavano limando il provvedimento che per la prima volta da maggio introduce restrizioni, sia pure limitate, per contenere il Coronavirus. Le resistenze dei rappresentanti degli enti locali si sono concentrate sui locali. A evitare le chiusure anticipare dei bar ha provato Decaro, sindaco di Bari, che ha chiesto anche di incentivare lo smart working e di differenziare gli orari di apertura delle scuole per diluire il più possibile la circolazione sulle strade e sugli autobus. “L’epidemia sta assumendo dimensioni che ci obbligano a nuove misure. Dobbiamo, allo stesso tempo, tenere aperto il Paese e tutelare soprattutto lavoro e scuola”, ha detto Boccia.

Per i locali della movida il governo ha retto sulle ore 24, scartando l’ipotesi di arrivare all’una di notte, ma d’altro canto il “rigorista” Speranza all’inizio chiedeva lo stop alle 22 o alle 23. Dalle 21 non si potrà consumare all’aperto, almeno in piedi vicino ai locali: i controlli toccheranno soprattutto alle polizie locali, come disposto dal Viminale. Trattativa anche su eventi sportivi e spettacoli: sui primi il governo partiva dal 10 per cento della capienza, gli enti locali hanno strappato il 15, fermo restando il tetto massimo di mille spettatori; per cinema e teatri restano in vigore le ordinanze regionali. Non ci sono provvedimenti per la scuola, né sui trasporti per i quali la capienza massima rimane l’80 per cento con l’impegno a fare più verifiche. Se il limite dovesse scendere al 50 per cento c’è l’ipotesi di didattica a distanza per le superiori, avanzata da alcune Regioni.

Il governo corre ai ripari, è il primo passo sulla scala che ne prevede altri due fino al lockdown che nessuno vuole all’aumentare del tasso di riproduzione del virus Rt e di altri indici sanitari. L’ultimo monitoraggio, che si ferma al 4 ottobre e dunque prima del raddoppio dei casi giornalieri da circa 2.500 a oltre 5.000, fissava Rt a 1,06: vuol dire che una persona infetta ne contagia in media più di una e la curva epidemica sale. Ieri il dato è sceso, sono 4.691 i casi registrati da domenica e le Regioni che ne contano di più sono sempre Lombardia e Campania: 696 e 662. Ma come ogni lunedì ci sono meno tamponi: 85 mila dopo cinque giorni sopra i 100 mila e fino a 130 mila ogni 24 ore. Infatti continua a crescere il rapporto positivi/tamponi: 5,4 per cento; fino al 7 ottobre non aveva mai superato il 3. Il morti sono stati 39, anche qui con un aumento rispetto ai giorni scorsi (il totale ufficiale è 36.305). Negli ospedali si contano 302 ricoverati in più nei reparti ordinari (per un totale di 4.821 in tutta Italia) e 32 nelle terapie intensive (452 in totale).

Intanto il ministero della Salute ha varato le nuove regole sulla quarantena, dopo il via libera del Comitato tecnico scientifico: non più 14, ma 10 giorni per i contatti stretti dei positivi, purché con tampone molecolare o test antigenico rapido alla fine; senza test i giorni restano 14. Dieci giorni di cui tre senza sintomi per i positivi, con tampone molecolare negativo (fino a ieri erano due a 24 ore l’uno dall’altro). O al massimo 21 giorni: anche se il tampone è positivo, il soggetto non è più ritenuto contagioso. I test, secondo governo e Cts, potranno farli anche i medici di famiglia, chiamati a rimediare ai limiti delle Asl, ma le loro associazioni resistono: i nostri studi, dicono, non sono attrezzati.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/13/bar-e-movida-feste-e-matrimoni-ecco-la-stretta-soft-del-governo/5963925/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-13

Il Cavalier Bollito. - Marco Travaglio












Ho trovato! Da mesi mi domandavo che ci faccia Giulio Gallera ancora all’assessorato alla Sanità della Lombardia e cosa debba fare di più per essere accompagnato alla porta e smettere di fare danni in aggiunta al Covid. Non è bastato che il 23 febbraio suoi dirigenti riaprissero il pronto soccorso di Alzano senza sanificarlo poco dopo l’esplosione del contagio. Non è bastata l’ordinanza che invitava le Rsa a ospitare i malati di Covid appena dimessi dagli ospedali, per un banale equivoco tra il concetto di guarigione e quello di non-contagiosità. Non sono bastati i suoi no alla zona rossa in Val Seriana e la sua ignoranza della legge 833/1978 che gliela consentiva ma lui l’ha scoperta (“Ah, già!”) solo quando ne ha parlato Conte, manco fosse una leggina qualunque e non quella intitolata “Istituzione del Servizio Sanitario nazionale” che regola i suoi poteri. Non è bastata la tragicommedia del Bertolaso Hospital, la terapia intensiva costruita in Fiera a distanze siderali dal più vicino ospedale, costata 30 milioni e rimasta ovviamente deserta. Non è bastata l’ordinanza che imponeva le mascherine all’aperto in Lombardia e, siccome non ce n’erano, suggeriva alternative tipo “sciarpe o foulard” (ma anche, ad libitum, maschere da sub, cappucci massonici, colli di visone, burqa, caschi da parrucchiere o palombaro o astronauta, passamontagna da rapinatore, elmi da crociato, maschere di carnevale, zucche di Halloween ecc.).

Non è bastata la lettera di tutti gli Ordini dei medici della Lombardia che faceva a pezzi le sue scelte e la sua risposta che li accusava di “fare politica”. Non è bastata neppure la sua pur notevole spiegazione dell’indice R0 (la media statistica delle persone infettate da ogni positivo): “L’indice di contagio in Lombardia è allo 0,51: vuol dire che bisogna trovare due persone infette allo stesso momento per infettare me. E non è così semplice trovarle. Questa è l’efficacia della nostra azione e ciò che ci fa star tranquilli”. Forse l’han lasciato lì per divertirsi a fingersi positivi e sentirgli dire: “Mi sputi pure in faccia, tanto per contagiarmi dovete essere in due”. O perché ha battuto la testa giocando a paddle e si sperava che fosse rinsavito. Invece il Gallera della seconda ondata è ancor più Gallera di prima: sui vaccini dell’influenza ha fatto un tal casino che ora li paga 26 euro l’uno anziché 5, l’Aifa gli ha bocciato quelli cinesi. E noi tutti lì a domandarci come possa restare assessore. Poi un amico mi ha girato una sua intervista del 2018 a un sito gastronomico, con uno strepitoso coming out: “Sono Cavaliere del Bollito Misto”. Quindi ogni sera lo servono in tavola sul carrello dei lessi, in salsa verde. Ora bisogna soltanto attendere che lo levino dal menu.

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lunedì 12 ottobre 2020

La bugia da cui è nato il razzismo. - John Biewen

 

Sono un giornalista, documentarista e insegnante, per molto tempo il razzismo è stato un grande rompicapo per me: Perché esiste ancora, se è così chiaramente sbagliato? Da dove è nato?

La scienza è chiara. Siamo un’unica razza. Siamo tutti collegati, discendenti di un antenato in Africa. Alcune persone hanno lasciato l’Africa per luoghi più freddi e bui e hanno perso molta melanina, alcuni di noi più di altri. Ma geneticamente, siamo tutti uguali al 99,9%. C’è più diversità genetica all’interno di quelli che chiamiamo “gruppi razziali” che tra gruppi razziali diversi. Non c’è gene per essere bianco, nero, asiatico o di qualsiasi altra razza.

Allora, cosa è successo? Come è iniziato il razzismo?

Innanzitutto, la razza è un’invenzione recente, vecchia di poche centinaia di anni. Prima di allora, le persone erano divise per religione, gruppo tribale, lingua. Ma per la maggior parte della storia umana, la gente non aveva alcuna nozione di razza.

Nell’antica Grecia, per esempio, come mi ha riferito la storica Nell Irvin Painter, i greci pensavano di essere migliori degli altri, ma non per una qualche idea di superiorità innata. Pensavano solo di aver sviluppato una cultura più avanzata. Così guardarono gli etiopi, i persiani e i celti e dissero: “Sono tutti per metà barbari rispetto a noi. Culturalmente, semplicemente non sono greci”.

E nel mondo antico c’era molta schiavitù, ma la gente schiavizzava quelli che non gli assomigliavano. Lo sapevate che la parola inglese slave” (schiavo) deriva da “slav”? Perché gli slavi sono stati schiavizzati per secoli da ogni sorta di popoli, compresi gli europei occidentali. La schiavitù non era nemmeno una questione di razza, perché nessuno ci aveva ancora pensato.

Chi ci aveva pensato allora? L’ho chiesto a un altro storico importante, Ibram X. Kendi. Sembra impossibile ma mi rispose con un nome e una data, come se si trattasse dell’invenzione della lampada.

Mi disse che nella sua esauriente ricerca (pubblicata nel libro) ha trovato quella che, a suo avviso, era la prima articolazione delle idee razziste. E fece il nome del colpevole: Gomes Eanes de Zurara, uno scrittore portoghese. Scrisse un libro nel 1450 in cui, secondo Kendi, fece qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Riunì tutti i popoli dell’Africa, un continente vasto ed eterogeneo, descrivendoli come un gruppo diverso, inferiore e bestiale. Non importa che in quel periodo pre-coloniale alcune delle culture più sofisticate del mondo fossero in Africa.

Ma perché questo tizio disse tutto ciò?

Per rispondere dobbiamo seguire la strada dei soldi. Prima di tutto, Zurara fu assunto dal re portoghese per scrivere quel libro, (Cronaca della scoperta e della conquista della Guinea) e solo pochi anni prima, i mercanti di schiavi legati alla corona portoghese erano stati effettivamente pionieri della tratta degli schiavi dell’Atlantico. Furono i primi europei a navigare direttamente verso l’Africa sub-sahariana per rapire e schiavizzare gli africani. Così è stato improvvisamente molto utile avere una storia sull’inferiorità degli africani per giustificare questo nuovo commercio, ad altre persone, alla chiesa, a se stessi. E con la scrittura, Zurara inventò sia il nero che il bianco, perché fondamentalmente creò il concetto di nero attraverso questa descrizione degli africani, come dice Ibram Kendi: “il nero non ha senso senza il bianco”. Zurara disse che gli africani catturati e venduti come schiavi erano pagani e avevano bisogno di salvezza religiosa e civile. Altri paesi europei seguirono l’esempio portoghese nel cercare in Africa beni umani adottando questa bugia sull’inferiorità delle persone africane.

Il razzismo non è iniziato con un malinteso, ma con una bugia.

Nel frattempo, qui negli Stati Uniti coloniali, le persone che si definivano bianche adottarono queste idee razziste trasformandole in leggi, privando tutti i diritti umani delle persone che chiamavano nere.

Posso immaginare che possiate pensare: “Questa è storia antica”. Che importanza ha? Le cose sono cambiate. Non possiamo superarlo e andare avanti?”. Per me imparare questa storia ha portato un vero cambiamento nel modo in cui oggi comprendo il razzismo.

La razza non è qualcosa di biologico, è una storia che alcuni hanno deciso di raccontare. La gente ha raccontato questa storia per giustificare il brutale sfruttamento degli esseri umani a scopo di lucro. Non ho imparato questi due fatti a scuola, credo che la maggior parte delle persone non l’abbia fatto. Dopo aver appreso ciò, diventa chiaro che il razzismo non è essenzialmente un problema di atteggiamenti, di intolleranza individuale. No, è uno strumento per dividerci e sostenere sistemi economici, politici e sociali che vanno a beneficio di alcuni e prevalgono su altri. Ed è uno strumento per convincere molti bianchi, che possono o meno guadagnare molto da una società altamente stratificata, a sostenere lo status quo. “Potrebbe essere peggio. Almeno sono bianco”.

Persone potenti lavorano ogni giorno approfittando e rinforzando questa vecchia arma nei corridoi del potere. E non dobbiamo preoccuparci se queste persone credono a quello che dicono, se sono davvero razziste. Non si tratta di questo, ma di soldi e di potere.

Infine, la più grande lezione di tutte, e mi rivolgerò in particolare ai bianchi. Quando capiamo che le persone che ci assomigliano hanno inventato il concetto stesso di razza per ottenere un vantaggio, non è più facile capire che è un nostro problema da risolvere? E’ un problema dell’uomo bianco. Mi vergogno di dire che per molto tempo ho pensato al razzismo principalmente come a una lotta per le persone di colore.  Ci siamo tutti dentro.  Siamo implicati.  E se non mi unisco alla lotta per smantellare un sistema  che mi avvantaggia,  sono complice.

Non si tratta di vergogna o di senso di colpa. La storia non è colpa mia o vostra. Quello che sento è un maggiore senso di responsabilità nel fare qualcosa.

Tutto questo ha modificato il mio modo di pensare e di avvicinarmi al mio lavoro di documentarista e di insegnante. Ma oltre a questo, cosa significa? Cosa significa per ognuno di noi? Significa che sosteniamo i leader che vogliono risolvere la situazione? Nelle nostre comunità, troviamo persone che lavorano per trasformare istituzioni ingiuste? Nel mio lavoro, sono io la persona bianca che sta cercando di capire come essere un vero complice dei miei colleghi di colore o il contrario? Ovunque ci presentiamo, dobbiamo farlo con umiltà e vulnerabilità e con la volontà di mettere via questo potere che non ci siamo guadagnati.

Possiamo trarre tutti beneficio se riusciamo a creare una società che non sia basata sullo sfruttamento o sull’oppressione di nessuno. Ma dobbiamo farlo, capire come agire. Perché è la cosa più giusta da fare.

(Photo Di Shutterstock Edited by happygrafic.com)

(Traduzione e adattamento del Tedx di John Biewen)

https://www.beppegrillo.it/la-bugia-da-cui-e-nato-il-razzismo/

Covid, restiamo umani. Pazienti dimenticati, visite negate. “Mai usciti dalla prima ondata”. - Selvaggia Lucarelli

 

Morire di quarantena: 87 anni, negativo, se ne va senza la moglie

Cara Selvaggia, sono assistente sociale in un piccolo comune, vicino Verona. Seguo gli anziani e vorrei mostrarle un’altra faccia dell’emergenza Covid, raccontando una vicenda davvero triste, che mi ha toccato molto dal punto di vista professionale e soprattutto umano. Una coppia di anziani, lui 80 anni, lei 87. Insieme da una vita, niente figli, niente nipoti, niente parenti prossimi. Si sono arrangiati finché hanno potuto, poi li ho affiancati per consentire loro una vita dignitosa nella propria casa. Fino a quando bussa la bestia nera, il Covid. Loro due terrorizzati, barricati in casa. Certo non lasciati soli, ma comunque soli. Con l’isolamento arriva anche la demenza senile di lui, prepotente, velocissima. Spaventosa per lei, che non sa più a un certo punto come gestire il marito, che ogni tre per due si mette in testa di fare cose assurde e lei non riesce a dissuaderlo; lui si mette in pericolo e cade spesso. Di notte non si dorme. Arriva settembre e lei è esausta, nonostante gli aiuti domiciliari. Serve un periodo di sollievo in una struttura protetta (in questo caso è una casa di riposo), per consentire a lei di recuperare le forze e a lui di essere curato. Arriva il giorno del ricovero (dopo il tampone negativo): li accompagna la nostra ragazza di Servizio civile. L’accoglienza è traumatica, prendono lui e lo portano subito nella sua stanza. Non li fanno nemmeno salutare. Lei torna a casa, spaesata, inizia subito a telefonare in struttura per sapere come sta il marito, se ha mangiato, se ha dormito. Non hanno cellulari e gli operatori non glielo passano al telefono. A lui fanno un altro tampone appena arrivato, anche questo negativo: ma deve stare in isolamento, ancora, per 15 giorni. A tratti è lucido, ma in generale non sa bene dove si trova. Non può vedere nessuno. Lei insiste (e anche io) perché glielo facciano vedere anche per 5 minuti, da dietro un vetro, per mostrargli che sua moglie c’è ancora, non l’ha abbandonato. Impossibile, prima visita consentita dopo 3 settimane (15 giorni più il tempo dell’esito del 3º tampone). Ecco, lui non ci è mai arrivato a rivederla: dopo 13 giorni di “prigionia” si è semplicemente lasciato andare. Senza avere nessuna patologia tale da causare un decesso. Lo comunicano a lei quella notte alle 2, era sola. E disperata. È stato protetto eccellentemente dal Covid, ma è stato ucciso dalla mancanza di umanità. Forse stiamo perdendo di vista qualcosa. Grazie per l’attenzione.

Silvia

“No-mask irresponsabili, e io che speravo dopo il lockdown…”

Ciao Selvaggia, sono un’infermiera e durante la prima ondata di pandemia ho lavorato nel reparto Covid della mia clinica (un istituto del gruppo ospedaliero San Donato). Io, infermiera di cardiochirurgia da anni, di colpo sono stata catapultata in una realtà nuova! Ho pianto tanto: vedevo ammalarsi colleghi medici, infermieri e operatori socio sanitari, senza sapere se ce l’avrebbero fatta. Ho pianto con gli anestesisti quando abbiamo dovuto scegliere chi attaccare al respiratore (che erano sempre molto pochi) e chi accompagnare verso la fine. Ho pianto con i pazienti, che mi guardavano negli occhi chiedendomi se ce l’avrebbero fatta! Ho pianto da sola perché avevo sempre paura di infettare mio marito, ho pianto per i mesi trascorsi lontana da genitori e affetti. Quando la situazione è migliorata ho davvero sperato che fossimo tutti consapevoli della gravità della pandemia, e che si riuscisse (per una volta) a seguire le regole! Ma ora per colpa dei negazionisti, dei “no mask” e di tutti quelli che se ne fregano, non posso più fare il mio lavoro, il lavoro che amo. Nella mia clinica (100 posti letto circa) ci sono 6 pazienti positivi, ed io sono obbligata in casa per via di un branco di irresponsabili! E per fortuna sono una di quelle che non ha mai pensato che “andrà tutto bene”. Almeno, sono rimasta sorpresa a metà.

L.

“Io, malato di cancro, un numero nella fredda macchina sanitaria”

Cara Selvaggia, col Covid l’Italia si è dimenticata di chi i problemi di salute li affronta ogni giorno. Io, tumore a 22 anni, infarto e problemi cardiorespiratori (provocati dalle radioterapie), ora ho 35 anni. Mi sono costruito una famiglia, un lavoro impegnativo, affetti, desideri, gioie, dolori, piccoli successi e molti insuccessi. Nonostante tutto. Ho vissuto. In questo periodo, accedere in ospedale per le mie piccole emergenze o per i controlli di routine è divenuto un’impresa. La macchina sanitaria avanza in modo sbrigativo perché c’è il Covid: da paziente cronico mi sento sempre più un numero, un codice di un esame, un “ci rivediamo al prossimo controllo” e via. Non va. Persone senza mascherina ti tossiscono accanto, ti arrivano addosso; ragazzini ti guardano con atteggiamento di sfida senza indossare la mascherina. Questo, è tanto altro. Ho sempre desiderato vivere, oltre i miei problemi. Oggi voglio solo sopravvivere per i miei figli.

M.

Queste tre lettere indicano con chiarezza che al di là dei numeri, delle statistiche, della situazione ad oggi (poco) più rassicurante che in altri Paesi europei, nulla è finito. E che forse non si può parlare di seconda ondata. La verità è che sia da un punto di vista psicologico che sanitario, non siamo mai usciti dalla prima.

Selvaggia Lucarelli

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