Ben 1,4 milioni di persone hanno firmato per indire il referendum che blocchi la vendita ai privati dell’acqua. Un primo stop in questo conflitto che vede i big dell’economia affiancare o soppiantare i gestori pubblici dell’acqua. Cioè una gestione statale, regionale, comunale. E se si sperimentasse una terza via?
Partiamo dai dati macro di questa guerra dell’acqua: 1,6 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile; 2,6 miliardi di persone non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base; 5 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie legate all’acqua. E tutti sanno (meno quelli che fingono di non sapere) che ormai da più di un decennio (ma si potrebbe andare anche più indietro nel tempo) i grandi gruppi industrial-finanziari si stanno interessando al business dell’acqua in previsione dell’esaurirsi del petrolio. Un esaurimento fisico dei giacimenti e un esaurimento economico dettato dalla necessità di sostituire all’inquinante petrolio qualche altra forma di guadagno.
Suez-Lyonnais des eaux, Vivendi, Saur-Bouygues, Thames Water, United utilities, Ruwe, Nestlé, Danone, Coca-Cola e altri fanno da anni della gestione dell’acqua la fonte di alti profitti e contro lo strapotere delle multinazionali il cosiddetto «popolo delle sinistre» rivendica la proprietà pubblica dell’acqua.
I problema acqua è anche la cartina al tornasole della divisione fra privilegiati e diseredati a livello mondiale se si tiene conto che il 12 per cento della popolazione usa l’85 per cento delle risorse del pianeta.
Ecco la situazione della divisione fra ricchi e poveri nelle varie parti del mondo secondo quanto registrato dall’agenzia di stampa Ansa. «America: anche il continente americano soffre l’assenza d’acqua, manca quella per usi domestici perché viene utilizzata, al ritmo di 2 mila miliardi di litri, per coltivare cereali per l’allevamento. Europa: il 16 per cento della popolazione non ha accesso all’acqua potabile. Un problema che in trent’anni è costato 100 miliardi di euro. In Europa il 44 per cento dell’acqua estratta viene utilizzata per produrre energia, mentre nell’area mediterranea, con la domanda raddoppiata negli ultimi 50 anni, si prevede un aumento dei consumi del 25 per cento entro il 2025. Italia: le condutture perdono 104 litri d’acqua per abitante al giorno (pari al 27 per cento dell’acqua prelevata), un terzo degli italiani non ha un accesso regolare all’acqua potabile, ma ogni italiano consuma 237 litri di acqua al giorno. Salerno è la città che ne consuma di più con una media di 264 litri a testa al giorno, mentre Agrigento è quella che ne consuma di meno con 100 litri pro-capite al giorno. Il rubinetto dell’Italia perde il 30 per cento dell’acqua immessa e nelle regioni meridionali e nei mesi estivi il 15 per cento della popolazione scende al di sotto della soglia minima di fabbisogno giornaliero a persona (50 litri al giorno). Il 30 per cento non ha un accesso sufficiente e 8 milioni non hanno quella potabile mentre 18 milioni la bevono non depurata. In Italia c’è però anche il business dell’acqua minerale che vale 5,5 miliardi di euro all’anno (al terzo posto al mondo per consumi pro-capite dopo Emirati Arabi e Messico)».
Pubblico o privato?
Di fronte a questa situazione, drammatica soprattutto nei paesi del cosiddetto terzo mondo, le «grida d’allarme» dell’Onu suonano soltanto come la «necessaria retorica» tipica delle organizzazioni sovrannazionali. Organizzazioni che contano soprattutto come «teatrino mondiale», ma (e diciamolo chiaramente: per fortuna) contano un po’ più (ma solo un po’) del cosiddetto due di picche nel gioco della briscola.
E veniamo al teatrino italiano. Di fronte all’avanzata di società private nella gestione dell’acqua potabile (peraltro già all’interno della struttura societaria delle municipalizzate) le sinistre hanno registrato una prima vittoria con le firme (1,4 milioni) per il referendum contro la privatizzazione dei gestori dell’acqua per conservare o riaffermare una gestione pubblica. Dimenticando, forse, che già diverse municipalizzate (le più importanti) sono quotate in Borsa. Luogo (è notorio e non potrebbe essere altrimenti) deputato a considerare con benevolenza chi fa profitti e non certo perdite.
E qui si riapre una questione tanto importante quanto antica. Se l’acqua è essenziale per la vita perché si deve anche in un caso così importante, fondamentale, delegare ad altri la gestione di questo bene? Pubblico o privato non sono i due poli tra cui scegliere. Dove pubblico significa gestione attuata da burocrazie politiche e privato è il luogo del profitto ricercato da manager che rispondono ad azionisti. Azionisti che vogliono sia remunerato il loro capitale investito in azioni.
Tertium non datur? Non è detto. Infatti, chi l’ha detto che la gestione dell’acqua non debba essere esercitata da chi quell’acqua beve? Chi l’ha detto che siano meglio i burocrati o i manager dei consumatori? Chi l’ha detto che un bene di tutti non debba essere gestito da tutti? Cioè da coloro che quell’acqua bevono? E come? Attraverso modelli di partecipazione autogestionaria. Chi l’ha detto che burocrati o manager pensino a soddisfare i bisogni della gente e non, invece, a servire gli interessi politici o di profitto di chi li ha nominati? Chi l’ha detto che l’autogestione degli acquedotti sia un’utopia e non un’impellente necessità?
Utopia… Parola sempre disprezzata o dileggiata dalle persone «pratiche», di «buon senso», legate alla «realtà» e non al «sogno». Ma c’è chi è veramente sicuro che l’utopia sia «desiderio vano», «illusione», «ideale astratto»? Certo il termine utopia rimanda a «un modello di una società perfetta, dove gli uomini vivono nella piena realizzazione di un ideale politico e morale» (Dizionario Garzanti , a «un ideale che non si può realizzare» (Dizionario Sansoni), ma anche a «un ideale etico-politico destinato a non realizzarsi dal punto di vista istituzionale, ma avente ugualmente funzione stimolatrice nei riguardi dell’azione politica, nel suo porsi come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti» (Dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli), mentre «Auguste Comte assegnava all’utopia propriamente detta una parte importante non solo nelle istituzioni, ma anche nello sviluppo delle idee scientifiche» (Dizionario critico di filosofia di André Lalande).
Allora è tanto utopico volere e realizzare l’autogestione?
di VALERIA ROSSI – Dopo la pubblicazione dell’intervista al dottor Montanari e il successivo colloquio con Marina Bortolani, che mi ha portato a togliere la suddetta intervista dal giornale, ho cercato di raccogliere quanto più materiale possibile per fornire una panoramica completa dei fatti.
Ho scambiato telefonate e mail con la Onlus Carlo Bortolani, con lo stesso dottor Montanari e con altre persone direttamente coinvolte nei fatti, l’ultima delle quali è stata Sonia Toni, ex moglie di Beppe Grillo tuttora in ottimi rapporti con lui, che ha curato una lunga serie di conferenze del dottor Montanari e promosso la pubblicazione di alcuni suoi libri.
Premetto che la verità in tasca non l’avevo prima e non ce l’ho neanche oggi: ma avendo pubblicato e successivamente “s-pubblicato” un’intervista su questo tema, ritengo di dover comunicare ai lettori almeno i fatti – comprovati da testimonianze o documenti – di cui sono venuta in possesso.
Da questi emerge che la decisione di donare il microscopio elettronico all’università di Urbino è stata motivata principalmente da due fattori:
a) l’utilizzo di questa apparecchiatura dalla Nanodiagnostics srl anche per scopi commerciali (analisi a pagamento) e non esclusivamente per la ricerca, come era stato invece dichiarato nel corso della raccolta fondi;
b) il fatto che la stessa raccolta fondi sia partita sulla base di quello che potremmo definire “un equivoco” o più crudamente “una manipolazione” del dottor Montanari ai danni di Beppe Grillo, scoperta solo in un secondo tempo.
I fatti: il dottor Montanari contattò Beppe Grillo, nel 2006, lamentando quello che definì lo “scippo” del microscopio elettronico a quel tempo in uso alla Nanodiagnostics, ad opera dell’Università di Modena. Montanari sosteneva che questo microscopio era stato pagato, almeno in parte, con suo denaro personale e che l’unica motivazione per cui si era deciso il trasferimento era il fatto che le sue ricerche, evidenziando la pericolosità delle nanoparticelle (prodotte in larga misura dagli inceneritori), avessero infastidito qualche potere forte.
La motivazione poteva essere credibile e non è escluso che, del tutto o in parte, fosse anche reale: non fu reale, però, il racconto che Montanari fece a Grillo sul fatto che pericolose nanoparticelle fossero state rinvenute, a seguito delle sue ricerche, in una serie di diffusissimi e notissimi prodotti alimentari.
Montanari disse a Grillo di aver scritto a tutte le aziende interessate e di non aver mai avuto alcuna risposta. Grillo, indignato da questi fatti gravissimi, invitò Montanari a partecipare ad una serie di spettacoli in cui, oltre a dare direttamente spazio al dottore, mostrava l’elenco dei prodotti incriminati e delle sostanze nocive che erano state trovate al loro interno grazie alle ricerche dello stesso Montanari e di sua moglie, la dottoressa Gatti.
Nel video che potete vedere qui sotto si vede e si sente chiaramente Stefano Montanari che alla domanda: “Stefano, le ditte hanno mai risposto?” esclama: “No, no, mai!”.
Peccato che…sorpresa! Nel 2007, in un’intervista a “Disinformatico” (che potete ancora leggere integralmente sul sito attivissimo.net) il dottor Montanari afferma che la storia delle nanoparticelle nei prodotti alimentari è stata manipolata e distorta nei contenuti. Testualmente, afferma: “la cosa parte giusta, nel senso che quello che è stato detto di base, all’origine di tutto c’è una cosa quasi giusta. Poi, poi si è estrapolato e si sono dette delle cose che assolutamente non corrispondono al vero, ma proprio minimamente“.
Montanari spiega (qui riassumo brevemente, ma consiglio la lettura dell’intervista intera) che lui e sua moglie, la dottoressa Gatti, hanno pescato a caso ed analizzato alcuni prodotti presi sugli scaffali dei supermercati. E specifica: “Attenzione, questo è fondamentale: di ogni prodotto noi abbiamo esaminato un pezzo, uno , non di più, cioè non abbiamo preso un lotto, due lotti, tre lotti, dieci lotti, come si dovrebbe fare se si fa un controllo normale, di legge, eccetera e si va a vedere che cosa c’è in tutti questi prodotti. Noi abbiamo preso una scatola di quel tipo di biscotti, un barattolo di quell’omogeneizzato, eccetera, e abbiamo esaminato. E abbiamo visto che in gran parte di questi prodotti, non tutti certamente, ci sono queste polveri che noi cerchiamo“.
In pratica si era trattato di controlli casuali, che avevano sicuramente evidenziato un possibile problema di inquinamento ambientale ma che non avevano e non potevano avere alcuna valenza scientifica, visto che poter definire una prova “scientifica” occorrono, come in parte ammette lo stesso Montanari, campionature mirate, analisi protocollate e, ovviamente, la pubblicazione dei risultati. In assenza di tutto questo, Montanari non disponeva di alcuna vera “prova” da poter presentare alle ditte produttrici… e infatti non scrisse mai neppure una riga a queste ditte, come sostiene nella stessa intervista, sbugiardando Beppe Grillo.
Ecco le sue testuali parole: “la lettera che noi avremmo scritto a queste industrie: la lettera non esiste, non abbiamo mai scritto niente a nessuna industria, mai. Mai perché non abbiamo mai messo sotto accusa nessuno, cioè l’unico, l’unico ente che abbiamo messo sotto accusa è lo Stato, cioè chi legifera, chi non fa leggi per controllare questo tipo di inquinamento. Noi non abbiamo mai scritto nulla a nessuno. Quindi se non abbiamo mai scritto è chiaro che nessuno ci risponde. Non c’è lettera, non c’è risposta“. Eppure, nel video, si vede chiaramente Grillo che parla di queste lettere e si sente altrettanto chiaramente Montanari che non solo non si sogna di smentirlo, ma avvalora le sue parole ( “Hanno mai risposto, Stefano?” “No, no, mai!”). Inoltre Grillo, come si vede sempre chiaramente nel video, espone una “lista nera” di prodotti senza che Montanari, presente sullo stesso palco, si sogni di intervenire, di spiegare che si è trattato di campionature casuali, insomma di specificare, come fa invece nell’intervista, che “dare un elenco di prodotti da mettere all’indice non ha nessun significato scientifico”.
E non è tutto qui, purtroppo.
Un altro dato di fatto è che non siano mai state prodotte le prove (richieste più volte) del fatto che il primo microscopio elettronico fosse stato pagato anche con i soldi dei due ricercatori. Ma il dato di fatto ancor più eclatante è che il primo microscopio elettronico (quello “scippato” , secondo la prima versione di Montanari) sia lo stesso microscopio con cui la dottoressa Gatti sta tuttora lavorando al progetto europeo DIPNA. Sì, il microscopio è ancora in uso alla stessa ricercatrice: è con quello che porta avanti le sue ricerche, e non con il secondo microscopio, quello acquistato con la raccolta fondi.
Lo ammette, ancora una volta, lo stesso Montanari: “Il microscopio ci è stato tolto ormai già dal giugno del 2006, è rimasto imballato per nove mesi all’università di Modena, è stato riassemblato, rimontato diciamo così, di nuovo a spese nostre, perché noi adesso con quel microscopio portiamo avanti un altro progetto europeo“.
Dunque, il primo microscopio non venne mai realmente “sottratto” alle ricerche della dottoressa Gatti, ma semplicemente “spostato” dalla Nanodiagnostics di Modena all’Università di Modena. L’unica cosa che, di fatto, veniva impedita a Montanari/Gatti era l’utilizzo privato dell’apparecchiatura.
In conclusione, questi sono i dati di fatto:
a) il dottor Montanari lamentò la sottrazione di un microscopio che in realtà era ancora in uso a sua moglie per le proprie ricerche; b) raccontò a Beppe Grillo la storia delle merendine inquinate e permise a Grillo di basare, su questa “scoperta” che in realtà non aveva alcun fondamento scientifico, una serie di spettacoli mirati alla raccolta di fondi per un nuovo microscopio; c) a raccolta terminata e microscopio acquisito, negò la validità delle ricerche sulle merendine attribuendo a Grillo la responsabilità di aver “capito male, perché non era uno scienziato”.
Mi risultano dunque questi i motivi principali (ne esistono altri ancora, ma non posso scrivere un libro e quindi mi limito a quelli più gravi) per cui si interruppe il rapporto tra Beppe Grillo e Stefano Montanari, che oggi, in un’intervista rilasciata a Byoblu, si dichiara molto stupito del fatto che la Onlus e lo stesso Grillo “non si fossero più fatti vedere”. Forse non c’era molto di cui stupirsi…
Si aggiunga che Stefano Montanari, in alcune occasioni, millantò partecipazioni a progetti che in realtà non l’avevano affatto visto tra i protagonisti. Per esempio nella sua biografia sul sito della sua casa editrice si definisce “consulente del progetto Nanopathology” della CE; circostanza smentita dall’ufficio stampa della stessa Comunità Europea, consultato da una docente universitaria in chimica:
From: “ALEXANDRESCU Laura” <> To: (il nome del richiedente è stato omesso per ovvi motivi di privacy) Subject: RE: (Fwd) Re: DIPNA {REF RTD REG/G.4(2008)D/579365}]{REF RTD REG/E.3(2008)D/593026} Date sent: Wed, 3 Dec 2008 15:30:59 +0100
Il Dr Montanari non ha alcun titolo a vantarsi di aver partecipato ai 2 progetti finanziati…
Fin qui i fatti, comprovati, che ho potuto raccogliere sulla storia del primo microscopio. Quanto al secondo microscopio, acquistato grazie alla raccolta di fondi fondata (mi si perdoni il bisticcio) sull’equivoco si cui sopra, sarebbe rimasto probabilmente fuori dalla querelle tra Grillo e Montanari se solo i due scienziati avessero prodotto le prove del suo utilizzo a scopo di ricerca.
Purtroppo, come si legge sul sito della Onlus:“come più volte sollecitato ai due dottori, rimaniamo in attesa di una reportistica sui risultati e sulle scoperte scientifiche – confermate da pubblicazione e da attestati della comunità scientifica – prodotti in questi tre anni di possesso del microscopio. Ciò crediamo sia doveroso nei confronti dei benefattori. E’ evidente che riferimenti a ricerche e studi svolti prima dell’acquisto del microscopio in oggetto non sono inerenti a tale ripetuta richiesta, ma, anzi, possono risultare fuorvianti”.
In realtà, anche nell’intervista concessa al Ponente, il dottor Montanari mi ha parlato di scoperte (“le nanoparticelle entrano nel nucleo della cellula”, “le nanoparticelle passano dalla madre al feto”) che in realtà appartengono ad un periodo precedente l’acquisizione del microscopio. A dire il vero esse venivano già citate dal professor Renzo Tomatis, (scomparso nel 2007) in alcuni suoi studi. Ma senza voler entrare nel merito di “chi ha scoperto cosa”, visto che qui non stiamo facendo discussioni scientifiche né accademiche, se ne deduce comunque che queste scoperte non sono dovute alla presenza del microscopio elettronico nella sede della Nanodiagnostics. Non risultano, peraltro, pubblicazioni a nome Montanari e/o Gatti relative agli ultimi tre anni, ovvero al periodo di permanenza del microscopio presso il loro laboratorio.
Risulta invece che il microscopio è stato utilizzato per analisi private a pagamento: lo si evince dai ricavi dichiarati, visto che la mission principale della Nanodiagnostics sono appunto le analisi a pagamento. Il dottor Montanari, a questo proposito, rifiuta l’accusa di utilizzo lucroso, ma dichiara, in un post sul suo blog: “quello che facciamo per poter sopravvivere è cercare di vendere qualche analisi ai privati che se lo possono permettere e per questo usiamo anche (non sempre) il microscopio che, in qualche modo, cerca di contribuire al suo stesso mantenimento, visto che né lei né altri si muovono e tutto ci grava addosso“.
Queste spese di mantenimento del microscopio sono state indicate da Montanari in 90.000 euro/anno; ma anche questo costo è stato smentito dalla ditta produttrice, che invece le ha quantificate in circa 25/30.000 euro/anno.
Insomma: soltanto la mancanza di chiarezza sull’utilizzo del macchinario – e soprattutto la mancanza di pubblicazioni relative alle ricerche svolte per mezzo di questo microscopio (e non di quello dell’Università di Modena, pagato con fondi CE) - hanno indotto la Onlus Carlo Bortolani ad affidarlo all’Università di Urbino. Il resto sono opinioni, ipotesi, supposizioni. Per esempio: può esistere una macchinazione o un complotto politico ai danni di Montanari? Ma certo che sì! E’ risaputo, e ne abbiamo chiari esempi anche nella nostra provincia, che chiunque lotti contri inquinamento, inceneritori e affini è sicuramente malvisto ed è spesso soggetto a pressioni, ricatti e altre piacevolezze simili. Nessuno si sogna di negare che cementificatori e “inceneritoristi” siano capaci di tutto e che spesso abbiano un potere politico ed economico sufficiente a stroncare una carriera o a danneggiare gravemente chi lotta contro di loro. Purtroppo, in questo caso, la mia personale impressione è che i presunti nemici di Montanari non abbiano neppure avuto bisogno di entrare in azione, perché il dottore ha fatto tutto da solo. Le dichiarazioni e controdichiarazioni, l’indubbia strumentalizzazione del caso-merendine e il fatto di avere evidentemente carpito la fiducia di Beppe Grillo, per poi dissociarsene a risultato ottenuto, sicuramente gli hanno alienato diverse simpatie, nonostante si tenda (la sottoscritta per prima) a tifare sempre di cuore per chiunque sposi la causa ambientalista. Tifare per chi lo fa in modo scorretto, però, diventa più difficile; e anche ammettendo che il suo “non accorgersi che Beppe Grillo aveva frainteso” fosse per una buona causa e che comunque il fine giustificasse i mezzi, almeno a mio avviso, non è esattamente l’esempio di limpida correttezza professionale che ci si aspetterebbe da cotanta icona della ricerca italiana.
Per questo ritengo, personalmente, che il dottor Montanari abbia commesso qualche errore di troppo e che questi errori giustifichino la decisione di spostare il microscopio acquistato coi fondi dei cittadini in altra sede. Ancora oggi il dottor Montanari mi ha inviato alcune e-mail, una delle quali attacca l’Università di Urbino accusandola di “essersi schierata in più occasioni a favore di soggetti privati ed iniziative di carattere “imprenditoriale” di dubbia validità. Prova ne siano le recenti consulenze dell’Istituto di Botanica dell’Università e del Prof. Orazio Attanasi, in qualità di docente dell’Ateneo, a sostegno della realizzazione della centrale termoelettrica a cosiddette biomasse nel Comune di Orciano di Pesaro, un progetto ritenuto altamente pericoloso anche dall’IST – Istituto Nazionale per la Ricerca su Cancro di Genova, chiamato a esprimersi da uno dei comuni interessati.” Purtroppo, sempre dalle testimonianze in mio possesso, risulta che fu lo stesso Montanari ad indicare l’Università di Urbino come destinataria nominale del microscopio. Se sapeva che questo ente pubblico era complice degli inquinatori, per quale motivo l’ha scelto? E se non lo sapeva, come può oggi accusare (più o meno velatamente) la Bortolani Onlus di complicità occulte con un Ente che NON è stato scelto da loro?
Comunque, personalmente inviterei i lettori a separare nettamente le due cose, anzi tre: la ricerca da una parte, la lotta contro l’inquinamento dall’altra, la figura del dottor Montanari da un’altra ancora.
Se una qualsiasi di queste non risulta limpida come tutti vorremmo, non è necessariamente valido l’assunto secondo cui non valgono nulla neanche le altre. Non è così che funziona, e qualsiasi tentativo di virare questa storia a favore di inquinatori e inceneritori sarebbe una strumentalizzazione inaccettabile. La lotta contro l’inquinamento si basa su ricerche scientifiche fondate, validissime, alcune delle quali sicuramente attribuibili anche alla dottoressa Gatti, con la collaborazione del dottor Montanari: questo non va assolutamente messo in discussione. Purtroppo sembra risultare che il dottor Montanari, perseguendo il nobile scopo della ricerca – che personalmente voglio continuare a credere fondato su puri ideali e non su speranze di lucro personale – abbia manipolato un po’ troppo persone, dati e fatti. Quindi la mia, personalissima ed opinabilissima, opinione è che Beppe Grillo abbia avuto fondati motivi per allontanarsi da questa figura e che la Bortolani Onlus abbia altrettanto fondati motivi non per “rubargli” il microscopio, ma per collocarlo in una sede in cui possa essere utilizzato anche per altre ricerche e da altri scienziati, in grado di garantire quei risultati scientifici e quelle pubblicazioni ufficiali che fino ad oggi la Nanodiagnostics non ha prodotto,ma a cui i donatori hanno assolutamente diritto. Il tutto consentendo ugualmente a Montanari-Gatti di continuare a far uso del microscopio per le proprie ricerche, come risulta dall’atto di donazione. Certo, non sarà comodo fare ogni volta 200 chilometri per utilizzarlo: su questo il dottor Montanari ha sicuramente ragione. Però è anche vero che questo disagio appare come il risultato della sua scarsa trasparenza, e di questo non credo possa incolpare altri che se stesso. Che poi qualche potere (politico od economico che sia) legato agli inceneritori possa far festa, è fuor di dubbio: ma questa è la conseguenza, mentre non c’è alcuna prova che possa farlo ritenere la causa di quanto è successo.
Nota finale: ciò che ho pubblicato è il risultato di due giorni di ricerche; ma non pretendo sicuramente, in due giorni, (per quanto intensi) di aver sciolto tutti i nodi che compongono questa intricata storia. Il dottor Montanari avrà ampio diritto di replica, così come lo avranno tutte le persone informate che vorranno partecipare alla discussione, portando possibilmente fatti concreti: ma anche le semplici opinioni saranno bene accette. Come si sarà notato, in questo mio “punto della situazione” manca la testimonianza diretta di uno dei principali interessati, e cioè Beppe Grillo. In realtà avevo cercato di contattarlo tramite il meetup savonese; ma la sua decisione, comunicata dal suo assistente, è quella di “non rilasciare interviste su questa faccenda per non alimentare ulteriori “rumors” fino a quando (a breve) farà un post su questo argomento“. Ed ovviamente – anche se un po’ a malincuore – non possiamo che rispettarla.
ROMA - Si stringe il cerchio sulle molecole che causano la celiachia, l'intolleranza alla proteina dei cereali (glutine) che puo' causare seri problemi di assimilazione e deperimento: scoperte infatti le tre molecole tossiche responsabili della malattia, i frammenti (peptidi) del glutine che scatenano la reazione immunitaria nei pazienti. E' un passo avanti enorme che accelera la corsa verso un vaccino per questo male. Annunciata sulla rivista Science Translational Medicine, la scoperta ha gia' portato all'avvio di una prima sperimentazione su pazienti di una cura messa a punto sulla base dei tre peptidi colpevoli, che consiste nella desensibilizzazione dei pazienti al glutine, in pratica un vaccino che puo' bloccare la malattia prima che faccia danni gravi all'intestino. La sperimentazione in corso e' condotta dalla compagnia biotech di Melbourne Nexpep Pty Ltd. La scoperta e' merito dell'equipe di Bob Anderson e di Jason Tye-Din del Walter and Eliza Hall Institute of Medical Research a Parkville, Australia.
''E' un risultato importante che ci attendavamo dal gruppo di Anderson che da anni studia la celiachia ed e' a caccia di questi peptidi, ed e' un risultato arrivato anche prima del previsto; cio' permette grosso modo di dimezzare i tempi previsti per la messa a punto e la commercializzazione di nu vaccino, 5-10 anni contro i 15-20 ritenuti necessari finora'', ha commentato la notizia Italo De Vitis, dirigente dell'unita' di medicina interna e gastroenterologia dell'Universita' Cattolica di Roma presso il centro integrato Columbus che e' un presidio accreditato per sorveglianza, prevenzione e diagnosi della celiachia. La malattia e' un'intolleranza che causa seri problemi all'intestino, rovinandone le pareti. Come conseguenza di cio' il paziente non riesce piu' ad assimilare vitamine, minerali ed altri nutrienti assunti con la dieta e quindi anche gli altri organi ne risentono come se il corpo fosse malnutrito. In Italia si stima vi siano 600 mila celiaci ma solo 100 mila di questi sono venuti allo scoperto e quindi hanno nua diagnosi e tengono a bada la malattia, sostanzialmente non mangiando cereali e tutto cio' che contiene glutine. Per gli altri il rischio e' di gravi carenze nutrizionali e quindi, a lungo termine, di danni all'organismo o problemi di sviluppo nei bambini.
Il gruppo di Anderson, ha spiegato De Vitis, finora aveva scovato la sequenza di amminoacidi del glutine responsabile della reazione immunologica nel celiaco quando questo viene a contatto con la proteina, ma restavano imprecisati i peptidi contenuti in questa sequenza maggiormente responsabili della reazione immunitaria del malato. Gli esperti australiani hanno arruolato un gran numero di pazienti, 200, ed hanno fatto mangiare loro dei cereali. Dopo sei giorni con un prelievo di sangue hanno isolato le cellule immunitarie artefici della reazione al glutine ingerito giorni prima. Poi i ricercatori hanno fatto 'incontrare' queste cellule (linfociti T) con 2700 peptidi sospetti ed hanno trovato i tre che si accoppiano piu' saldamente alle cellule. Tali tre composti sono quindi i peptidi che piu' di tutti scatenano la reazione immunitaria e adesso sono oggetto di sperimentazione in un test per vedere se, somministrando in piccolissime quantita' i tre peptidi ai pazienti, questi pian piano si desensibilizzano nei confronti del glutine. ''La scoperta e' importante - ha concluso De Vitis - perche' potrebbe fornire una cura per il 90-95% dei celiaci e quindi assicurare il controllo precoce di questa malattia prima ancora che arrechi danni all'organismo e senza dover rinunciare ai cereali nella dieta''.