martedì 13 aprile 2021

Scuole aperte: ora che Dio ce la mandi buona. - Antonio Padellaro

 

Riaprono le scuole, ma sentire Roberto Speranza che parla di “tesoretto”, ma anche di “rischio”, lascia sgomenti (come dire: dio ce la mandi buona). Intanto, l’espressione (scema) “tesoretto” andrebbe abolita con apposito decreto legge (i Dpcm, è noto, li usano solo i dittatori, da Conte a Erdogan). Serve a evocare una riserva di immunizzazione – accumulata forse con le zone rosse pasquali – come se non sapessimo che il Covid bastardo torna a imperversare appena ti azzardi non a riaprire, ma persino a socchiudere. E dunque tesoretto non significa una mazza. Il ministro della Salute si appalesa da Fabio Fazio di domenica all’ora di cena, mentre noi con la forchetta sospesa siamo in attesa dell’Annuncio che assilla le famiglie italiane. Infatti, Fazio chiede come mai non si è pensato in tempo a organizzare nella scuole una campagna di test salivari a tappeto. Speranza snocciola “400mila test al giorno”. Fazio: “Nelle scuole?”. Speranza: “No, in tutta Italia”. Purtroppo non sapremo mai quanti sono i test nelle scuole perché il ministro s’incarta (e ci incarta) tra “protocolli in arrivo” e “test antigenici molto significativi”. Dalle case degli italiani s’alza un grido: dai Fazio, insistiti, chiedi al ministro se c’è il pericolo che dalle scuole non messe in sicurezza il contagio possa tornare a circolare. È questo il “rischio” di cui parla? Chi ci garantisce di non ritrovarci nei casini come l’autunno scorso? Niente da fare. Pubblicità.

A ruota scoppia la grana dei docenti immunizzati dove capita, dopo che il piano del generale Figliuolo (niente più categorie, si procede vaccinando anziani e fragili) ha lasciato scoperto il 30 per cento del personale scolastico. Resta garantita la seconda dose per tutti quelli che hanno già ricevuto la prima, ma grande è la confusione sotto il cielo delle fiale. Per questo il virologo Andrea Crisanti sostiene che “nel riaprire le scuole senza aver vaccinato come ha fatto il Regno Unito ci prendiamo un grande rischio”? Accidenti, di “rischio” non parla anche Speranza? Sì, ma poi spiega che “tutti i dati che abbiamo ci dicono che dentro le aule non ci sono problematicità emergenziali, il punto è la quantità di movimenti che si sviluppa intorno alla scuola”. Problematicità emergenziali. Movimenti che si sviluppano. Più chiaro di così! (dio ce la mandi buona).

IlFattoQuotidiano

Draghi, troppi scivoloni e poco polso sui ministri. - Sergio Rinaldi Tufi

 

Quando Conte teneva le conferenze stampa che illustravano le misure del suo governo, molti dicevano che il luogo corretto per comunicare sarebbe stato il Parlamento (cosa per la verità non del tutto infondata: in teoria si sarebbe anche potuto verificare che da Camera o Senato venisse qualche osservazione utile). Ora Draghi fa le conferenze stampa, e nessuno dice nulla. Ma si insinuava anche che non fosse casuale la scelta degli orari, quelli di grande ascolto in concomitanza con i Tg. Ora Draghi parla addirittura nell’orario de L’Eredità, la seguitissina trasmissione pre-serale dell’ottimo Flavio Insinna, e anche qui silenzio-assenso.

Se possiamo però interrompere questo giochino del comportamento della grande stampa, e degli stessi politici, “prima” e “dopo”, bisogna un po’ affrontare il problema del “come”. Purtroppo, malgrado l’eccezionale levatura del personaggio, le conferenze stampa di Draghi non sono soddisfacenti. Intanto, l’occhio vuole la sua parte: a confronto con le aule parlamentari o con le fin troppo scenografiche ambientazioni di Conte-Casalino, la sede ora scelta in nome di una lodatissima “sobrietà”, a ben vedere, più che sobria è povera. Qualcuno si è spinto a lodare l’azzurro della parete di fondo. Be’, non è brutto ma è normale. Aggiungendo qualche logo di sponsor sembrerebbe una sala conferenze per allenatori di calcio prima e dopo le partite. A dominare la scena lì è però un altro Conte, il tecnico che sta conducendo l’Inter a un meritato scudetto…

Ma veniamo ai contenuti e (se ci si consente) alle tecniche oratorie, soffermandoci proprio sulle comunicazioni in zona-Insinna. Intanto, le scelta di dare direttamente la linea alle domande dei giornalisti rischiava di essere un boomerang, e boomerang è stato. Un personaggio di alto profilo come Draghi non può avviare una discussione senza una robusta relazione iniziale che fissi limiti e paletti, altrimenti poi le domande, che già di solito sono un po’ troppo variegate, rimbalzano per ogni dove. E qualche rimbalzo, in questo caso, è stato un falso rimbalzo.

Sui due casi, il caso-Erdogan e il caso-psicologi, si è già detto molto, ma resta spazio per qualche osservazione ulteriore. A proposito di Erdogan “dittatore”, si potrebbe premettere che forse il leader turco non si aspettava una definizione così ostile perché uno dei predecessori di Draghi, e cioè Berlusconi, ha più volte tenuto con lui ben diversi atteggiamenti: nel 2003 facendo addirittura il testimone di nozze al figlio del presidente turco, con tanto di baciamano-gaffe alla sposa (gesto da quelle parti inconsueto, per usare un’espressione cauta), e nel 2018 partecipando alla cerimonia di insediamento di Erdogan stesso dopo una vittoria elettorale peraltro non sorprendente. Alla domanda sulla poltrona negata a Ursula von der Leyen si sarebbe potuto rispondere con vari tipi di riprovazione, alludendo per esempio genericamente alla condizione della donna in quel Paese: un tema grave, ma ormai talmente dibattuto da non suscitare sorprese. L’impressione è che Draghi parlasse un po’ a ruota libera, anche una o due altre frasi sono risultate un po’ traballanti, ma quel “dittatore” è sembrata proprio una “voce dal sen fuggita”, e i tentativi di metterci una pezza non sono stati brillantissimi.

Quanto agli psicologi (a cui questo giornale ha già dato voce nei giorni scorsi), non si sa se sia peggiore la non-comprensione di una professione o la non-conoscenza di un decreto dello stesso governo. Individuato il criterio, peraltro condivisibile (e in questo caso ben illustrato) della fasce di età, sul resto il Presidente non era forse del tutto concentrato. Una cosa che da una testa ordinata come la sua non ci si aspetta. Il timore è che Draghi abbia compiuto una scelta: occuparsi prevalentemente della situazione economica (e questo ben venga, tenendo conto anche che i suoi ministri hanno già correttamente dichiarato che il Recovery Plan di Conte e Gualtieri va corretto ma non di molto), delegando ad altri la situazione sanitaria. Se per “altri” si intende il ministro Speranza, benissimo, e benissimo anche la fiducia nei suoi confronti perentoriamente confermata negli incontri con Salvini; ma, se si intendono altri ministri o commissari (specialmente ora che sembra si alzi un polverone-Arcuri) è bene che il Presidente vigili con tutta la sua autorevolezza.

IlFattoQuotidiano

Anche io avverto, nell'atteggiamento di Draghi, quasi disinteresse. Non mi sento supportata, non mi sento informata, mi sento frastornata, non seguita, allo sbando.

Tutt'altra cosa era Conte, grande trascinatore, avvolgente. Con lui mi sentivo al sicuro.

E non sono in grado di affermare che la mia sensazione rifletta la realtà che mi circonda, ma è questo ciò che il mio istinto mi suggerisce.
Nulla da dire su come Draghi potrà amministrare la montagna di soldi che arriverà dall'Europa - che io utilizzerei come una casalinga che amministra una casa e la relativa famiglia - ma credo che in quanto ad amministrazione dello stato emozionale di chi deve governare, abbia enormi carenze dovute, forse, al fatto che da economista, accademico, banchiere, dirigente pubblico e politico italiano, citando il Giusti possiamo dire, senza ombra di dubbio: 

"Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt'altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato."
c.

Dosi e morti in Europa. Soltanto in Polonia va peggio che in Italia. - Giampiero Calapà

 

L’Italia, con quasi 400 morti al giorno nell’ultimo mese, è il secondo peggior Paese d’Europa per decessi dopo la Polonia, spia che qualcosa non funziona nella campagna di vaccinazione affidata dal 1° marzo alla cura taumaturgica del generale Francesco Paolo Figliuolo, perché le somministrazioni sono state fatte “alle categorie sbagliate di persone”, rileva l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), perché, a differenza di quanto vuole adesso fare il governatore della Campania Vincenzo De Luca contravvenendo all’annunciata correzione di rotta di Palazzo Chigi, è proprio l’età che conta.

Non è una questione di velocità delle somministrazioni dei vaccini, “tanto che più o meno l’Italia esaurisce le scorte di fiale in dieci, undici giorni, esattamente come la Germania – spiega Matteo Villa dell’Ispi – e può trarre in inganno leggere cifre giornaliere perché dipendono anche da quante fiale sono rimaste in frigo, queste comparazioni avranno magari senso fra un mese quando ci sarà un quantitativo più massiccio di vaccini per Paese”; il vero problema è aver vaccinato male come emerge chiaramente dai dati sui decessi settimanali per milione di abitanti tra il 1° marzo e il 7 aprile pubblicati proprio dall’Ispi.

Secondo il report dell’Ispi con 45 decessi settimanali per milione di abitanti, l’Italia è messa nettamente peggio rispetto alla Francia (32 decessi, -29%), ma soprattutto alla Germania (16 decessi, -64%) e al Regno Unito (11 decessi, -76%). “Mentre per il Regno Unito – si legge nel report – sembrerebbe piuttosto immediato attribuire questa riduzione alla rapida progressione della campagna vaccinale, in realtà per tutti i Paesi a contare molto sono ancora due fattori: le vaccinazioni, certo, ma anche le misure di contenimento adottate”. Rispetto alle vaccinazioni, che stanno migliorando la situazione in quasi tutta Europa, nonostante una progressione ancora piuttosto lenta, in Italia pesano, certifica l’Ispi, “gli errori commessi dalla strategia vaccinale italiana”.

Rispetto a Germania e Regno Unito (16 e 11 decessi settimanali per milione di abitanti) le cose vanno peggio dove sono state adottate misure meno severe come in Italia e Francia: decessi nettamente più elevati (rispettivamente 45 e 32), e una differenza anche qui di circa il 30% a sfavore dell’Italia. E questo succede, rileva l’Ispi, “perché in Italia, rispetto a Francia e Germania, la campagna vaccinale ha visto la somministrazione di un numero pressoché identico di dosi, ma alle categorie ‘sbagliate’ di persone”.

Nel dettaglio: “A fine febbraio avevamo somministrato la prima dose di vaccino solo al 6% delle persone ultraottantenni, mentre Parigi e Berlino erano al 22% e 23%: quasi il quadruplo. E oggi, a inizio aprile, abbiamo recuperato sugli over 80, ma restiamo molto indietro sulla fascia di età 70-79 anni: se Italia e Francia sono ormai appaiate sugli over 80 al 62%, Parigi ha vaccinato quasi il 50% dei 70-79enni, mentre l’Italia è ferma al 13%”, un divario abissale che si paga oggi in numero di persone che non ce la fanno dopo aver contratto il Covid-19.

L’impietosa classifica europea dei decessi settimanali per milione di abitanti, quindi, vede l’Italia al secondo posto: 1. Polonia 58; 2. Italia 45; 3. Romania 41; 4. Grecia 37; 5. Francia 32; 6. Spagna 26; 7. Austria 20; 8. Belgio 19; 9. Germania 16; 10. Paesi Bassi 12; 11. Regno Unito 11; 12. Portogallo e Svizzera 10.

Con una campagna vaccinale modulata meglio per fasce d’età, insomma, secondo un’altra stima dell’Ispi l’effetto delle immunizzazioni sui decessi avrebbero salvato nell’ultimo mese tra le 100 e le 200 persone al giorno che, invece, sono morte a causa del Covid-19.

IlFattoQuotidiano

Casaleggio e bottega. - Marco Travaglio

 

Per anni Davide Casaleggio, come già suo padre Gianroberto, ha dovuto smentire le fake news che lo dipingevano come il capo della Spectre grillina, il padrone occulto dei 5Stelle, il burattinaio dei voti sulla piattaforma Rousseau: “Io svolgo solo un ruolo di supporto gratuito, sono uno dei tanti attivisti volontari”, “i parlamentari versano una quota dello stipendio come si fa con qualunque associazione culturale”. Un fornitore. Ma da un po’ di tempo fa di tutto per confermare le fake news e smentire le sue smentite. Fino al tragicomico ultimatum dell’altro giorno, con l’accusa al M5S di “mettere in difficoltà finanziaria Rousseau per mettere sul tavolo il terzo mandato e altre regole”. Non sappiamo se sia vero o falso e ce ne importa il giusto. Ma anche se fosse? Lui che c’entra, se non è il padrone? Il limite dei due mandati non è neppure nello Statuto: solo nel regolamento elettorale. Se qualcuno lo vuol cambiare, lo metterà ai voti e gli iscritti, non Casaleggio, decideranno. Idem per la piattaforma: dove sta scritto che la democrazia digitale si realizza solo con la Rousseau e non con la Pippo?

Casaleggio lacrima per i sacrifici fatti: “Potevo fare il ministro, chiedere uno stipendio…”. Ma, se avesse fatto il ministro, difficilmente avrebbe potuto fare il presidente della Casaleggio Associati, consulente di gruppi toccati da norme del suo governo, tipo Philip Morris e Onorato (come il Fatto documentò due anni fa): sarebbe passato dal conflitto d’interessi potenziale a quello reale. Quanto allo stipendio, vi ha rinunciato perché non poteva averlo: Rousseau è un’associazione non profit. Ora, visto che il nuovo corso non gli garba, ha tutto il diritto di farsi un partitucolo con qualche fuoruscito portandogli la piattaforma Rousseau, sempreché riesca a dimostrare che è sua. E così non è, visto che è stata costruita con le donazioni di parlamentari e amministratori locali M5S (3,5 milioni solo negli ultimi tre anni per un servizio che vale sul mercato, a dir tanto, 500mila euro). Trattarla come proprietà privata sarebbe come costruire una casa per conto e coi soldi di un cliente e poi pretendere di andarci ad abitare. Basta leggere lo Statuto: “L’Associazione ha lo scopo, senza il perseguimento di alcuna finalità di lucro, di promuovere lo sviluppo della democrazia digitale nonché di coadiuvare il M5S”. C’è poi una questioncella di privacy: Casaleggio è solo il “responsabile” del trattamento dei dati degli iscritti: ma per conto del “titolare”, che è il Movimento. E spetta al Movimento, non a lui, decidere regole, leader e tutto quel che gli pare. A meno che non conosca un fornitore che detta ai suoi clienti le strategie aziendali e decide pure come devono vestirsi e chi devono sposarsi.

IlFattoQuotidiano

Chiarimento tra von der Leyen e Michel: 'Non accada più'. -

 

BRUXELLES - "Quanto accaduto ad Ankara non si ripeta mai più". Dopo una settimana di gelo per il Sofagate in Turchia, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha incontrato oggi per la prima volta faccia a faccia il presidente del Consiglio Charles MichelE ha voluto mettere le cose in chiaro una volta per tutte, cercando al contempo di stemperare i dissapori per la mancata reazione del politico belga, che nel corso della visita a Erdogan è rimasto seduto su una poltrona accanto al leader turco senza proferire verbo mentre la presidente tedesca veniva relegata su un divano a lato dei due. Attriti che avevano offuscato l'immagine della diplomazia dell'Unione e messo in luce le differenze tra le due istituzioni.

Il cielo sembra dunque tornato ad essere sereno sopra Bruxelles dopo l'incontro chiarificatore avvenuto a palazzo Berlaymont, sede dell'esecutivo comunitario, nel classico formato di routine settimanale. Secondo fonti europee, la presidente, in maniera gentile ma ferma, ha chiarito che non permetterà mai più che una situazione del genere si ripresenti un'altra volta. Michel e von der Leyen, oltre a discutere degli sviluppi della vicenda turca, hanno anche parlato di una serie di argomenti di attualità e domani, quasi a testimonianza di un riavvicinamento, parteciperanno entrambi alla Conferenza dei presidenti al Parlamento europeo, che potrebbe invitarli ad un dibattito in plenaria per chiarire davanti a tutti quanto accaduto nella missione da Erdogan.

Ad annunciare il faccia a faccia odierno era stato nel consueto briefing di mezzogiorno il portavoce dell'esecutivo comunitario Eric Mamer, precisando che Michel e von der Leyen non erano riusciti a parlarsi in questi sette giorni per svariati motivi. La presidente dopo la visita ad Ankara si era infatti recata in missione in Giordania e poi è andata in Germania per riunirsi alla sua famiglia, che non vedeva da Natale, occupandosi nel frattempo anche dei vari dossier sul tavolo. Una serie di appuntamenti che non le avevano dunque permesso di sentire Michel, secondo la versione ufficiale di Palazzo Berlaymont. Mamer aveva poi assicurato che "la cooperazione fra von der Leyen e Michel continuerà nell'interesse dell'Ue e dei cittadini", ricordando come la scorsa settimana la stessa presidente avesse chiesto ai suoi servizi di contattare i loro omologhi in Consiglio sull'accaduto per cercare un "modus vivendi" con l'obiettivo di evitare che simili situazioni non si ripetano in futuro.

Il presidente del Consiglio europeo domani parteciperà alla Conferenza dei presidenti del Parlamento Ue ed esprimerà il suo profondo rammarico per l'incidente di Ankara, in linea con quanto dichiarato pubblicamente. Lo rendono noto fonti europee. Michel affermerà inoltre che un simile incidente non può ripetersi e lancerà un appello a non permettere a nessuno di dividere l'Ue. Il presidente del Consiglio europeo infine porterà l'attenzione sulle principali sfide future come la politica estera dell'Unione, la diffusione dei vaccini, il clima e il piano digitale.

ANSA

Io ci andrei più cauta.
La donna, se vuole essere trattata alla stessa stregua di un uomo, non deve meravigliarsi se non le si cede una sedia.
La gentilezza è sempre apprezzata, anche tra uomini, maggiormente tra uomo e donna, ma non deve diventare una questione di etichetta da discutere addirittura in campo internazionale.
La donna non può pretendere di essere ritenuta abbastanza forte da poter occupare posti di prestigio e di potere, ma fragile in quanto donna.
Io metterei a tacere l'episodio perchè ritengo che durante l'incontro c'erano tre persone che avevano il compito di discutere di alcuni argomenti che credo avessero un'importanza rilevante rispetto ad una sedia non ceduta.
Fatto è che poco o nulla è trapelato dell'esito della riunione, ma molto su una sedia non ceduta.
Siamo alla frutta.
cetta

Fukushima, via libera Tokyo a rilascio acqua contaminata in mare.

 

Decisione presa nonostante l'opposizione di popolazione e pescatori.

Il governo giapponese ha deciso di rilasciare nell'Oceano Pacifico l'acqua contaminata fino ad oggi impiegata per raffreddare i reattori danneggiati dall'incidente nucleare di Fukushima.

Lo ha comunicato il premier Yoshihide Suga, confermando le anticipazioni della vigilia e malgrado la netta opposizione dell'opinione pubblica, dell'industria della pesca e dei rappresentanti dell'agricoltura locale. Suga ha incontrato i membri dell'esecutivo, incluso il ministro dell'Industria Hiroshi Kajiyama, per formalizzare la decisione, che arriva a 10 anni esatti dalla catastrofe del marzo 2011.

La manutenzione giornaliera della centrale di Fukushima Daiichi genera l'equivalente di 140 tonnellate di acqua contaminata, che - nonostante venga trattata negli impianti di bonifica, continua a contenere il trizio, un isotopo radioattivo dell'idrogeno. Poco più di 1.000 serbatoi si sono accumulati nella area adiacente all'impianto, l'equivalente di 1,25 milioni di tonnellate di liquido, e secondo il gestore della centrale, la Tokyo Electric Power (Tepco), le cisterne raggiungeranno la massima capacità consentita entro l'estate del 2022. Proteste contro lo sversamento dell'acqua in mare sono state espresse in passato anche dai paesi vicini, tra cui la Cina e la Corea del Sud. Nel febbraio dello scorso anno, durante una visita alla centrale, il direttore dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, aveva ammesso che il rilascio dell'acqua nell'Oceano Pacifico sarebbe in linea con gli standard internazionali dell'industria nucleare. Il triplice disastro di Fukushima è stato innescato dal terremoto di magnitudo 9 e il successivo tsunami, che ha provocato il surriscaldamento del combustibile nucleare, seguito dalla fusione del nocciolo all'interno dei reattori, a cui si accompagnarono le esplosioni di idrogeno e le emissioni di radiazioni. 

Cina e Corea del Sud hanno nuovamente criticato con forza il piano del Giappone, che ha rimarcato la sicurezza dell'operazione forte del sostegno dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) che ha definito la mossa simile allo smaltimento di acque reflue negli impianti nucleari in altre parti del mondo. Il processo, tuttavia, non inizierà probabilmente prima di diversi anni.

ANSA

Rinnovabili, l'India adesso sfida la Cina. - Carlo Pizzati. -

 

Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia, le emissioni inquinanti dell'India non verranno da strutture già esistenti ma da quelle che sono da costruire: trasporti, industrie e palazzi che ancora non esistono. E questa può essere una grande opportunità per creare sistemi più puliti. Un piano di investimenti sul clima potrebbe generare 24 milioni di posti di lavoro in 15 anni. E lanciare la grande sfida energetica alla Cina.

CHENNAI - In India il 38% dell'energia viene generata dalle tecnologie rinnovabili. L'obiettivo degli accordi di Parigi è di arrivare al 40% entro il 2030.  Ma il nuovo obiettivo è di arrivarci anche prima e arrivare al 57% entro il 2027, con 275 GigaWatt di rinnovabili, 72 GW di energia idroelettrica, 15 GW di nucleare e 100 GW da altre fonti a emissioni zero. E con questi numeri il premier Narendra Modi lancia la sfida alla Cina di Xi Jinping. Secondo le previsioni dell'Agenzia internazionale per l'energia, le emissioni inquinanti dell'India non verranno da strutture già esistenti ma da quelle che sono da costruire: trasporti, industrie e palazzi che ancora non esistono. Questa può essere una grande opportunità per creare sistemi più puliti, come già stanno facendo il territorio del Ladakh, lo stato del Sikkim e del Kerala e città come Chennai e Bangalore.

Utilitaria elettrica della Reva per le vie di Bangalore 

Ma la domanda che consegue è sempre: quale sarà il costo per la crescita economica? Da più parti emergono studi che tendono a dimostrare che la riduzione delle emissioni in diversi settori porterebbe non solo a una popolazione più sana, ma anche a un'economia più solida. Uno dei primi risultati di un'accelerata verso le energie alternative e rinnovabili sarebbe quello di conservare più acqua. Le attuali centrali elettriche indiane consumano molta acqua per i sistemi di raffreddamento. Secondo i dati del World Resources Institute dell'India, la svolta verso le rinnovabili potrebbe diminuire il consumo di acqua da 2,5 miliardi di metri cubi l'anno a 1 miliardo di metri cubi entro il 2050. Ovviamente le riduzioni di anidride carbonica ridurrebbero anche l'inquinamento che in India, secondo uno studio della rivista Lancet, nel 2019 ha causato 1 milione e 700 mila morti, il 18% dei morti totali.  Il tasso di mortalità per inquinamento all'aria aperta è aumentato del 115 per cento.

La decisione politica sulle energie alternative tiene sempre a mente non solo i benefici, ma anche l'impatto sull'occupazione. Secondo i dati del World Resources Institute, un piano di investimento intensivo sul clima potrebbe generare 24 milioni di posti di lavoro in 15 anni. Questo se si punta, ad esempio, sulla produzione di auto elettriche, elettricità più pulita ed elettrolisi a idrogeno. Scomparirebbero lavori di manutenzione e riparazione, ma se ne creerebbero di nuovi sia con lo stimolo statale sia grazie a un aumento dei consumi, vista la prevista crescita demografica del Paese.

Smog a Nuova Dehli 

"Di quali tecnologie avremo bisogno e a quale costo?" si chiede Ulka Kelkar, direttrice del programma climatico del World Resources Istitute indiano. "Secondo il modello economico applicato nel nostro studio, che comprende i maggiori settori ed esamina gli effetti combinati di diverse politiche da qui al 2050, l'impatto maggiore arriverà da un incremento dell'elettrificazione e dall'utilizzo dell'idrogeno come carburante nelle industrie del cemento, ferro, acciaio e chimica." Il risultato immediato sarebbe una limitazione della dipendenza dal petrolio, ma quindi anche da un calo delle entrate fiscali legate all'utilizzo di questo carburante. Questo potrebbe essere recuperato con una "tassa sul carbone" che incentiverebbe a ridurre ulteriormente le emissioni. Bisogna considerare che entro il 2030 l'India diventerà la nazione con più abitanti al mondo, un miliardo e mezzo, superando quindi la Cina, che si prevede arriverà a 1 miliardo e 460 milioni. Più popolazione (e più caldo con il riscaldamento globale) significa anche una maggiore richiesta energetica.

Una squadra di esperti del settore elettrico dell'Università di Santa Barbara, guidati dall'americano di origini indiane Ranjit Deshmukh, è convinta che l'India dovrebbe quindi incrementare gli sforzi per le energie rinnovabili anche per una convenienza economica. Dopo aver analizzato a fondo l'utilizzo elettrico in tutta l'India, considerando cambiamenti climatici stagionali e l'infrastruttura del fabbisogno energetico, questo gruppo di esperti ha dimostrato come le rinnovabili non riusciranno a evitare l'impiego di carbone e gas naturali, ma potranno incidere nel limitarle seriamente, contenendo anche le emissioni inquinanti. "Gran parte dei Paesi come l'India," ha spiegato il professor Deshmukh, "hanno avuto storicamente emissioni basse in confronto alle nazioni più industrializzate, quindi il nostro studio punta a dimostrare che le energie rinnovabili sono un'alternativa più conveniente dal punto di vista economico, e che vale quindi la pena investire in esse."

Il costo dell'energia eolica e solare, e anche quello di stoccaggio delle batterie, sta diminuendo talmente velocemente che oggi è più conveniente adottare le tecnologie verdi invece di quelle convenzionali più inquinanti, a prescindere dalle motivazioni di tutela dell'ambiente. Per dimostrarlo, la squadra di Santa Barbara ha creato un modello dettagliato che replica il sistema elettrico indiano. Sono state prese in considerazione tutte le variabili, comprese le previsioni di un incremento di richiesta in futuro e la variabilità delle condizioni atmosferiche che impattano sull'eolico e il solare, cosa che  rende necessario continuare ad appoggiarsi su sistemi più tradizionali di fonti di energia per garantire la continuità di servizio.

Anche se la crescita delle fonti di energia rinnovabile non eliminerà del tutto al dipendenza dalle centrali al carbone o di gas naturale potrà però ridurne seriamente l'utilizzo. "Più fonti di energia rinnovabile si installano," ha spiegato Deshmukh, "meno spesso ci si dovrà appoggiare alle centrali al carbone". Oltre all'energia solare, non disponibile però la notte, l'India può fare affidamento sui venti della stagione dei monsoni, che varia a seconda delle due coste, est e ovest, e ciò consentirebbe di chiudere più centrali al carbone nelle stagioni ventose. Secondo i calcoli degli studiosi di Santa Barbara, affidandosi più massicciamente alle alternative verdi in realtà l'India potrebbe arrivare a 600 GW di capacità con le rinnovabili entro il 2030, con un possibile lieve incremento di costo sui consumatori e in alcuni casi invece con un decremento dei costi.

LaRepubblica