E la ragione è semplice: l’indagine sugli umori degli italiani ha dato un risultato netto. L’idea di vedersi piazzata una centrale nucleare vicino a casa è capace, in un’epoca di crescente disaffezione per le urne, di fare il miracolo di trascinare al voto tante persone. Che poi magari, visto che ci sono, potrebbero mettere una croce anche sulla domanda sul legittimo impedimento, cioè sulla possibilità di dare a qualcuno uno status al di sopra delle leggi, situazione gradita all’attuale maggioranza ma considerata improponibile dal senso comune.
La formula di ritiro dal ring referendario è però ambigua e prova ancora una volta a lasciare la porta aperta a un futuro nucleare, non precisato nel tempo. Ma stavolta sembra finita l’epoca delle giravolte sull’atomo. A gennaio i più autorevoli rappresentanti del governo lo definivano tanto «sicuro e affidabile» da poter garantire il 25 per cento dei nostri consumi elettrici. Anche all’indomani del disastro di Fukushima il ministro dell’Ambiente assicurò «naturalmente il piano nucleare va avanti». Adesso si dichiara forfait. Per riesumare domani i progetti imbalsamati? Visto che dispone di tanti esperti nucleari, il governo può chiedere loro se l’atomo può essere trattato come un paio di jeans: si può tirar fuori a seconda delle stagioni, magari cambiando il format delle centrali e aggiornando gli spot pubblicitari? Dopo mezzo secolo di esperienze un po’ più collaudate, a Fukushima ora la pensano diversamente.
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